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Giustamente in questi giorni in conseguenza dell'aumento dei contagi da Covid 19 le preoccupazioni sono rivolte alla tenuta del sistema sanitario nazionale, ma nello stesso tempo anche alla tenuta del sistema economico del Paese. Il Governo e le Regioni hanno emanato misure restrittive delle libertà individuali: di movimento, di riunione, di impresa etc. Misure per evitare il lockdown generale.

Tuttavia c'è un'altra pandemia in incubazione di cui si parla poco, per la verità ogni tanto si intervista qualche esperto, ma finisce lì, mi riferisco alla salute mentale. Il tema è stato affrontato da un ben documentato studio di Francesco Cavallo sul sito del “Centro Studi Rosario Livatino”.

«La prospettiva che questo stato di cose duri fino a quando non sarà disponibile un vaccino efficace impone la considerazione di questo aspetto». (Francesco Cavallo, “pandemia di paura” e salute mentale in crisi, 24.10.20, in Centrostudilivatino.it) Pertanto i governi per rendere possibile la convivenza di una comunità con il virus «si tornano a udire appelli a rinunciare a ciò che non sia “indispensabile”, a “restare in casa”, per “salvare vite”. Che cosa è “indispensabile”, chi lo stabilisce?».

Cavallo segnala il disagio di alcune famiglie di ragazzi con disturbi da sindrome di down, ma anche quelle da sindromi dello spettro autistico hanno evidenziato i costi elevati, i danni al percorso di cura di queste persone, che procura il distanziamento sociale. Fanno notare una regressione conseguente alle patologie, dovute proprio alle  conseguenti privazioni di relazioni sociali fornite dalla scuola, dai centri diurni di supporto, dallo sport, dalla rete di relazioni familiari e amicali.

Non solo ma anche altre persone subiscono danni alla salute, come quelle della sindrome dell'Alzheimer, spesso confinate in strutture alle quali è precluso l’accesso, derivanti dalla mancanza di stimolazione mentale e sociale.

L'editoriale del Centro Studi Livatino, fa riferimento a uno studio del Center for Disease Control and Prevention (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, agenzia federale degli Stati Uniti, facente parte del Dipartimento della salute e dei servizi umani che opera quale organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America).

Il Centro americano «ha pubblicato un rapporto sugli effetti sulla salute mentale delle misure restrittive su un campione cospicuo di americani al mese di giugno scorso. I risultati sono coerenti con ciò che molti psichiatri affermano da tempo: il 40% degli intervistati ha riferito almeno una condizione di salute mentale o comportamentale negativa. Il 30% ha riferito sintomi di disturbo d’ansia o disturbo depressivo e il 25% ha riferito sintomi di disturbo traumatico da stress a causa della pandemia. Il 13% ha riferito di aver iniziato o aumentato l’uso di sostanze stupefacenti o alcol per far fronte allo stress o alle emozioni negative legate ai lockdown e alle misure restrittive».

Addirittura alcuni degli intervistati hanno seriamente pensato al suicidio. Sempre dalle indagini del Centro americano, rispetto al giugno 2019 «la prevalenza dei disturbi d’ansia risulta triplicata (26% contro 8%) e la prevalenza dei disturbi depressivi risulta quadruplicata (24,3% contro 6,5%): è raro vedere questo tipo di cambiamenti nell’epidemiologia psichiatrica da un anno all’altro. I tassi di tentazioni suicide erano più alti tra coloro che si fanno carico dell’assistenza familiare di anziani e disabili (31%), tra i lavoratori nel settore dei servizi pubblici essenziali (22%), tra le minoranze (19% ispanici, 15,1% neri)».

Inoltre Cavallo fa riferimento a un altro studio a campione sulla popolazione inglese, l'Office of National Statistics britannico (Agenzia governativa britannica che raccoglie, analizza e pubblica le informazioni statistiche sull’economia, la popolazione e la società nel paese. L’equivalente dell’Istat in Italia).

Nello studio si rileva che rispetto a un anno prima, nel Regno Unito, i tassi di depressione sono raddoppiati nel corso delle misure restrittive, con picchi significativi di depressione grave. Questo aumento è stato più sensibile tra i giovani adulti e con disabilità.

