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Giovanni Giolitti 1842-1928. Lo statista della Nuova Italia è un dvd realizzato nell’ambito del progetto “Il Piemonte per l’Italia: Cavour, Giolitti, Einaudi”, promosso dalla Fondazione Camillo Cavour (Santena), dalla Fondazione Luigi Einaudi (Roma) e dal Centro europeo Giovanni Giolitti (Dronero-Cavour). Vi si ripercorre, attraverso quasi un’ora, la vita dello statista piemontese, con interventi di numerosi storici e amministratori. Da ammirare anche i tanti scorci del vecchio Piemonte, delle colline e delle montagne che furono percorse dallo stesso Giolitti, oltre che delle case in cui visse o soggiornò.

La cura del dvd è dello storico Aldo Alessandro Mola, al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Giolitti era un uomo schivo. Perché farne il soggetto di un dvd?

Giolitti, in effetti, non compare in alcun filmato della sua epoca. Anche le sue fotografie sono rare. Pubblicò le Memorie della mia vita (arbitrariamente attribuite a Olindo Malagodi) nel suo ottantesimo compleanno, il 27 ottobre 1922, vigilia di una data famosa. Dalla storiografia e dalla pubblicistica spesso Giolitti è menzionato a sproposito, perché rimane poco e mal conosciuto. La biografia che ne scrisse Nino Valeri è del 1971. Forse un racconto per immagini raggiunge un pubblico vasto e può invogliare a capire meglio l'uomo e il suo tempo.

Perché “statista della Nuova Italia”?

La genialità di Cavour è indiscutibile. Ma nessuno sa come avrebbe governato il regno d'Italia, proclamato pochi mesi prima che morisse, il 6 giugno 1861. Einaudi, altro gigante, resse il Paese dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale. Con Umberto I e soprattutto con Vittorio Emanuele III Giolitti fu capo di governo quando l'Italia raggiunse il vertice della sua storia di Stato unitario indipendente, accolto alla pari nel novero delle grandi potenze.

Quali furono i punti di forza di Giolitti?

La perfetta conoscenza della macchina dello Stato (amministrazione centrale e periferica) e della legiferazione (norme chiare, di immediata fruizione), una visione organica della scala dei compiti: politica estera, difesa, finanze, giustizia, istruzione ...

Ma fu un dittatore, come scrisse Denis Mack Smith?

No. Anzi, come Cavour, Giolitti fece del Parlamento, soprattutto della Camera, elettiva, il pilastro della monarchia rappresentativa, sul modello inglese molto più che su quello francese, impastato di bonapartismo, giacobinismo e clericalismo. Tra il 1848 e il 1913 i collegi uninominali furono il vivaio dell'immensa classe dirigente politica che costruì la Nuova Italia. Nei suoi cinque governi, tra il 1892 e il 1921 Giolitti si valse di dozzine di ministri delle regioni più diverse. Tra i suoi fedelissimi molti furono i meridionali. Tra tutti ricordo il napoletano Pietro Rosano. Investito da una campagna diffamatoria questi si sparò per evitare che di rimbalzo essa colpisse Giolitti. Una condotta da antico romano. Aggiungerei il siciliano Antonino Paternò Castello di San Giuliano e il calabrese Antonio Cefaly.

Quale fu il suo vero rapporto con Casa Savoia?

Giolitti era profondamente monarchico. Mai cortigiano. I re per lui incarnavano l'idea di Italia, che arrivava dai secoli andati. Casa Savoia aveva compiuto il miracolo dell'unificazione dopo secoli di dominazione straniera: un tasto sul quale batté sempre nei discorsi parlamentari ed extraparlamentari e nella corrispondenza privata. La monarchia era garante dell'unità, della libertà e dell'uguaglianza dei cittadini dinanzi alle leggi, conquista fondamentale dopo secoli di dominio straniero e in costanza del clericalismo.

Di Giolitti si dice che era troppo prosaico e che non seppe cogliere le novità poetiche e artistiche del Novecento.

Carducci, di cui fu ammiratore, sin dal 1876 scrisse che l'Italia poteva fare a meno di poeti per mezzo secolo e che aveva bisogno di studi statistici, di cultura economica. Quando nel 1914 inaugurò un ospedale per l'infanzia, Giolitti disse che con due generazioni “bene allevate e bene educate” gli italiani sarebbero divenuti un Paese non inferiore a quelli che avevano tanti più secoli di storia unitaria.

