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micheletta_ungari


Un corposo volume di saggi esce presso le Edizioni Studium col titolo L’Italia e la guerra di Libia cent’anni dopo (pp. 494, € 40). Ne sono curatori Luca Micheletta, docente di storia delle Relazioni internazionali a Roma “La Sapienza”, e Andrea Ungari, contemporaneista presso l’Università Marconi di Roma. La diversità dei numerosi autori, le varie chiavi interpretative del conflitto italo-ottomano, la ricchezza e la molteplicità degli argomenti affrontati consente di dire che amplissima risulta la lettura di quell’evento. Ai curatori abbiamo posto alcune domande.

Come mai un libro sulla guerra di Libia?

L’idea del volume nasce dalla volontà di raccogliere gli interventi di un convegno internazionale che si tenne nel dicembre del 2011, in occasione del centenario della guerra di Libia, presso la facoltà di Scienze politiche della Luiss Guido Carli e che venne sostenuto dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma. Le relazioni presentate al convegno si rilevarono di particolare pregio e, da qui, nacque l’idea di farne un volume apposito.

Che fini ha un testo dedicato alla guerra di Libia?

Il libro, come dice il titolo, si propone di riflettere sulla guerra di Libia un secolo dopo, una riflessione che ha interessato autori con diversa sensibilità e di diversa impostazione storiografica. Crediamo che ne emerga un quadro complessivo sia dell'atteggiamento del sistema politico italiano e dell'opinione pubblica di fronte all'opzione della guerra, sia della crisi che l'avvio delle operazioni militari innesca a livello internazionale.

Il volume riunisce, dunque, contributi con taglio diverso e su diversi aspetti connessi con quel conflitto.

Crediamo che il pregio dell’opera sia proprio questo: si possono comprendere la posizione dei principali schieramenti politici, ma anche il ruolo degli intellettuali e della stampa, i travagli del movimento pacifista, le rappresentazioni coeve della guerra e, al contempo, analizzare le operazioni militari e la sperimentazione di nuove e micidiali armi, o le finalità e gli interessi delle altre potenze europee. Difficile sfuggire alla sensazione di trovarsi davanti a una società italiana molto più complessa di quanto solitamente si tenda a pensare, per nulla provinciale e certo pienamente inserita nel contesto culturale dell'Europa di allora.

Si può parlare della guerra di Libia come di una prova generale per le forze politiche italiane degli atteggiamenti che matureranno allo scoppio della prima guerra mondiale e del dibattito sull'intervento italiano?

Se ne può parlare nel senso che molti dei temi propagandistici che verranno utilizzati nel 1914-‘15 sono già presenti nel dibattito sulla guerra di Libia; e se ne può parlare pure nel senso che l'opzione bellica pone di fronte a una scelta netta, che è causa di un duro dibattito tra le forze politiche ma anche fonte di lacerazioni all'interno delle forze politiche stesse, come nel caso del partito socialista.

La guerra di Libia fu una “prova generale” del primo conflitto mondiale?

In effetti, dal punto di vista internazionale la guerra di Libia portò all’indebolimento dell’Impero Ottomano, favorendo la destabilizzazione di tutta l’area balcanica. Area nella quale molti Stati stavano cercando di aumentare la propria sfera d’influenza o, addirittura, stavano cercando di affermare la propria indipendenza nazionale. Senz’altro, quindi, la guerra di Libia può essere vista come un precedente del conflitto mondiale.

Perché leggere questo volume?

Difficile dare una risposta imparziale. Pensiamo, però, che il volume meriti un’attenta lettura, proprio perché le diverse sensibilità degli autori e i diversi accostamenti riescono a fornire quella complessità della società italiana e del quadro internazionale che in passato si è spesso trascurato.