Ritornando agli Stati Uniti si far notare che i cosiddetti morti per disperazione (suicidio, droga e decessi correlati all’alcol, spesso associate a fattori socioeconomici) erano in aumento già prima della pandemia, e la diffusione dell’utilizzo di oppiacei stava già avendo un impatto enorme. Ebbene, in conseguenza delle misure di distanziamento sociale si è assistito a un ulteriore incredibile aumento del consumo di oppiacei con più di 40 stati che dall’inizio della pandemia hanno registrato un aumento dei decessi conseguenza diretta dell’uso di queste sostanze stupefacenti».

Questi studi considerano anche «l’ipotesi di una crisi economica senza precedenti e una massiccia disoccupazione, associate al già avvenuto isolamento sociale obbligatorio per mesi e a possibili ulteriori misure di isolamento per i prossimi due anni».

Peraltro Aaron Kheriaty, docente di psichiatria ed etica della professione medica alla University of California Irvine, sostiene che «ci sono oggi persone di tutte le estrazioni sociali, religiose e politiche completamente paralizzate dal terrore. E non mi riferisco a individui psicotici o maniacali, ma a persone altrimenti sane. Oltre a una pandemia virale, abbiamo una pandemia di paura: paura del virus e paura alimentata dall’attuale clima sociale, comunicativo, economico, politico nonché dall’isolamento. “Pandemia di paura” non è una metafora; è una realtà: questo livello di paura pervasiva e costante fa un danno reale e misurabile».

Dunque da questi studi proposti dal Centro Studi Livatino si desume che

«l’isolamento sociale può uccidere, o comunque nuoce anch’esso alla salute (anche come conseguenza indiretta della ricadute socio-economiche – “il PIL”)». Pertanto, per Cavallo, «Non è vero che le relazioni umane non sono “indispensabili”. Sarà forse così per qualche esponente di governo, ma di isolamento (affettivo e sociale), depressione, disoccupazione, conseguente abuso di alcol e uso di droghe, suicidio, sedentarietà, si muore, esattamente come di Covid. Tutto ciò non può essere negato o trascurato nel momento in cui si assumono le necessarie decisioni per fronteggiare la pandemia di COVID: considerare solo la curva dei contagi o le proiezioni della pressione ospedaliera e della mortalità (quasi sempre con comorbilità) non è sufficiente».

Cavallo non manca di criticare le misure prese dal Governo, in particolare sul distanziamento sociale che certamente non ferma il virus, forse lo rallenta, come si è visto nella prima ondata della primavera scorsa.

«La pandemia non si ferma davanti ai “coprifuoco” e alle altre restrizioni della vita sociale, economica, pubblica: pensare di farlo mettendo in pausa il mondo equivale ad ammazzare il paziente per arrestare l’emorragia». Per fermarla serve secondo Cavallo un vaccino efficace  e una percentuale sufficiente della popolazione che abbia acquisito un’immunità duratura.

Pertanto è ragionevole che fino ad allora, ovvero per un tempo non prevedibile e potenzialmente molto lungo, debbano essere caldeggiate o imposte misure di isolamento sociale, «che finiscono col determinare lo stravolgimento del sistema d’istruzione, la sospensione delle attività di cura e supporto di disabili, l’impedimento di attività sportive con risvolti relazionali imprescindibili per bambini e disabili, il rallentamento ulteriore della giustizia di ogni ordine e grado, la chiusura o la significativa compressione di attività commerciali, financo la impossibilità di celebrare sacramenti o partecipare a indispensabili funzioni religiose (come pure è accaduto)?»

E ancora lo studioso del Centro Livatino si chiede se, «È ragionevole continuare a non considerare che se bambini e ragazzi non vanno a scuola e gli adulti sani non lavorano aumenteranno le “morti per disperazione”?»

È giusto far pagare agli studenti, ai disabili, ai malati oncologici, ai soggetto a rischio di malattie cardiovascolari, ai pazienti psichiatrici e ai malati di depressione grave la incapacità del potere pubblico di migliorare in questi mesi l’organizzazione complessiva del sistema sanitario e di altri asset strategici della quotidianità? Possono forse essi morire di tutto purché non di Covid?