Perché fu contrario all'intervento dell'Italia nella Grande Guerra?

Capì, quasi unico tra i politici italiani, che sarebbe stata lunga, logorante e che l'Italia ne sarebbe uscita comunque logora e indebitata. Nell'agosto 1917 propose il trasferimento del potere di dichiarare guerra dalla Corona al Parlamento. Lo ribadì nel programma elettorale del 1919 e lo propose alle Camere quando tornò per la quinta volta presidente  del Consiglio, ma la riforma dello Statuto non venne mai discussa: un errore catastrofico del Parlamento, di cui nel giugno 1940 profittò Mussolini.

Il dvd rileva la contrapposizione di Giolitti al fascismo, ma Gaetano Salvemini, che già lo aveva denominato “ministro della malavita”, disse che fu il Giovanni Battista del fascismo.

Occorre distinguere nettamente il governo di coalizione nazionale presieduto da Mussolini dal 31 ottobre 1922 e le sue trasformazioni dopo il 3 gennaio 1925. La prima fase fu improntata a liberismo; dal 1925 iniziò il regime, che si consolidò nei due anni seguenti (le “leggi fascistissime”), in specie con la riforma elettorale che nel 1928 conferì al Gran Consiglio del Fascismo la compilazione dei componenti della Camera.  Giolitti, che nel 1924 aveva capitanato una lista coerentemente liberale nel nome di Cavour, Azeglio e Sella, votò contro. Morì ottantaseienne il 17 luglio di quell'anno: poco prima del Concordato Stato-Chiesa dell'11 febbraio 1929, avversato in Senato da Benedetto Croce, già ministro dell'Istruzione nel suo V governo.

Quale attività svolge il Centro Giolitti?

Da vent'anni organizza convegni e ne pubblica gli Atti. Tra le sue opere ricordo i tre volumi in cinque tomi Giolitti al governo, in Parlamento, nel Carteggio: circa 5000 pagine raccolte in collaborazione con Aldo G. Ricci e quasi tutte di inediti. L'obiettivo è documentare, come anche fa il dvd: nessuna concessione a leggende e fantasie: fatti, concretezza, senso della misura. L'ultimo tomo ebbe la prefazione di Francesco Cossiga, presidente del Comitato d'Onore delle Opere del Centro.

Mentre imperversa sulle nostre teste la crisi economica e quella politica del nostro Paese, chissà se abbiamo tempo e voglia di ricordare la grande tragedia che hanno subito migliaia di italiani tra il 1943 e il 1945 nelle terre giuliane, istriane e dalmate. Dopo l'istituzione nel 2004 della “Giornata del Ricordo”, dovremmo essere tutti al corrente del massacro di italiani che è stato compiuto dalle forze partigiane comuniste guidate dal maresciallo Josip Broz Tito (i titini).

Il mio contributo al ricordo delle vittime delle foibe è la presentazione di un libro che ho trovato recentemente nei miei consueti raid presso il solito outlet librario milanese. Il saggio è scritto da Giuseppina Mellace,“Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe”, Newton Compton (2015), riproposto dalla Biblioteca Storica de Il Giornale.

L'autrice, avvalendosi di diversi studi, soprattutto quelli di Raul Pupo, di Roberto Spazzali, ma anche di testimonianze scritte di intellettuali triestini, ha realizzato un buon testo documentato che ci offre una sintesi sui fatti che coinvolsero le popolazioni italiane dei confini orientali.

Le foibe rappresentano una storia dimenticata, negata, volutamente rimossa per decenni. La scrittrice romana è andata alla ricerca delle cause del fenomeno foibe, rivolgendo l'attenzione in particolare alla condizione delle donne, “da sempre testimoni silenziose e vittime mute della violenza della guerra”. Infatti alla fine del libro, nelle appendici, la Mellace, con un lavoro certosino, di ricerca, di confronto paziente di elenchi, dedica molte pagine a loro:“le donne infoibate, deportate, scomparse o condannate dai tribunali speciali”.

Un elenco dettagliato di nomi in ordine alfabetico, vittime degli slavi, vittime dei nazifascisti. Seguono poi una serie di documenti o stralci che illustrano meglio gli avvenimenti esposti nel libro.