 

Intervista a cura di

Marco Bertoncini

Il 25 gennaio scorso a Napoli nella Chiesa di S. Chiara si è svolta la solenne cerimonia di beatificazione di Maria Cristina di Savoia, Regina del Regno delle Due Sicilie, alla presenza di S. E. Rev,ma cardinale Crescenzio Sepe, nello stesso giorno a Palermo, nella suggestiva e storica Cappella Palatina di Palermo, S. E. Rev.ma cardinale Paolo Romeo presiedeva un Te Deum di ringraziamento per la novella Beata. Per l’occasione è nato in Sicilia il “Comitato Beata Maria Cristina di Savoia Regina delle Due Sicilie” di Palermo che ha prodotto un volumetto edito da ISSPE (Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici), autori Tommaso Romano e Antonino Sala, con contributi di don Andrea Di Paola, di Umberto Balistreri e Andrea Aldo Benigno.

“Il bisogno di Dio, è una necessità innata e universale dell’uomo”, scrive don Di Paola. I Santi come gli alberi che profondamente radicati in terra svettano alti verso il cielo, così la beata Maria Cristina, che papa Pio XI con un Decreto Pontificio il 6 maggio 1937 ne proclamò le “eroiche virtù”, additandola a tutti i fedeli “quale luminoso modello da imitare nell’adempimento della Vocazione cristiana che Ella, ha saputo mirabilmente vivere da sposa e da sovrana, ponendo sempre alla base di ogni sua parola e di ogni suo gesto la carità verso tutti”.

Coniugare la regalità e la santità, sembra un privilegio del passato, scrive il professore Romano. Invece non è così, se il Santo Padre Francesco ha voluto innalzare Maria Cristina di Savoia Regina delle Due Sicilie (Cagliari, 1812 – Napoli, 1836), quale Beata della Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana e, quindi come esempio di Virtù Cristiana, per il pubblico culto universale. “La nuova Beata, -per Romano – racchiude e propone un cristiano modello, uno stile di esistenza, il sacrificio della vita ancor giovane alla morte, con perfetta adesione al Suo stato di nascita, all’assunzione della regalità nell’antico Regnum Siciliae e, al suo tempo. Cristianissimo Regno delle due Sicilie, allora governato dal Re Ferdinando II che, grazie al matrimonio, diede il sospirato Erede al Regno, l’ultimo e sfortunato sovrano, ma pio e religiosissimo, Francesco II”.

“La Reginella santa”, come subito fu proclamata dal popolo delle Due Sicilie, vede nel volto del povero, del perseguitato, del condannato, del malato, come l’immagine di Gesù Cristo piagato, crocifisso, umiliato. In questa”unione anzitempo fra le due Casate che erano italiane e, quindi mediterranee, nella secolare cultura, nella pratica della lingua, nella bellezza, nello stesso credo religioso”, il professore Romano vede compiersi attraverso la regina Maria Cristina di Savoia, senza però i successivi giacobinismi della conquista, quell’unione italiana che si è compiuto nei decenni successivi. Qui però, occorre precisare che ci sono ancora oggi, forti correnti nostalgiche del legittimismo borbonico che rifiutano questo accostamento.

In molti ignorano la storia identitaria e spirituale di queste antiche famiglie, dei Savoia e Borbone. La famiglia di Maria Cristina, è colma di figure straordinarie: da Umberto Biancamano ad Eugenio di Savoia, che salvò l’Europa dall’invasione turca. La “Reginella Santa” unisce queste famiglie. Ella è erede diretta di ben altri cinque beati della Sua Casa, e di altri venerabili.

Dunque la regalità non esclude la santità, del resto, abbiamo tanti esempi nella Storia bimillenaria della Chiesa, di re e regine santi. Questo non lo possiamo dimenticare, lo ha ricordato il venerabile Pio XII nelle Allocuzioni al patriziato ed alla Nobiltà, la cui mirabile esegesi la si deve al pensatore controrivoluzionaro brasiliano Plinio Correa de Oliveira nel suo volume Nobiltà ed elites tradizionali analoghe”. Tutti possono raggiungere la santità, afferma il Concilio Vaticano II, “nei vari generi di vita e nei vari uffici…” Tommaso Romano ricorda come la giovane regina utilizzava il proprio denaro per donarlo ai poveri, perfino quello destinato ai festeggiamenti delle nozze, ne destinava regolarmente ogni mese 4.000 scudi. Non si possono dimenticare le numerose opere sociali di Maria Cristina, in un mio precedente intervento l’ho definita, “una regina animatrice e imprenditrice del sociale”. E’ celebre il suo impegno per rilanciare la Seteria di San Leucio, dove lavoravano oltre 300 donne, un’impresa economica d’avanguardia, dove le famiglie avevano casa, lavoro, una chiesa ed una scuola obbligatoria.