Possono essere sbrigativamente liquidate come “non indispensabile”, anzi colpevoli e pericolose, certe attività commerciali di impresa che tra l'altro, in questi mesi nonostante i danni del lockdown di marzo-maggio hanno investito per tenere in piedi la sua attività e mettersi in regola con la convivenza col virus adeguandosi a ogni genere di protocollo? Lo si faceva rilevare in un editoriale di Atlanticoquotidiano: «La richiesta di rinuncia al “superfluo” sembra ragionevole, perché si innesta su una narrazione moralistica della vita a cui siamo stati da sempre sottoposti. Ma ciò che sfugge è che il nostro “superfluo” è l'”essenziale” di altri: per il ristoratore, i suoi camerieri, gli insegnanti di fitness, gli albergatori o gli attori, quel nostro “superfluo” è la vita». (Marco Faraci, “In difesa del “superfluo”: perché è pericoloso lasciare che il governo decida cosa è “essenziale” e cosa no”, 27.10.20, in Atlanticoquotidiano.it)

Chi governa avrebbe dovuto pensare in questi mesi a come rendere possibile la inevitabile convivenza con il virus, adeguando all’emergenza pandemica il sistema sanitario, quello di trasporto pubblico, quello scolastico (reale, non virtuale). Adesso sono intollerabili le minacce di Conte e compagni che se non sappiamo fare bene il nostro compito ci chiude tutto.

Per infettare in modo efficiente le cellule umane, SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, è in grado di utilizzare un recettore chiamato Neuropilina-1, che abbonda in molti tessuti umani, tra cui le vie respiratorie, i vasi sanguigni e i neuroni. La scoperta rivoluzionaria è stata fatta da un gruppo di ricercatori tedesco-finlandesi guidato dal neuroscienziato Mika Simons, Università Tecnica di Monaco, Germania e dal virologo italiano, e siciliano. Giuseppe Balistreri, Università di Helsinki, Finlandia.

Sul motivo per cui il nuovo coronavirus sia così contagioso, Balistreri, capo del gruppo di ricerca Viral Cell Biology presso l'Università di Helsinki coinvolto nello studio spiega che " era noto che SARS-CoV-2 utilizza il recettore ACE2 per infettare le nostre cellule, ma i virus spesso utilizzano più fattori per massimizzare il loro potenziale infettivo; a differenza del principale recettore ACE2, che è presente in bassi livelli, la neuropilina-1 è molto abbondante nelle cellule della cavità nasale. Si tratta di una localizzazione strategicamente importante che potrebbe contribuire all'efficace infettività di questo nuovo coronavirus, che ha causato una grave pandemia, diffondendosi rapidamente in tutto il mondo”. SARS-CoV-2 infetta anche il sistema respiratorio superiore compresa la mucosa nasale e di conseguenza si diffonde rapidamente. "Questo virus è in grado di lasciare il nostro corpo anche quando semplicemente respiriamo o parliamo", aggiunge Balistreri. "Il punto di partenza del nostro studio è stata la domanda sul perché SARS-CoV, un coronavirus che ha portato a un'epidemia molto più limitata nel 2003, e SARS-CoV-2, si siano diffusi in modo così diverso anche se utilizzano lo stesso recettore principale ACE2" , spiega Ravi Ojha, un giovane ricercatore del team di Balistreri, e uno dei principali contributori dello studio.

Una chiave extra misteriosa sulla superficie del virus

Per capire come queste differenze possano essere spiegate, in collaborazione con il team del professor Olli Vapalahti, Università di Helsinki, i ricercatori hanno esaminato le proteine di superficie virali, gli spikes, che, come ganci, ancorano il virus alle cellule. Balistreri rivela che “quando la sequenza del genoma di SARS-CoV-2 è diventata disponibile, alla fine di gennaio, qualcosa ci ha sorpreso. Rispetto al suo parente più anziano, il nuovo coronavirus aveva acquisito un "pezzo in più" sulle sue proteine di superficie, che si trova anche nei picchi di molti virus umani devastanti, tra cui Ebola, HIV e ceppi altamente patogeni di influenza aviaria, tra gli altri. Abbiamo pensato che questo potesse darci unaa risposta. Ma come?" Il punto di svolta della ricerca è stato quando Ari Helenius, professore emerito all'istituto ETH di Zurigo, Svizzera, ha discusso la questione con due colleghi, gli oncobiologi estoni, prof. Tambet Teesalu, Università di Tartu, Estonia, ed il prof. Erkki Ruoslahti, Università di California, USA. Il professor Teesalu sapeva che la stessa sequenza acquisita dal nuovo coronavirus è presente anche in alcune proteine cellulari e ormoni che utilizzano i recettori della neuropilina. Già nel 2009, il dottor Teesalu e collaboratori avevano suggerito che "forse, come i nostri ormoni, i virus che hanno questa chiave possono utilizzare i recettori della neuropilina per accedere ai tessuti umani".

