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Salvatore Fittipaldi è un poeta lucano, che vive a Genzano di Roma da diversi anni, pur essendo sempre molto legato alla sua Terra d’origine.

Da ragazzo il suo sogno è di diventare medico, anche se poi si diploma in Chimica industriale a Salerno, dove nel frattempo si è trasferito con la famiglia. Qui segue le lezioni del Maestro Edoardo Sanguineti, con il quale istaura un solido rapporto d’amicizia. Intanto, si iscrive presso la Facoltà di Scienze Politiche e nel 1975 si trasferisce a Roma, in cerca di nuove prospettive lavorative.

Il casuale incontro, durante un viaggio in treno, con il direttore del noto quotidiano cattolico l’Avvenire Angelo Paoluzi gli apre le porte alla professione giornalistica, nell’ambito pubblicitario.

Ma qualche tempo dopo, abbandonerà il giornalismo, per entrare a lavorare nell’ambito amministrativo.

Nel 2004 un infarto, complicato dal tardivo arrivo presso l’UTIC ospedaliera, lo porterà in coma. Poi, finalmente, la ripresa ed un rinnovato vigore per la scrittura. Successivamente, pubblicherà due libri: “La Musa di Blanchot” ed “Elogio all’inquietudine”, entrambi editi da “Divinafollia”.

Di recente, ho incontrato Salvatore Fittipaldi, il quale ha concesso al nostro giornale un’intervista.

 

Nella silloge “La Musa di Blanchot” (Divinafollia Edizioni), sua opera prima, è palpabile una personale visione dell’universo in chiave esistenzialista. Vorrebbe parlarmene?

Il libro, lo “scrivere un libro”, è un viaggio, come dice il sottotitolo, verso un “luogo non luogo”dove è difficile inoltrarsi; è un muoversi perennemente verso il “sacro non ancora sacro”, Il linguaggio di Blanchot, che è un campione degli estremi, mi ha consentito di “viaggiare” con la consapevolezza di non poter raggiungere la “fine del percorso”. Personalmente suggerisco una lettura meno filosofica e più laicamente spirituale.

Se l’inquietezza prefigura e caratterizza l’esistenza, la genialità rappresenta un valore aggiunto?

“Genialità” è un termine usato anche da Silvia Denti nella prefazione. Solitamente, il termine “genio” viene associato a quello di “follia”. La mia “inquietudine” non è nulla di tutto ciò che riguarda la sfera psichica. Credo che mia figlia Irene abbia espresso bene il concetto, quando ha evidenziato che il mio “Elogio all’inquietudine”, il mio secondo libro, edito sempre da “Divinafollia Edizioni”, ha più a che fare con l’odio di classe di Benjamin che con Pessoa.

Parafrasando il filosofo tedesco Kant, “l’essenza precede l’esistenza”. In altre parole, nella letteratura, in particolare nella poesia, è fondamentale avere la capacità di trovare le parole giuste, oppure si può comunque arrivare all’essenza delle cose, anche con una certa dose di approssimazione?

Il linguaggio ha sempre una funzione storica e non metastorica. Poi c’è il problema della “qualità”, nel senso che la “scrittura” oggi è destinata a rimanere mediocre e per assenza di “storia da raccontare” e per deficit di struttura linguistica; alludo alle carenze nella sintassi e soprattutto all’assenza della punteggiatura. Credere di poterne fare a meno è già mediocrità.

Nella sua poetica, l’anima dell’uomo riesce sempre ad intersecarsi con quella dei suoi simili. Il suo “uno contro tutti” si trasforma poi, puntualmente, in un messaggio corale. Da cosa nasce il senso di disgusto che, come in Sartre e pochissimi altri, lei riesce ad esprimere, rifuggendo da qualsiasi genere di regola, per approdare nel rifiuto delle ideologie?

Ho sostenuto diciotto esami di Diritto presso la facoltà di scienze Politiche, senza conseguire la laurea. Quindi, di norme e regole me ne sono passate diverse. La mancanza di rispetto delle regole, proprio da parte di chi dovrebbe farle rispettare ed ancor più l’assenza di “certezze del diritto”scatenano l’esigenza di chiarezza. Diceva Sanguineti che “essere sgarbati non significa necessariamente essere violenti, almeno fino a quando non sarà viva l’esigenza di dare giustizia alle nuove generazioni”.

Ci potrebbe parlare ancora del contenuto dei suoi libri?