Romano è convinto che la proclamazione della beata Maria Cristina, sarà utile per riscattare l’umanità attuale “dallo stato di pericolosa anestesia, facendo riscoprire la bellezza dell’autentica regalità intesa anzitutto come nobiltà dello Spirito, come cavalleresco aiuto al prossimo, come evangelizzazione e conversione”.

La seconda parte del volume, Antonino Sala, fa una breve biografia della giovane regina. Il credo cattolico di Maria Cristina, non fu “un sentimento, ma un fatto di vita: ogni giorno assistette alla Santa Messa; non giunse mai al tramonto senza avere recitato il Rosario; suoi libri quotidiani furono la Bibbia e l’Imitazione di Cristo; partecipò intensamente agli esercizi spirituali;fermò la carrozza, ogni qualvolta incontrasse il Santo Viatico per via e si inginocchiò anche quando vi fosse fango, in cappella tenne lungamente lo sguardo sul Tabernacolo per meglio concentrarsi su Colui ch’era padrone del suo cuore…”

Sala fa riferimento al caso della sig.na Maria Vallarino, che invocando la giovane regina Maria Cristina, guarisce miracolosamente da una malattia grave al seno. Il libro si chiude con alcune preghiere significative in onore e devozione della regina delle Due Sicilie. In ultimo gli autori fanno riferimento a una bibliografia essenziale per conoscere Maria Cristina, c’è il libro di Mario Fadda e Ilaria Muggianu Scano , “Maria Cristina di Savoia”, edito da Arkadia, e con mio sommo piacere due miei interventi sulla regina, pubblicati da Il Corriere del Sud di Crotone.

morti nazismo e comunismo. tutti uguali.


“Mi hai gettato nella fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi. Fra i morti è il mio giaciglio” (Salmo 88). “Quante volte questo grido di sofferenza si è dovuto levare dal cuore di donne e di uomini dal 1 settembre 1939 alla fine dell’estate 1945. Ma occorre parlarne? Bisogna far sì che quel tragico evento non cessi di essere un avvertimento. La generazione che l’ha sperimentato e sofferto vive ancora”. Vaticano, 26 agosto 1989 – Papa Giovanni Paolo II (Lett. Apostolica per il 50° anniversario dell’inizio della II guerra mondiale).

Fino a qualche decennio fa tra i massacri degli anni tragici della 2° guerra mondiale per la Storia ufficiale c’era soltanto posto per l’olocausto degli ebrei, ora pare che abbia preso piede anche quello delle foibe, un piccolo olocausto di uomini e donne italiane. Certo ancora altre mattanze fanno fatica ad essere riconosciute e penso all’Holodomor ucraino, per settant’anni censurato, una carestia di massa pianificata a tavolino dai comunisti sovietici che in quattro anni dal 1929 al 1933 ha causato quasi 6 milioni di ucraini morti, tanti quanti furono gli ebrei eliminati da Hitler, e come non ricordare “Le fosse di Katyn”, dove vennero trucidati a freddo migliaia di militari polacchi che si erano consegnati ai sovietici per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi. In pratica l’intera classe dirigente della futura Polonia, è stata eliminata per ordine di Stalin. Si potrebbe proseguire con altri fatti ancora censurati.