Insieme, il team di scienziati ha esaminato se le neuropiline fossero importanti per l'infezione da SARS-CoV-2. Gli esperimenti condotti dai team di Simons, Teesalu e Balistreri, insieme ai colleghi dell'Università del Queensland, in Australia, e altri istituti di ricerca ora supportano questa ipotesi. È interessante notare che un team indipendente di scienziati dell'Università di Bristol, nel Regno Unito, ha ottenuto risultati simili e ha confermato che il picco del virus si lega direttamente alla neuropilina-1 (Rif. DOI: 10.1126 / science.abd3072).

Nuova strategia anti-virale in corso

Bloccando specificamente la neuropilina-1 con anticorpi, i ricercatori sono stati in grado di ridurre significativamente l'infezione nelle colture cellulari di laboratorio. “Se si pensa all'ACE2 come a una serratura per entrare nella cellula, la neuropilina-1 potrebbe essere un fattore che indirizza il virus verso la porta. ACE2 è espresso a livelli molto bassi nella maggior parte delle cellule. Pertanto, non è facile per il virus trovare le porte per entrare. Altri fattori come la neuropilina-1 potrebbero aiutare il virus a trovare la sua porta ”, afferma Balistreri.

Poiché i disturbi dell'olfatto sono tra i sintomi di COVID-19 e la neuropilina-1 è nota per essere localizzata nello strato cellulare della cavità nasale, gli scienziati hanno esaminato campioni di tessuto di pazienti COVID-19 deceduti. "Volevamo scoprire se le cellule dotate di neuropilina-1 fossero realmente infettate da SARS-CoV-2 e abbiamo scoperto che era così", afferma Mika Simons, professore di neurobiologia molecolare presso l'Università tecnica di Monaco e co-leader dello studio.

Ulteriori studi sui topi hanno suggerito che la neuropilina-1 consente il trasporto dalla mucosa nasale al sistema nervoso centrale. Agli animali sono state somministrate minuscole particelle delle dimensioni di un virus attraverso il naso. Queste nanoparticelle sono state ingegnerizzate chimicamente per collegarsi alla neuropilina-1. Si è scoperto che dopo poche ore le nanoparticelle raggiungevano i neuroni e i vasi capillari del cervello, mentre le particelle di controllo senza affinità per la neuropilina-1, no. “Potremmo determinare che la neuropilina-1, almeno nelle condizioni dei nostri esperimenti, promuove il trasporto nel cervello, ma non possiamo trarre alcuna conclusione se questo sia vero anche per SARS-CoV-2. È molto probabile che questo percorso sia soppresso dal sistema immunitario nella maggior parte dei pazienti ", afferma Simons.

Balistreri conclude cautamente “è attualmente troppo presto per ipotizzare se il blocco diretto della neuropilina possa essere un approccio terapeutico praticabile, in quanto ciò potrebbe portare a effetti collaterali. Questo dovrà essere esaminato in studi futuri. Attualmente il nostro laboratorio sta testando l'effetto di nuove molecole che abbiamo appositamente progettato per interrompere la connessione tra il virus e la neuropilina. I risultati preliminari sono molto promettenti e speriamo di ottenere convalide in vivo nel prossimo futuro ".

Il lavoro svolto nel laboratorio di Balistreri è stato finanziato principalmente da donazioni e dall'Accademia di Finlandia.