Cito sempre da mia figlia: C’è un’intesa sottile tra “l’allusione e il non detto”, tra il “non visibile, non visualizzato e il senso nascosto”, che segnano il testo. Gli “oggetti” scompaiono, non sono “fruiti, fruibili”, come se fossero “rifiutati” in una contrapposizione, che ricorda quella verso la “società dei consumi”, di sessantottina memoria. Qui siamo, invece, nella dimensione opposta: alla penuria di oggetti causata dalla crisi economica., come se lo scorrere del tempo si fosse fermato nel “centro dell’anima”, nella “lentezza” che è diventato lo scorrere della “vita frenetica del profitto”.

C’è un poco di Idiota dostojeschiano, l’uomo decaduto, indifeso, schiacciato da una società malata e crudele.

C’è poi un poco di sud e origini meridionali.

L’entropia testuale fa risaltare il paradossale rapporto con i testi sanguinetiani: da una parte l’assoluta devozione alla forma, punteggiatura compresa, e dall’altra la “distanza” del barbuglio lessicale del Maestro.

In definitiva, una scrittura che può e vuole essere intesa come una sorta di sperimentazione intorno all’afasia semantica e al vuoto lasciato dal ciclone sanguinetiano al suo passaggio.

Vorrebbe parlarmi del suo rapporto con Sanguineti?

Nei miei scritti si possono ritrovare molteplici interconnessioni con i testi sanguinetiani, sia nelle scelte di poetiche che di stile, seppure in ambiti meno evidenti; “lo stile di non avere stile”. Esiste poi un rapporto di mutazione e filiazione, che ho elaborato con soluzioni personali e spero originali. Il primo incontro con il Maestro è avvenuto a Salerno, nei primi anni ’70. Io studente e Sanguineti docente universitario; seguivo le sue lezioni, intrufolato fra i suoi studenti. Poi la lettura, da parte del professore, dei miei primi testi, accovacciato con la schiena al banco frigo dei gelati, in un bar. “Si può fare qualcosa…” mi disse. Ci siamo poi ritrovati nel 2008, conservo le sue lettere e le sue cartoline raffiguranti immagini di opere patafisiche.

Nelle sue liriche parla di “mitopoiesi”, l’arte o la tendenza ad inventare favole. Questo può rappresentare un momentaneo appagamento per l’essere umano?

La favola è la poesia per eccellenza; la fantasia che arricchisce, anziché no. E’ l’alternarsi dei contrari, del giorno e della notte, per dirla con Vladimir Propp.

Come è arrivato alla determinazione che la creazione di orizzonti nuovi sia inutile o addirittura errata?

Uso spesso il concetto “contrario”, anche alle mie convinzioni personali, per stimolare a credere nella possibilità del concetto opposto. Sarà poi il lettore a scegliere quale dei due far prevalere.

L’uomo deve quindi arrendersi allo forze disgregatrici della società oppure, nonostante tutto, continuare a lottare?

Sono pessimista. Attualmente nessuna lotta avrebbe possibilità di successo. E’ questo che vogliono i detentori del potere.

I suoi programmi artistici per il futuro?

Scrivere, a prescindere e poi continuare a curarmi. A prescindere, poiché anche i critici letterari si sono fermati ad Eboli.

Per concludere, vorrebbe parlarmi della sua ultima opera “Elogio all’inquietudine”, anche stavolta edito da Divinafollia Edizioni?

Questo libro è un arazzo dell’inquietudine “diurna” dell’uomo moderno, i cui testi si fanno paradigma di un’umanità privata di speranza, che brancola nell’incertezza di una verità “non verità”, che tenta di pensare ad una speranza di salvezza. In ogni caso, questo mio ultimo lavoro è meno autobiografico e più politico, rispetto a “La Musa di Blanchot”.

L’inquieto non è solamente inquieto…vive e lavora in un “mondo” che ha bisogno della verità. Crede che (il) vivere abbia in sé il momento del vero. Essere inquieti non è solo stato o una condizione psichica; è soprattutto possesso del “sentimento vero”. Il rapporto tra l’inquieto e la vita, consiste nell’offrire la vita alla verità e trasformarla in esistenza corrente.

Anche per questo l’inquietudine non può essere considerata “tedio cosmico” o “ansia frustrata”, più che una sorta di “disagio spirituale”.

Il 3 dicembre ricorre la Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità.

La Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap lancia #INMYPLACE, una campagna per connotare la celebrazione in modo diverso, in modo che impatti più direttamente sugli atteggiamenti, spesso inconsapevoli ma sempre determinanti, delle persone comuni verso la disabilità.

La campagna si articola in diverse fasi. Nella prima fase, già condotta a termine, FISH ha promosso fra le persone con disabilità e i loro familiari una raccolta di storie personali, sintetiche ed efficaci, tali da essere ben comprese da chiunque, componendo un mosaico delle diverse realtà e connotazioni della disabilità (il pregiudizio, l’esclusione, la discriminazione, gli ostacoli e le barriere…).