A questo proposito sarebbe importante che qualcuno organizzasse, come hanno fatto per l’olocausto ebraico, di far partire qualche “treno della memoria” per visitare per esempio i gulag, le foibe o altri luoghi di orrore. Anzi forse sarebbe meglio farlo partire dalla Stazione di Bologna, dove nel 1946 si è verificato un episodio di vera e propria barbarie, protagonisti furono i ferrovieri comunisti che con tanto di bandiere rosse inveendo contro gli esuli istriani dalmati giuliani al grido di “fascisti”, di fatto gli hanno impedito di scendere dal treno e quindi di essere aiutati dalle dame della carità venuti in loro soccorso. Del resto per molto tempo i comunisti italiani erano convinti che dentro le foibe ci fossero soltanto fascisti, che hanno meritato questa fine. L’episodio di Bologna ora viene raccontato anche nel libro appena uscito nelle librerie .“Magazzino 18” di Simone Cristicchi, che riporta la citazione dell’Unità del 30 novembre 1946, che considerava gli esuli degli “indesiderabili(…) dei criminali (…)che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici”.

Dunque le foibe entrano nel dizionario criminale. Il termine “foiba” deriva dal latino “fovea” e significa fossa, cava, buca. Le foibe sono voragini rocciose, create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua; possono raggiungere anche 300 metri di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra. In Istria esistono 1.700 foibe. Queste cavità venivano usate abitualmente come discariche, dove veniva gettato ciò che non serviva più, ora tra il 1943 e il 45 furono utilizzate per infoibare (spingere nella foiba) migliaia di istriani e triestini, ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista del maresciallo Tito.

I massacri degli italiani si sono svolte in due fasi, la prima nel 1943 subito dopo l’armistizio funesto dell’8 settembre di Badoglio; in breve sia i militari italiani che i civili si trovarono in balia delle epurazioni, delle rappresaglie e delle vendette degli slavi partigiani comunisti. I titini conquistarono rapidamente l’Istria senza essere contrastati da nessuno. Il 26 settembre a Pisino fu proclamata la separazione dell’Istria dall’Italia e il suo ricongiungimento alla madrepatria jugoslavia. Furono abolite tutte le leggi politiche, economiche e sociali imposte dal regime fascista e soprattutto, scrive Arrigo Petacco, nel suo “Esodo”:“veniva stabilito che tutti gli italiani trasferiti in Istria dopo il 1918 sarebbero stati ‘restituiti all’Italia’ e che tutte le forzate italianizzazioni dei nomi e delle scritte avrebbero riassunto i vecchi nomi croati”. A Pisino viene istituito un “Tribunale del popolo”, composto da tre contadini, presieduto da Ivan Motika, il “boia”, un avvocato di Zagabria, da questo momento, inizia la caccia al fascista, in pratica, all’italiano, entra in azione la“ghepeù slava”. E’ una stagione di terrore in cui gli uomini del nuovo potere si aggirano per i paesi armi in pugno, minacciano epurazioni e vendette e, soprattutto di notte, penetrano nelle case prelevando uomini e donne sulla cui sorte nulla dicono. Si tende ad eliminare la classe dirigente italiana di ogni attività: dal podestà all’ufficiale postale, dalla levatrice, all’insegnante, al carabiniere etc.

Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati. Stime ricorrenti esprimono valutazioni da un minimo di cinquemila ad un massimo di oltre ventimila vittime. In grande maggioranza sono italiani, ma gli storici scrivono che c’erano anche tedeschi, ustascia, cetnici e persino soldati neozelandesi dell’esercito britannico. “In realtà, - scrive Petacco - il conto esatto non si potrà mai fare. Nella foiba di Basovizza, presso Trieste furono ricuperati 500 metri cubi di resti umani e si calcolò brutalmente che le vittime dovevano essere 2.000: quattro per metro cubo”. Naturalmente gli jugoslavi hanno sempre rifiutato ogni forma di collaborazione e comunque avevano già distrutto gli archivi.