La pandemia da Covid-19 lascerà sicuramente alcune semplici, basilari, norme di educazione: lavarsi bene e spesso le mani, non mettere le dita nel naso, le mani in bocca, non star sempre a toccare gli altri quando si parla. Tossire e starnutire coprendosi accuratamente. Oltre al distanziamento sono le pratiche più utili per evitare il contagio e se ci pensiamo bene, sono cose che dovrebbero essere normali, sempre, a prescindere dalla pandemie. Se facciamo una ricerca in rete troviamo pagine e pagine che insegnano a lavarsi le mani e ci imbattiamo in un personaggio, Ignazio Filippo Semmelweis (1818-1865) che scoprì come il lavaggio delle mani fosse fondamentale per evitare di propagare delle malattie. Questo medico ungherese intuì (1846), lavorando in un ospedale di Vienna, che le mani potessero essere il veicolo di infezioni che funestavano i reparti di ostetricia e che portavano alla morte di molte neo mamme per febbre puerperale. Molti medici che passavano da fare autopsie ai reparti di maternità non si disinfettavano le mani infettando così le mamme, bastava una semplice disinfezione per ridurre notevolmente la mortalità, come facevano le ostetriche in un altro reparto. Ma non fu considerato, anzi, addirittura perseguitato, costretto a trasferirsi e infine rinchiuso in un ospedale psichiatrico con la scusa della pazzia per una presunta sifilide. Qualche anno fa il prof. Giuseppe Sermonti (1925-2018) gli dedicò una “commedia da tavolo”: Il caso Semmelweis, dove in un dialogo avvincente si descrive la stupidità, l’ignoranza degli esponenti della scienza ufficiale di fronte alla realtà che si oppone alle loro convinzioni. Ignoranza che sarà la responsabile indiretta della morte del medico ungherese che, nell’estremo tentativo di dimostrare che le infezioni si trasmettevano con la scarsa igiene, si sarebbe infettato con un bisturi dopo aver sezionato un cadavere infetto morendo proprio per una setticemia. Nel 1864 Louis Pasteur (1822-1895) dimostrò la contaminazione batterica e Semmelweiss, l’uomo che voleva convincere a lavarsi le mani, il “salvatore delle madri”, aveva finalmente ottenuto giustizia. Dopo un secolo e mezzo siamo ancora a raccomandarsi di lavare bene le mani!

Anche stavolta, l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma ha compiuto miracoli ridando una vita normale a 5 bambini e ragazzi in lista d’attesa.

In sei giorni, tra il 19 e il 24 agosto sono stati effettuati 6 trapianti di organi all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I chirurghi dell’Ospedale hanno trapiantato 4 fegati e 2 reni, provenienti da donatori deceduti, in 5 pazienti in lista di attesa. Gli interventi hanno richiesto la partecipazione, complessivamente, di oltre 50 medici, infermieri, operatori e tecnici sanitari. Per la riuscita della lunga serie di trapianti consecutivi è stato essenziale l'utilizzo dei nuovi sistemi di perfusione extra corporea degli organi. Tutti i pazienti sono ora in buone condizioni.

Tra mercoledì 19 e sabato 22 agosto 3 fegati, prelevati da 3 diversi donatori, sono stati trapiantati in una bimba di 11 mesi affetta da atresia delle vie biliari in lista d’attesa da 40 giorni; in un bambino di 9 anni affetto da tumore epatico in attesa da 8 giorni e in un piccolo di 5 anni affetto da atresia delle vie biliari in lista da 46 giorni. In questi 3 giorni, tra le operazioni di prelievo degli organi in varie città italiane e gli interventi in sala operatoria, l’équipe del Bambino Gesù è stata impegnata per oltre 60 ore.

Invece domenica 23 e lunedì 24 agosto sono stati effettuati gli ultimi 3 trapianti della serie. Gli organi (il fegato e 2 reni) prelevati da uno stesso donatore nella notte di domenica, hanno interrotto l’attesa di due giovani pazienti: un ragazzo di 21 anni, affetto da acidemia metil-malonica (una grave malattia metabolica) in lista da 10 mesi ha ricevuto il fegato e un rene con un trapianto combinato, mentre l’altro rene è stato trapiantato in un dodicenne affetto da una malformazione delle vie urinarie in lista da 11 mesi. In quest’ultimo caso il rene è stato trapiantato dopo 19 ore di perfusione extracorporea con un’apposita apparecchiatura che ne consente una migliore e più lunga conservazione. Prelievo, perfusione e trapianti hanno richiesto 35 ore di lavoro consecutivo.

«La riuscita di questa maratona trapiantologica - afferma Marco Spada, responsabile di Chirurgia epatobiliopancreatica e del Trapianto di fegato e rene - è il risultato dell’impegno congiunto di tante componenti del nostro servizio sanitario: la rete Regionale e Nazionale dei Trapianti, i Centri regionali dove sono stati effettuati i prelievi, le équipe chirurgiche degli ospedali dei donatori e il personale del Bambino Gesù, medici, infermieri, ausiliari, tecnici, autisti. Uno sforzo costante che ci consente di curare sempre più bambini con insufficienza terminale d'organo, garantendo tempi di attesa per il trapianto molto brevi e risultati di assoluta eccellenza».