Fin qui è stato facile. La Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap unisce le principali associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari: le migliaia di storie di vita sono la risorsa e lo stimolo di concrete azioni da oltre vent’anni.

La raccolta delle storie è disponibile nel sito www.inmyplace.it.

Ed il messaggio a tutti è chiarissimo: “Hai mai pensato di prendere il posto di una persona con disabilità? Potrebbe essere un’esperienza illuminante e sorprendente. Scoprire che esistono barriere fisiche ma ancora prima atteggiamenti di paura e pregiudizio che ti escludono, ti marchiano. Ne usciresti con un punto di vista, qualunque esso sia, molto cambiato.”

Adesso l’ambizioso obiettivo è che il punto di vista possa essere vissuto e questo sarà possibile solo calandosi idealmente nei panni degli altri. Lo si può fare dal sito www.inmyplace.it con un semplice click “adottando” una storia – ma anche più d’una in giorni successivi – e condividendola sul proprio profilo Facebook o Twitter prendendo il posto del protagonista della storia.

Tutti possono partecipare alla piena riuscita dell’iniziativa, ma prima ancora per contribuire a modificare atteggiamenti e percezioni ancora troppo distorti.

Il 3 dicembre si celebra la Giornata internazionale per la Disabilità e ci si augura di poter arrivare a quella data con innumerevoli scambi di posto, per poter abbattere l’ostacolo più grande, quello della paura, dove, superatala, c’è un posto per tutti.

il castello ducale di Faicchio

Sulla scia dello Studio “Filoculture” finalizzato all’analisi e all’individuazione delle prospettive di sviluppo delle filiere agroalimentari di eccellenza del territorio del Titerno, si sono inseriti gli educational tour “A Rural Experience”, promossi dal Gal Titerno (www.galtiterno.it) presieduto da Antonio Ciabrelli. Costituito nel 1997, è un’ agenzia di sviluppo locale che vuole stimolare e supportare le attività di programmazione socio-economica locale, nonché le iniziative del territorio e in particolare della più ampia area del Sannio beneventano, al fine di favorire la promozione di un modello di sviluppo sostenibile. “A Rural Experience” ha coinvolto nove paesi sanniti per la scoperta di tante bellezze paesaggistiche. È stato un viaggio davvero singolare dagli ingredienti diversi su vari temi, che hanno riguardato tante bellezze artistiche, culturali e turistiche della valle del Titerno. Sono state coinvolte aziende, imprese locali e comuni dell’area così da mettere in luce le filiere agroalimentari e di eccellenza. A partecipare a questa esperienza i media, gli operatori del territorio e quelli turistici per sostenere la conoscenza della cultura rurale. Il Sistema Territoriale del Titerno si caratterizza infatti per la presenza di produzioni di qualità, ambiente integro, valenze paesaggistiche e culturali, ricettività ed ospitalità; produzioni vitivinicole di pregio (Guardiolo DOC nei comuni di Castelvenere, Guardia Sanframondi, San Lupo; Solopaca DOC nei Comuni di Castelvenere, Cerreto Sannita, Guardia Sanframondi, San Salvatore Telesino, San Lorenzello, Telese Terme; Sannio DOC e Beneventano IGT in tutti i comuni dell’area); produzioni olivicole di qualità. Nel Sannio, percorrendo le Colline Beneventane, dove il paesaggio dell’olivo si sposa con quello dei vigneti e con gli ambienti naturali montani del Fortore e del Taburno, si incontrano meravigliosi esemplari di ulivo secolari, con tronchi contorti ed attorcigliati, quasi avvitati su se stessi e con le caratteristiche foglie d’argento. Tra le coltivazioni più tipiche troviamo l’Ortice (detta anche oliva a pizzo di passero), una pianta con un caratteristico portamento le cui olive vengono utilizzate esclusivamente per la produzione di un eccellente olio extra vergine. L’olio del Frantoio Romano (www.frantoioromano.it) risponde a questi valori di qualità con la varietà Ortice e dal 1840 porta avanti una tradizione nel comune di Ponte nel territorio delle Colline Beneventane. In quell’epoca l’elettricità ancora non c’era e la macina con ruota in pietra veniva azionata a trazione animale e l’olio era ottenuto con pressa a vite di legno. Alberto Romano, che appartiene alla quarta generazione e che ha come suo motto di vita: “l’umiltà, la più ricca delle virtù, e la più facile da dimenticare”, affinando l’arte della coltivazione e della produzione di olio extra vergine di oliva, ha ottenuto un prodotto di eccellenza. Nel frantoio Romano, vengono selezionate con cura e lavorate poi, olive sane ed al giusto grado di maturazione, dando origine all’olio extravergine di oliva: monovarietale Ortice e Ortice Riserva, fiore all’occhiello con le sue pregiate qualità organolettiche, nonchè all’olio extravergine Romano e Gold, blend che racchiudono oli delle altre varietà tipiche della zona, quali frantoio, leccino ed altri. Tutti gli oli fanno parte della tracciabilità di filiera, ma soprattutto hanno il bollino “Alta Qualità” 100%, che ne garantiscono e ne certificano la qualità e l’integrità del prodotto. Il Titerno si caratterizza anche per le produzioni frutticole di pregio (in particolare la mela annurca, riconosciuta con marchio IGP nel comune di San Salvatore Telesino); significative valenze paesaggistico-ambientali e culturali-archeologiche (il Parco Regionale del Matese e le Oasi naturalistiche, i borghi medievali di Guardia Sanframondi, San Lorenzello e Pontelandolfo, il Parco geopaleontologico di Pietraroja, i giacimenti dell’Antica Telesia di San Salvatore Telesino); nucleo di valorizzazione della ceramica artistica e tradizionale a Cerreto Sannita e San Lorenzello; polo di attrazione turistico termale, commerciale e del tempo libero a Telese Terme; sistema turistico del benessere (caratterizzato a Telese Terme, dalle Terme, dal Grand Hotel e da Aqua Petra Spa di alto profilo qualitativo; a San Salvatore Telesino dall’Hotel Relax Aquaria Thermae); eventi e manifestazioni (i Riti settennali di penitenza in onore della Vergine Assunta di Guardia Sanframondi); potenzialità turistico-ricettive variegata e consistente in termini quantitativi, rispondente alle esigenze dei diversi segmenti di clientela turistica; contesto ambientale integro e con una bassa presenza di detrattori ecologici, a dimostrazione di una buona condizione di qualità della vita e del benessere. “Sulla via delle abbazie e dei castelli”, è stato un altro degli appuntamenti di “A Rural Experience” più interessanti ed ha riguardato San Salvatore Telesino e la sua straordinaria Abbazia del Santo Salvatore. A presentare la storia politico-religiosa del complesso monumentale: Antonietta Cutillo e il prof. Luigi Cielo, che hanno illustrato le diverse fasi che hanno scandito nei secoli questa ragguardevole testimonianza edificata intorno all’VIII secolo.

