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Prigionieri-dei-Savoia-1

 

Di solito quando si fa riferimento alla deportazione di uomini e donne, di soldati, di militari, prigionieri e quindi di sconfitti, il nostro pensiero va alle grandi odiose deportazioni di massa del Novecento, realizzate dagli eserciti socialcomunisti e nazisti. Ma le deportazioni di militari sconfitti ci furono anche nel 1860 dopo l'unificazione dell'Italia, con la nascita del nuovo Regno Sabaudo. Migliaia di soldati meridionali dell'esercito regolare che aveva combattuto sotto la bandiera del Regno delle Due Sicilie di Francesco II re di Napoli, sono stati deportati in veri e propri campi di concentramento del Nord a Fenestrelle e a San Maurizio. Tra i primi a parlarne è stato Fulvio Izzo, con il suo “I Lager dei Savoia”, edito da Controcorrente nel 1999. Queste vicende rappresentano un'altra tessera, completamente rimossa dalla memoria degli archivi, che serve a svelare meglio il vero volto del cosiddetto Risorgimento. Decine di migliaia di prigionieri napoletani e soldati pontifici sono stati sottoposti a rieducazione forzata tra stenti e sofferenze indicibili.

Ma oltre a questa brutta storia ne esiste un'altra ancora poco conosciuta, quella della mancata deportazione di almeno quindicimila prigionieri meridionali soldati o cosiddetti briganti nel lontano Borneo. Ne parla il libro di Giuseppe Novero, “I prigionieri dei Savoia”. La storia della Caienna Italiana nel Borneo, edito da Sugarcoedizioni.

Il libro di Novero nei primi capitoli affronta gli ultimi passaggi della rapida implosione del Regno delle Due Sicilie della dinastia dei Borboni. A cominciare dell'assedio di Gaeta con il ritrovato vigore di Francesco II insieme all'”aquiletta bavara”, la regina Maria Sofia. I due sovrani col restante esercito borbonico scrissero una pagina eroica, resistettero per oltre cinque mesi al massiccio bombardamento del generale Cialdini. Alla fine furono costretti all'esilio a Roma. Ma il libro di Novero si chiede:“Com'era stato possibile eliminare in meno di un anno un esercito con un passato non trascurabile, alimentato da quello che era, allora, il più popoloso Stato italiano? Com'era stato possibile che pochi uomini (i “Mille” di Garibaldi) avessero avuto ragione di un esercito di decine di migliaia di truppe regolari?”. Sono interrogativi che hanno cercato di rispondere gli storici onesti che hanno fatto chiarezza sulla fine del Regno Borbonico.

Una volta conquistata la Sicilia dai garibaldini, il Governo e il Francesco II, non hanno reagito, anzi presero posizioni ondivaghe e invece di combattere, cercarono di negoziare. “E' forse questa una chiave di lettura per comprendere la sconfitta”, scrive Novero. “Ma da sola non può certamente spiegare l'infelice condotta della campagna da parte del comando borbonico. Gli storici più vicini alla causa borbonica hanno sostenuto che il regno cadde anche per l'appoggio che alcune potenze straniere avrebbero fornito ai Savoia. Ma questa ragione, seppure vera in parte, non riesce a giustificare quella che si rivelò una vera e rapida implosione. Una responsabilità, più chiara di altre, può essere individuata nelle indecisioni, nelle incertezze che accompagnarono molte battaglie”. Ci sono stati troppi errori e troppi tradimenti di alti ufficiali borbonici e questo ricade sui Borboni, che non hanno saputo scegliere collaboratori validi e capaci.

Comunque sia a questo punto si apre il capitolo delle migliaia di prigionieri borbonici in mano al nuovo regno d'Italia. Solo a Gaeta si erano arresi 11.000 soldati. Che fare dei prigionieri che manifestano segnali di indisponibilità ad entrare nel nuovo esercito? “I patti di resa prevedevano un periodo di prigionia. Terminata la reclusione i militari borbonici dovevano decidere che cosa fare: arruolarsi nel nuovo esercito o affrontare le incognite di un rifiuto carico di incertezze”. La Civiltà Cattolica, rivista dei Gesuiti, racconta del trattamento disumano che è stato impiegato nei confronti di quei soldati meridionali: “quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi”. Si scrisse che esiste una vera tratta dei Napoletani, si trattò di gestire un numero enorme di prigionieri, trasferiti a Genova via mare, per essere poi smistati nei forti di Fenestrelle e di San Maurizio. Questi furono veri campi di rieducazione, simili ai gulag sovietici o maoisti.