Tra i tanti episodi di uccisioni di uomini e donne, abitualmente i libri ricordano Norma Cossetto, una ragazza istriana di 23 anni, di Santa Domenica di Visinada, che ha subito un vero e proprio martirio dai suoi aguzzini. Norma, ormai simboleggia la bestiale ondata di violenza che si abbatté sugli italiani. Dopo atroci sevizie e torture, i martiri spesso venivano evirati e denudati, condotti nei pressi della foiba, venivano legati loro i polsi e i piedi con filo di ferro e poi uniti gli uni agli altri sempre tramite fil di ferro. I partigiani si divertivano a sparare al primo del gruppo che cadeva nella foiba trascinando tutti gli altri, tra l’altro così risparmiavano le pallottole. Mentre nelle località costiere per eliminare gli italiani, si preferiva utilizzare invece il metodo degli annegamenti collettivi. “Legati l’uno all’altro col filo di ferro e opportunamente zavorrati con grosse pietre venivano portati al largo su grosse barche e gettati in mare”, in pratica quello che hanno fatto i rivoluzionari giacobini in Francia con i vandeani. Si attua così un assassinio collettivo indiscriminato: una lotta senza pietà che usa il terrorismo per seminare il panico. Ormai si conoscono quasi tutti i numerosi giudici-carnefici che si resero tristemente famosi in tutta l’Istria per la loro spietatezza. Ricordo negli anni 90 che Il Secolo d’Italia, quotidiano di Alleanza Nazionale, aveva intrapreso una campagna di denuncia contro questi signori, i vari “Priebke jugoslavi”, che tra l’altro, alcuni percepivano la pensione da parte dello Stato italiano.

La 1 fase dei massacri degli italiani si concluse con l’arrivo dei soldati tedeschi, che paradossalmente furono accolti come liberatori, “forse non era accaduto in nessun’altra parte d’Europa”, scrive Petacco. L’Istria viene riconquistata, nasce la “Adriatisches Kustenland”, i tedeschi, soprattutto le SS operano una spietata controffensiva, naturalmente comportandosi come i comunisti titini. A questo punto si rimescolano le carte, troviamo italiani che combattono a fianco dei tedeschi, altri italiani con i partigiani titini che operano prevalentemente con azioni di guerriglia. E’ importante raccontare le varie posizioni politiche dei vari gruppi in guerra, in particolare, il Pci di Togliatti che aveva scelto di combattere a fianco di Tito, lo fanno bene Petacco, ma anche Pupo, naturalmente qui non abbiamo il tempo di soffermarci sulla questione.

La 2 fase dei massacri degli italiani iniziò subito dopo la disfatta nazista, alla fine di aprile 1945. “Enormi masse di uomini armati con le loro donne, i loro figli e le loro cose affardellate su muli e carriaggi, si erano messi in marcia dalle varie regioni della Jugoslavia puntando verso occidente”. In questo clima le truppe di Tito si aprono la strada avventandosi con armi in pugno su uomini e donne che magari avevano collaborato con gli occupanti tedeschi. Inizia la pulizia etnica ma anche quella politica. Per avere un’idea del clima folle che si stava vivendo in quei giorni, secondo testimonianze raccolte dallo storico Pier Arrigo Carnier, circa 75.000 croati furono uccisi nei dintorni di Maribor e sepolti in enormi fosse comuni. Oppure l’altro grave episodio della consegna dei britannici ai sovietici di 60.000 cosacchi della Carnia, che al momento della consegna, preferirono suicidarsi collettivamente.

L’Italia subisce l’assalto degli eserciti di Tito, nella memoria di molti è rimasto quello dei cetnici del generale Draza Mihajlovic sulla città di Gorizia e poi i quaranta giorni di Trieste in mano alle “guardie del popolo” e alla polizia segreta OZNA di Tito che seminano il terrore. E poi l’esodo dei 350 mila italiani che preferiscono abbandonare le loro terre e le loro case, di questo ne da ampio risalto il libro di Raul Pupo, “Il lungo esodo”. Ma penso che la rappresentazione teatrale “Magazzino 18” di Cristicchi, che vedremo lunedì prossimo in occasione della “Giornata del Ricordo”, sarà in grado di spiegare bene la tragedia che hanno subito tanti nostri connazionali.

 

 

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