
Sulla “Grande Guerra” ho letto diversi libri, molti di questi, anzi quasi tutti si astengano dalla solita retorica, della “vittoria mutilata” o del completamento del cosiddetto Risorgimento. Da poco ho letto un’opera collettanea a cura di Donato Bragatto e Enrico Trevisani, “Della Guerra e del Ricordo. Saggi storici nel centenario della Grande Guerra”, Edizioni Fr, Ferrara (pp. 199; 2016). All’edizione hanno collaborato diverse associazioni culturali. E’ un libro che si pone l’obiettivo di affrontare la Prima Guerra Mondiale da diverse angolature. Nel complesso sono pubblicate undici contributi, sempre con uno sguardo ai militari ferraresi al fronte. Il filo rosso che li collega non è la macrostoria degli eventi, ma su elementi che finora erano stati poco studiati, tipo i diari del combattente. Il testo si suddivide in quattro Parti. In particolare, mi hanno interessato ad alcuni temi, tipo quelli dedicati ai prigionieri di guerra, i cappellani militari e preti-soldati, il contributo dell’industria automobilistica italiana e soprattutto quello della Propaganda e identità. Noi e l’Altro nella Grande Guerra. Sui prigionieri di guerra, Gian Paolo Bertelli calcola che i prigionieri morti dovrebbero essere 100 mila; inoltre, Cadorna e Sonnino “si dimostrarono cinicamente contrari ad ogni forma di assistenza verso i nostri militari internati; al fine di scoraggiare la presunta propensione di una parte delle nostra truppe a consegnarsi al nemico per evitare il combattimento”. Soltanto nel 1918 poi Orlando ha dato modo di organizzare una spedizione di generi di conforto e viveri. Dopo Diaz pensò di deportare i nostri militari di ritorno dai campi di prigionia in Libia e in Macedonia. “Si riteneva isolare questi soldati rei di essersi arresi al nemico”. E di rinchiuderli soprattutto quelli rientrati dagli Imperi Centrali. Naturalmente i dati forniti dalla “macrostoria” sono diversi da quelli ben più dettagliati dalle numerose testimonianze provenienti dai diari e dalle memorie che vennero date alle stampe. Sui cappellani militari ne parla lo storico Achille Maria Giachino che fa riferimento alla circolare del 12 aprile 1915 del Capo di Stato Maggiore, gen. Luigi Cadorna che reintrodusse la figura del cappellano militare assegnandone uno per ogni reggimento. Il Papa Benedetto XV, nominò monsignor Angelo Lorenzo Bartolomasi come vescovo di campo. Qui lo storico evidenzia la difficile condizione di operare dei vari cappellani nelle zone di guerra, specialmente nelle trincee. “La guerra pose i cappellani nella difficile situazione di dover coprire due ruoli molto diversi tra loro: da un lato annunciare il Vangelo e dall’altro infondere nel soldato le virtù proprie del militare, che lo avrebbe sostenuto nella lotta finalizzata al raggiungimento della vittoria”. Il cappellano aveva un doppio ruolo. Non solo deve affrontare i pericoli della guerra, ma deve confortare, spronare con la parola i soldati al compimento del proprio dovere. Il cappellano aveva anche l’importante incarico di tenere la corrispondenza tra l’esercito e le famiglie dei saldati. Alcuni hanno svolto anche l’incarico della censura: vigilare e controllare le notizie inviate dal fronte. I cappellani qualche volta si sostituirono ai soldati compiendo atti di coraggio e abnegazione. “Al termine del conflitto – scrive Giachino – molti ecclesiastici patirono una profonda crisi di identità […]”. In pratica, si presentò il caso del “prete reduce”. I vescovi hanno dovuto “lavorare” per “ripulirli dalla polvere mondana”. Alcuni di questi preti, trecentocinquanta furono sospesi a divinis. La Seconda Parte del libro, tratta della guerra di parole: la lingua e la propaganda. Sono interessanti i contributi scritti (memorie, diari) che raccoglie il professore Fabio Romanini dell’università di Trieste. La mia attenzione va all’aspetto della Propaganda. Per la prima volta, la propaganda viene usata in maniera massiccia in questa guerra. “Studiare la propaganda significa avvicinarsi a svariati aspetti di grande significato: il grande contributo di intellettuali e uomini di cultura allo sforzo bellico, l’impatto di parole e immagini sulla coscienza collettiva, l’uso di strumenti psicologici per indirizzare la credenza della masse”. Del resto, lo abbiamo visto in questi mesi per il conflitto in Medio Oriente, tra Israele e Hamas, ma anche in Ucraina. In questo saggio si analizza il tema della propaganda in relazione agli aspetti psicologici e alla questione dell’identità. Romanini fa riferimento allo studio di Gustave Le Bon, in particolare al capitolo che riguarda il tema della suggestionabilità della folla e dalla nascita da essa delle leggende e dei falsi racconti. La folla viene accostata agli aspetti propri del selvaggio o del bambino. La folla crede e basta, non si pone interrogativi o domande. Le masse generano leggende e credenze inverosimili. Interessante la descrizione dei vari stereotipi affibbiati al nemico, al tedesco, uguale al barbaro unno. Un altro riferimento del professore è quello del filosofo Jacques Ellul che ha sottolineato lo stretto legame che esiste tra la massa e la propaganda. Fino a parlare di uomo-massa, che si sposta da una folla all’altra. Mentre la società primitiva è meno adatta alla propaganda, perché rigida ed ha pochi simboli.