Il problema rimane aperto per tanti anni anche perché intanto nel Sud è scoppiato il cosiddetto Brigantaggio, molti soldati ex borbonici insieme alla popolazione civile del Sud preferirono darsi alla macchia e combattere il nuovo Stato, una guerra civile durata fino agli anni 70.

Il nuovo governo deve affrontare una guerra anomala, che procura tanti morti e tanti prigionieri, così gli uomini di governo decidono addirittura di deportare parte di questi prigionieri da qualche parte lontano, si cercò di trovare un “angolo di terra” dove confinare i detenuti italiani. C'era la necessità di allontanare migliaia di oppositori, deportandoli in una Caienna italiana, per porre fine agli annosi problemi. In un primo tempo si pensò alla regione sconfinata e disabitata della Patagonia in Argentina. Poi in Tunisia, alla fine ecco scattare “l'operazione Borneo”, affidata al comandante Carlo Alberto Racchia e alla nave Principessa Clotilde.

Il libro di Novero attraverso i carteggi diplomatici, le relazioni di governo, i dispacci e i diari di bordo delle navi, racconta tutte le fasi del progetto di fondare una vera e propria colonia penale nell'Estremo Oriente. In una lettera del ministro degli Esteri del Regno d'Italia, Emilio Visconti Venosta così si esprimeva: “Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero o per assolvere o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa morte”.

In pratica si cerca un territorio dove costruire uno stabilimento capace di contenere almeno quindicimila deportati, ma i tentativi del governo italiano fallirono, dovette fare i conti con le resistenze delle potenze coloniali inglesi e olandesi.

Ma la deportazione avvenne lo stesso, dopo il 1870, migliaia di meridionali in massa abbandonarono le proprie terre per trasferirsi nelle Americhe, il fenomeno assunse “proporzioni bibliche”, quasi 8 milioni di individui hanno lasciato l'Italia.

cop risorgimento e contro risorgimento

 

Anche quest'anno dovrei dedicare parte dell'estate alla lettura di qualche libro. Un amico forse per mettermi in difficoltà mi diceva che non ha senso ha leggere dei libri in un momento così difficile per il nostro Paese e soprattutto per le nostre famiglie. Per la verità non saprei come rispondere all'obiezione. O forse è meglio sorvolare. Comincio il mio tour di letture con un titolo altisonante Risorgimento e contro-risorgimento. Un'epopea familiare”, Sugarco edizioni (2011) scritto da Gian Carlo Montanari. Seguiranno altre letture, in primis quelle della prestigiosa casa editrice milanese Sugarco, a cui devo le recensioni, come “Il mito di Garibaldi e I prigionieri dei Savoia.

Il testo di Montanari racconta la storia di un padre e figlio che incontrano i protagonisti della Storia, però su fronti opposti. Siamo negli anni dopo la Rivoluzione Francese nel 1796, il territorio dove si svolgono i fatti è la Bassa Padana del Ducato di Modena. Un giovane avvocato di Castelvetro, Bartolomeo Cavedoni si avvicina al mondo nuovo rivoluzionario e si appassiona a quelle idee incontrando personaggi di primo piano come Ugo Foscolo. Affascinato dalla vita militare e soprattutto da Napoleone, percorrerà l'Europa intera dal 1796 al 1814. Bartolomeo per gli amici “Bart”, vede per la prima volta Napoleone il 15 ottobre 1796 quando arriva vicino Modena sul cavallo bianco e lui insieme ad altri ardenti patrioti gli vanno incontro, anch'essi a cavallo, si intuiva scrive Montanari, che “andavano incontro all'arbitro dei destini rivoluzionari d'Italia”.

Bartolomeo Cavedoni diventa commissario di polizia a Ferrara, ben presto diventa capitano e inviato a Milano. Qui respira l'aria nuova: la città meneghina aveva il respiro europeo, era grande e immensa per chi veniva da Modena. Tante erano le opportunità relazionali. Qui conosce il letterato Vincenzo Monti. Intanto il tenace e attivo giovane capitano Bart non era nato per stare in famiglia, eppure si era sposato con Anna Maria Brighenti, ed aveva avuto ben quattro figli, concepiti tra un viaggio e l'altro.“Per l'ideale massonico liberal-democratico pagava il prezzo di essere permanentemente quasi distante dagli affetti familiari”, cambia un po' le sue abitudini soltanto con la nascita del piccolo Armodio. Il comandante Bart Cavedoni cercherà di formare il suo giovane figlio maschio agli ideali della rivoluzione, mandandolo a studiare presso il collegio militare San Luca a Milano, oggi si chiama “Scuola Militare Teulié”. Lo vedo sempre quando passo in Corso Italia col tram n.15, per andare in centro. Ma il figlio di Bart non ne voleva sapere, di Storia e di patria, “era un po' abulico circa i fatti contemporanei”. Il padre non si dava pace come mai il figlio di un grande patriota e soldato era così poco entusiasta in tema di patriottismo.