Ancora una bella vittoria ottenuta dall’equipe del Professor Carlo Marras all’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
Intervento straordinario preparato in oltre un anno di studio e in più fasi chirurgiche. Le bambine, giunte a Roma dal Centrafrica, erano craniopaghe totali, una tra le più rare e complesse forme di fusione cranica e cerebrale. Avevano in comune le ossa dell’area posteriore del cranio e il sistema venoso. Ora stanno bene.

Separate con successo all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù due gemelline siamesi centrafricane unite per la testa. È il primo caso in Italia - e probabilmente l’unico al mondo (in letteratura non sono descritte operazioni simili) - di intervento riuscito su una coppia di ‘craniopagi totali posteriori’, una tra le più rare e complesse forme di fusione a livello cranico e cerebrale. Posizionate nuca contro nuca, avevano in comune la scatola cranica e gran parte del sistema venoso. Oltre un anno di preparazione e di studio con l’ausilio di sistemi di imaging avanzato e di simulazione chirurgica, culminato in tre interventi delicatissimi. L’ultimo, la separazione definitiva, il 5 giugno scorso, con un’operazione di 18 ore e l’impegno di oltre 30 persone tra medici e infermieri. A un mese di distanza le bambine stanno bene, hanno appena compiuto 2 anni e sono ricoverate nel reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale della Santa Sede in due lettini vicini, una accanto all’altra, insieme alla loro mamma.
L’INCONTRO NELL’OSPEDALE DEL PAPA A BANGUI
Nel luglio del 2018 la Presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc, era in missione in Centrafrica, nella capitale Bangui, per seguire i lavori di ampliamento della struttura pediatrica voluta da Papa Francesco. È lì che incontra le due gemelline appena nate e decide di farsene carico, portandole a Roma, per dare loro maggiori possibilità di sopravvivenza. «Quando si incontrano vite che possono essere salvate, va fatto. Non possiamo e non dobbiamo voltare lo sguardo dall’altra parte» ha detto la presidente Enoc oggi durante la conferenza stampa di presentazione dell’intervento.
Ervina e Prefina erano venute alla luce pochi giorni prima, il 29 giugno, nel centro medico di Mbaiki, un villaggio a 100 km da Bangui. Nessuna indagine prenatale: la mamma Ermine e i medici scoprono che si tratta di una coppia di gemelle siamesi solo al momento del parto cesareo. Il piccolo centro sanitario, però, non è attrezzato per prendersene cura, così la famiglia viene trasferita nella capitale centrafricana.
L’ARRIVO AL BAMBINO GESU’ DI ROMA
La mamma e le gemelline arrivano in Italia il 10 settembre 2018 nell’ambito delle Attività Umanitarie Internazionali dell’Ospedale Pediatrico della Santa Sede. Dopo qualche mese trascorso al Bambino Gesù di Palidoro, dove iniziano il percorso di neuroriabilitazione, le piccole vengono trasferite nel reparto di Neurochirurgia al Gianicolo per gli studi sulla fattibilità delle procedure di separazione. Le prime indagini confermano che le gemelline godono di buona salute generale, i parametri neurologici e clinici sono nella norma. C’è però una differenza di pressione arteriosa: il cuore di una delle bambine lavora di più per mantenere l’equilibrio fisiologico degli organi di entrambe, compreso il loro cervello.
UNITE MA DIVERSE
Ervina e Prefina sono unite per la regione parietale e occipitale del cranio, vale a dire un’ampia superficie della parte posteriore della testa che comprende la nuca. Hanno in comune ossa craniche e pelle; a livello più profondo, condividono la falce e il tentorio (membrane fibrose che separano i due emisferi cerebrali e questi dal cervelletto) insieme a gran parte del sistema venoso (la rete di vasi deputata al trasporto del sangue utilizzato dal cervello verso il cuore per essere riossigenato) che ha rappresentato la sfida più difficile per l’équipe di Neurochirurgia del Bambino Gesù nella pianificazione degli interventi. Per questa particolare conformazione, le piccole rientrano nella rarissima categoria di gemelli siamesi craniopagi “totali”, uniti, cioè, sia a livello cranico che cerebrale. Tante cose in comune, ma non la personalità, diversa e distinta: Prefina giocherellona e vivace, Ervina più seria e osservatrice. Per farle conoscere e riconoscere, anche attraverso il contatto visivo prima della separazione, nell’ambito del percorso riabilitativo viene utilizzato un sistema di specchi.