Alberto Romano

Si è passati poi a visitare la pinacoteca Massimo Rao: un’esposizione permanente di opere di un noto pittore locale, prematuramente scomparso. Non poteva mancare una sosta enogastronomica di tutto rispetto all’Oasi Blu di Puglianello, con degustazione di vini e di tante prelibatezze della tradizione sannita. Fari puntati poi sul castello ducale di Faicchio, un maniero del XII secolo voluto dai conti Sanframondo e, oggi, alle prese con l’ennesimo restauro. Sempre in Faicchio, anche la visita al ponte Fabio Massimo sul fiume Titerno. L’opera, risalente al III secolo a.C., serviva ad agevolare le comunicazioni con il Matese e il monte Erbano. Altro tema scelto è stato: “Sulla via del vino e dell’acqua”. A Telese Terme, guidati dall’esperto Paolo Cazzullo, in visita alla Torre Normanna, i partecipanti hanno ammirato uno dei più rari monumenti della Campania. L’opera è quanto rimane della cattedrale della SS. Croce, edificata nel X secolo. Di seguito, attraverso una passeggiata lungo il Parco del Grassano, il gruppo si è recato alle Terme, dove Fausto Bonelli ha condotto una visita allo stabilimento e al parco, con tanto di assaggio di acqua solfurea. Di notevole importanza e gradimento anche la visita a Castelvenere. Il prof. Luigi Simone ha raccontato la storia della “città del vino” e guidato la visita del centro storico, mentre, Antonio Ciabrelli ha illustrato le cantine tufacee, tutte realizzate nelle cave di tufo utilizzate per la costruzione del primitivo borgo. Quindi, puntata all’Enoteca comunale realizzata dal Gal Titerno, per degustare vini e prodotti tipici locali e, di seguito, partenza per la cantina Vigne Sannite. Nell’azienda della Cecas i partecipanti hanno seguito le varie tappe di lavorazione, che vanno dall’arrivo delle uve fino all’imbottigliamento e partecipato ad una degustazione condotta dall’enologo Lucio Meoli. La giornata si è conclusa a Palazzo Maturi di Amorosi, una struttura oggi di proprietà comunale e ricca di opere e di spazi di valore.

olio del frantoio Romano

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