Il Montanari nel testo racconta molto della vita privata del colonnello Bart Cavedoni, del suo fascino e soprattutto dei suoi flirt con le mademoiselle a cominciare da Lutgarda Banchetti conosciuta in Francia e poi della giovanissima e graziosa milanese Carolina Giovio. Sono le donne che in certi ambienti ex nobiliari, salotti borghesi, si avvicinano alle idee della massoneria e di altre sette e nello stesso tempo si legano in relazioni con uomini affascinanti come Bart e Ugo Foscolo.

Scrive Montanari su questo tema: “Era ancora una minoranza salottiera quella che discettava e aderiva alle idee del vento francese; ma era una minoranza di peso, intellettuale, che respirava profondamente la voglia di cambiamento(...)”.

Col tramonto dell'astro, Napoleone, tramonta anche la vita militare e politica di Bart Cavedoni, “che aveva messo la sua esistenza al servizio di una causa, quasi sacerdotale di essa pronto alla celebrazione del suo stesso sacrificio”.

Il Cavedoni prima di ritirarsi nella sua Castelvetro deve affrontare tante difficoltà per il suo passato rivoluzionario, a cominciare dei due anni di carcere duro in Austria. Mentre il padre Cavedoni può ora riposarsi, il figlio Armodio “prende il testimone”, inizia anche lui la carriera militare, però sotto la bandiera del legittimismo dell'arciduca Francesco IV di Modena. Credo che sia il primo libro che leggo sul Ducato di Modena, abitualmente dipinto dai cosiddetti libercoli scolastici come tra quelli più biechi e reazionari. Invece come scrive Montanari che non mi sembra un cocciuto reazionario, “il Ducato retto dal 1780 da Ercole III non era uno Stato così arretrato come si potrebbe pensare. Intanto la sua capitale, Modena, aveva una fiorente università con professori in media bravi e famosi anche fuori Stato”.

Armodio Cavedoni è rimasto sempre dalla parte del “suo signore”, l'arciduca Francesco IV prima e poi del giovane figlio, Francesco V, duchi d'Asburgo-Este, che hanno assicurato la pace e l'ordine del piccolo Regno.

Il giovane Armodio dopo la laurea è entrato quasi subito nel corpo docente nell'Accademia Militare Ducale (era anche uno dei giovanissimi e quotatissimi docenti della scuola dei matematici Pionieri), addirittura il Duca lo ha chiamato per fare da precettore al proprio figlio. Come il padre, si è sposato giovane con una ragazza che portava il suo stesso cognome Irene Cavedoni, da lei ha avuto anche lui quattro figli (tre femmine e un maschio proprio come suo padre). Per Armodio si apre la carriera militare, da sergente-maggiore arriva a colonnello come suo padre. Ben presto è chiamato a combattere per difendere il piccolo Staterello di Modena, chiamato “guscio di noce”, a cominciare dalla cosiddetta congiura guidata dal “famoso” Ciro Menotti. Fu Armodio Cavedoni in persona a catturare il “patriota” che si era illuso di fare la rivoluzione contro il Duca. A questo proposito sono interessanti le riflessioni di Massimo Viglione nel suo libro “Le Due Italie”, in merito a questi cosiddetti patrioti che quasi inconsapevolmente venivano lanciati allo sbaraglio, in una specie di suicidio collettivo dal signor Giuseppe Mazzini.

Per concludere merita un accenno il dettagliato racconto di Montanari su come il giovane duca Francesco V e il comandante Armodio, entrambi fedeli cattolici, hanno preparato una fantastica accoglienza al papa Pio IX nella loro Modena. Una festa nella festa.

Infine la disfatta anche per il colonnello Armodio risulterà, come il padre, uno sconfitto e seguirà la sorti della Brigata Estense, l'esercito ducale, in territorio austriaco. Entrambi hanno subito pressioni per abiurare le proprie idee, ma sono rimasti saldi fino alla fine, anche se il padre per farlo è stato costretto a togliersi la vita.

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