UNO STUDIO DURATO PIU’ DI UN ANNO

Il caso di Ervina e Prefina è difficilissimo. Per farle sopravvivere, da separate, bisogna studiare ogni aspetto, pianificare il minimo dettaglio. Con questo obiettivo, si forma un gruppo multidisciplinare composto da neurochirurghi, anestesisti, neuroradiologi, chirurghi plastici, neuroriabilitatori, ingegneri, infermieri di differenti aree specialistiche e fisioterapisti. Viene coinvolto il Comitato Etico che condivide un percorso terapeutico che possa dare a entrambe le bambine le stesse chance di qualità della vita. Sulla base dell’esperienza maturata con i precedenti casi di siamesi separati con successo, l’équipe del Bambino Gesù mette a punto il programma. Nel corso dei mesi anche le gemelline vengono preparate alla separazione: con la neuroriabilitazione raggiungono un livello di sviluppo cognitivo e motorio analogo a quello delle loro coetanee; con l’ausilio di numerosi sistemi posturali, che le aiutano a trascorrere le giornate nella migliore posizione possibile, affrontano le complesse fasi del trattamento; con il sistema di specchi imparano a riconoscere il volto e le espressioni dell’altra e a stabilire una relazione visiva.
Prima di procedere con le fasi chirurgiche, il complesso caso delle gemelline di Bangui viene presentato e discusso anche a livello internazionale, a Nuova Delhi, in India, dove a febbraio 2019 si è tenuta la prima conferenza mondiale nel campo della chirurgia dei gemelli siamesi. Nella storia dell’Ospedale è il quarto caso di separazione di siamesi: nel 2017 le gemelline algerine unite per il torace e l’addome (gemelle toraco-onfalopaghe) e le piccole burundesi, unite per la zona sacrale (gemelle pigopaghe). Negli anni 80, invece, la prima operazione del genere su due maschietti uniti sempre per il torace e l’addome.

I TRE PASSI DELLA SEPARAZIONE

La grande sfida, per il buon esito della separazione, è il sistema venoso cerebrale, la rete di vasi sanguigni (seni venosi) che le gemelle condividono in più punti. La chirurgia sulle strutture venose del cervello è complessa e il rischio di emorragie e ischemie è elevato. L’équipe di Neurochirurgia del Bambino Gesù decide di procedere per fasi: tre interventi delicatissimi per ricostruire progressivamente due sistemi venosi indipendenti, in grado di contenere il carico di sangue che viaggia dal cervello al cuore.
Il primo intervento. Nel maggio 2019 le gemelline entrano in sala operatoria per iniziare a dare forma alle nuove strutture venose autonome: i neurochirurghi separano una parte del tentorio e il primo dei due seni trasversi in comune che saranno assegnati a ciascuna delle bambine; poi, con materiali biocompatibili ricostruiscono una membrana in grado di mantenere divise le strutture cerebrali prima della separazione definitiva.
A giugno 2019 il secondo intervento. L’équipe, coadiuvata dal gruppo di anestesia, separa i seni sagittali superiori (la metà posteriore dei canali venosi che corrono tra i due emisferi cerebrali) e il torculare di Erofilo, ovvero il punto di congiunzione dei seni venosi del cervello dove confluisce tutto il sangue che va al cuore. È una fase cruciale: lo spazio operatorio è di pochi millimetri e i neurochirurghi procedono con la guida del neuronavigatore.
Il 5 giugno 2020, un anno dopo, è il momento della separazione definitiva. Le bambine sono cresciute, la nuova architettura delle vene si è consolidata e funziona; la porzione di pelle necessaria a coprire il cranio di ciascuna delle piccole è stata ampliata con gli espansori posizionati qualche mese prima con una serie di interventi di chirurgia plastica e si può dare il via all’ultima fase. In sala operatoria è pronta un’équipe di oltre 30 persone tra medici, chirurghi e infermieri. L’intervento dura 18 ore: prima vengono rimossi gli espansori cutanei, poi viene separato il secondo seno trasverso e il relativo tentorio; vengono infine divise le ossa del cranio che tengono unite le due bambine. Una volta separate le gemelline, l’operazione prosegue in due diverse camere operatorie, con due équipe distinte, per ricostruire la membrana che riveste il cervello (dura madre), rimodellare le ossa della scatola cranica e ricreare il rivestimento cutaneo.

«È stato un momento emozionante, un’esperienza fantastica, irripetibile» sottolinea Carlo Marras, responsabile di Neurochirurgia del Bambino Gesù e dell’équipe che ha seguito le gemelline. «Era un obiettivo molto ambizioso e abbiamo fatto di tutto per raggiungerlo, con passione, ottimismo e gioia. Condividendo ogni passaggio, studiando insieme ogni minimo dettaglio».