“Prima ancora di creare un’immagine del nemico, i belligeranti ne creano uno di se stessi, ovviamente positiva, che serve a giustificare la guerra e i sacrifici che essa richiede”. Basta osservare i vari manifesti di propaganda sul soldato italiano. Interessante le poesie o le canzoni di D’Annunzio, che offre l’immagine di Dante, visto come nume tutelare nella guerra contro la barbara Austria. Naturalmente in questo frangente della Grande Guerra subentra nei confronti del nemico il legame della propaganda con il razzismo. Idee in quel momento ben presenti in Europa. C’è uno sforzo di individuare i caratteri di ciascuna delle due “razze”. La contrapposizione tra la latinità dell’Italia e il germanesimo. Da una parte la civiltà della bellezza, dell’armonia, dell’eleganza, dall’altra, la durezza, la rapacità, l’avidità.
Comunque, sono del parere che per leggere i libri sulla Grande Guerra è utile tenere conto delle osservazioni dello storico Aldo A. Mola, che ha scritto molte pagine di storia italiana. In un fascicolo de Il Domenicale (2.4.2005, n.14) col titolo “1915. L’Italia grottesca. Alleata dei suoi nemici”., Mola fa una analisi critica della guerra, partendo dalle vittime, 14 milioni, una catastrofe umana, una tragedia immane. Una vera e propria ecatombe. Ad onta della retorica bellicistica, che allora s’impadronì di molti, la Grande Guerra fu un vero sfacelo. Soprattutto per l’Italia. Mola citando una Mostra curata da Accame con Claudio Strinati a Roma su “90 anni dalla grande guerra”, e allestita alla Termini Art Gallery. È un pugno nello stomaco che aiuta a riflettere su quello strano ricorrente entusiasmo per la guerra. L’Italia pagò il proprio contributo di sangue con 620 mila morti e più di un milione di mutilati, i cui drammi umani non sono stati mai ricostruiti in un libro. Sono tanti gli spunti interessanti che Mola fa emergere in questo suo intervento. Intanto, tutti gli eserciti in campo erano convinti di fare una guerra lampo e quindi di una vittoria folgorante, ma ben presto divenne una guerra di logoramento. Ogni attacco sembrava quello decisivo, che puntualmente veniva fermato, poi partiva la controffensiva dell’aggredito. Ma tutto era inutile. “Così la guerra divenne una fornace che bruciò giovani vite a milioni: non solo contadini, ma figli della piccola e media borghesia, studenti universitarie neolaureati e così via…Papa Benedetto XV non esitò a bollare la carneficina come “inutile strage”. Il Papa aveva intuito che quella guerra, con i morti ammazzati nella guerra di trincea, impigliati nei reticolati, assassinati con i gas, irrecuperabili, irrigiditi e imputriditi, sconvolgevano la psiche di milioni di europei, indotti a concludere che la vita non vale più niente. Quella guerra fu la negazione di decenni di pacifismo e spianò la via a tutti i tipi di fanatismo. Benchè i neutrali fossero la maggioranza, prevalsero le minoranze rumorose: i nazionalisti, secondo i quali la guerra “è la sola igiene del mondo’”, chiedevano l’intervento immediato, che l’Italia entrasse in guerra. In un primo momento non importava con chi. Volevano sangue. Avevano il sostegno della grande stampa, a cominciare dal Corriere della Sera di Luigi Albertini, che da anni ospitava le lautamente pagate canzoni di Gabriele D’Annunzio fanatico sostenitore della guerra. Con lui c’era Benito Mussolini che uscito dal Partito socialista fondò il Popolo d’Italia e si schierò per l’intervento, come lui anche Antonio Gramsci, Palmito Togliatti, Giuseppe Di Vittorio.


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