IL RUOLO DELLA TECNOLOGIA: RICOSTRUZIONI IN 3D E NEURONAVIGATORE

Ogni fase del percorso delle gemelline è stata studiata e pianificata con l’ausilio dei sistemi di imaging avanzato disponibili in Ospedale: TAC e risonanze magnetiche tridimensionali, angiografia 4D, software per la ricostruzione 3D, neurosimulatore. Con queste tecnologie, combinate tra loro, è stata ricreata in 3D la scatola cranica delle bambine con tutti i dettagli anatomici interni, compresa la rete vascolare. Contemporaneamente, è stato possibile valutare la funzionalità delle singole strutture del cervello, quantificare il flusso sanguigno e fare una previsione di come avrebbe funzionato il nuovo sistema dopo gli interventi. In sala operatoria sono stati utilizzati i più avanzati sistemi di neuronavigazione, strumenti particolarmente utili in casi così complessi e rari che indicano al chirurgo, con precisione millimetrica, la posizione delle strutture più delicate.
IL FUTURO DI ERVINA E PREFINA
A un mese dalla separazione definitiva, le gemelline stanno bene. Pochi giorni di monitoraggio in terapia intensiva e poi il ritorno in reparto, nella stanza con due lettini singoli. Il 29 giugno hanno festeggiato 2 anni, guardandosi negli occhi, muovendo le manine a ritmo di musica, in braccio alla mamma. Hanno superato operazioni difficilissime; le ferite impiegheranno del tempo a rimarginarsi; il rischio di infezione è ancora presente. Proseguono il programma di neuroriabilitazione e per alcuni mesi dovranno indossare un casco protettivo. Ma i controlli post-operatori indicano che il cervello è integro. Il sistema ricreato funziona, il flusso di sangue si è adattato al nuovo percorso. Si trovano in una condizione - spiegano i medici del Dipartimento di Neuroscienze - che darà loro la possibilità di crescere regolarmente sia dal punto di vista motorio che cognitivo, e di condurre una vita normale, come tutte le bimbe della loro età.
Commossa, durante la conferenza stampa di oggi, mamma Ermine ha ringraziato l’Ospedale e tutte le persone che si sono prese cura delle sue bambine: «Ervina e Prefina sono nate due volte. Se fossimo rimaste in Africa non so quale destino avrebbero avuto. Ora che sono separate e stanno bene vorrei che fossero battezzate da Papa Francesco che si è sempre preso cura dei bambini di Bangui. Le mie piccole ora possono crescere, studiare e diventare dei medici per salvare altri bambini».

CRANIOPAGI TOTALI POSTERIORI: SIAMESI RARI TRA I RARI

La nascita di una coppia di siamesi è un evento raro e, tra le varie tipologie, i gemelli uniti per la testa (craniopagi) sono i più rari: 1 su 2,5 milioni di nati vivi, 5 casi ogni 100.000 gemelli, soprattutto femmine. Nella letteratura scientifica sono descritte solo poche decine di casi. Il craniopago è definito ‘parziale’ quando il punto di contatto tra le due teste è limitato alle ossa e alla pelle, ‘totale’ quando la fusione coinvolge anche le strutture cerebrali e in particolare il sistema venoso. Anche tra i craniopagi totali ci sono differenze: i più “comuni” sono i gemelli uniti per la sommità del capo (craniopagi verticali), più rari quelli uniti per la nuca (craniopagi posteriori).
Secondo i dati disponibili, fino a pochi anni fa il 40% dei craniopagi moriva alla nascita. Per il restante 60% l’attesa di vita non superava i 10 anni. Fino agli anni 60 i tentativi di separazione dei craniopagi totali avevano un tasso di mortalità vicino al 100%. Successivamente, con lo sviluppo tecnologico e con l’introduzione della chirurgia per fasi, sono aumentate sopravvivenza, attesa e qualità di vita. Negli ultimi 20 anni, in Europa, si ha notizia di due soli casi di craniopagi totali separati con successo: si tratta di due coppie di gemelli uniti per la sommità della testa (verticali) operati in più step a Londra. Nessun caso descritto in letteratura, invece, con le caratteristiche delle gemelline di Bangui, ovvero craniopaghe totali unite per la nuca (posteriori).

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