“Le prime a sparire, proprio come accadeva per gli uomini, furono le donne legate alle istituzioni: non a caso le insegnanti furono particolarmente perseguitate e i loro cadaveri offesi e martoriati. Infatti era prassi ucciderle e poi impiccarle a un albero, talvolta per i capelli”.

Purtroppo capita spesso che siano proprio le donne a pagare un caro prezzo in tutte le guerre. Loro oltre a perdere la vita, spesso vengono irrimediabilmente ferite e violate nella loro intimità, così è capitato alla povera Norma Cossetto, o alle tre sorelle Radecchi. Albina, Caterina e Fosca.

Per affrontare il tema degli infoibamenti e delle deportazioni, la Mellace, tratteggia, a grandi linee, la fase storica in cui tale fenomeno è avvenuto. Siamo nella II guerra mondiale, con la lotta degli Alleati e la Russia contrapposti al nazifascismo, poi alla fine del conflitto, inizia un'altra battaglia, quella della “guerra fredda”. In questo contesto c'è il Partito comunista italiano di Togliatti che appoggia la linea politica del maresciallo Tito. Inoltre accenna alla questione economica, a quella immobiliare, e poi all'espansione slava della zona, che ha influito sull'esodo degli italiani, oltre 350 mila italiani fuggirono dall'Istria, dalla Dalmazia e il Friuli Venezia Giulia.

Interessante il capitolo che affronta l'esodo, un dramma dove intere comunità strappate alla proprie radici, per la Mellace, non fu “una migrazione, bensì una frattura, un punto di non ritorno, scelta politica e fu, per molte zone, plebiscitario, sebbene manchi, ancora oggi, una storia complessiva di tale fenomeno”. I numeri degli italiani che abbandonarono le terre dalmate giuliane e d'Istria sono impressionanti, a Fiume su 60.000 abitanti, 54.000 scappano. Pola su 34.000 abitanti, abbandonano in 32.000. Zara su 21.000, lasciano 20.000. Capodistria su 15.000 abitanti lasciano, 14.000 e via di questo passo per gli altri centri.

La Mellace, avendo ripreso lo studio di Pupo, racconta come il fascismo cercò in tutti i modi di “fascistizzare” quei territori, attraverso le scuole. In queste zone, il fascismo cercò di plasmare la società secondo il proprio modello culturale, introducendo tutte quelle opere che aveva fatto nel resto d'Italia. S'interessò soprattutto dell'istruzione dei giovani, con la riforma Gentile contribuì all'italianizzazione e quindi all'eliminazione delle lingue salve dalla scuola. Nel terzo capitolo, la Mellace, accenna anche ai campi di internamento e di concentramento italiani. In questo frangente mentre infuriava la guerriglia partigiana e quindi le varie rappresaglie, in Slovenia, si distinsero due generali italiani, Mario Roatta e Mario Robotti, quest'ultimo ordinava sempre più rigore e più fucilazioni. Ci furono deportazioni, anche qui è impossibile quantificare l'esatta cifra, il numero oscillerebbe tra i 25.000 e i 100.000 mila, tutto questo per stroncare la guerriglia partigiana. Poi arrivò la pesante invasione tedesca, con l'armistizio dell'8 settembre 1943, e così la popolazione italiana, si trovò presa tra due fuochi, da una parte i tedeschi, dall'altra il Movimento di liberazione del partito comunista jugoslavo.

Il maresciallo Tito richiedeva ai suoi uomini un'incrollabile fede comunista, che doveva essere comprovata, in territori come l'Istria e la Dalmazia che già si sentivano jugoslavi prima del crollo dell'Italia fascista, prefigurando una bolscevizzazione della zona. Pertanto chi non dimostrava una fede comunista sarebbe stato passato per le armi nel più totale silenzio.“La propaganda – scrive Mellace - fomentava il forte spirito nazionalista slavo che il fascismo aveva tentato di annientare. I partigiani, conquistato un territorio, ponevano come condizione alla classe dirigente locale, per la maggior parte dei casi italiana, la totale collaborazione, abbracciando la causa slava, oppure la sparizione o l'eliminazione fisica come 'nemici del popolo': una categoria che, non avendo una caratterizzazione definita, era applicabile a chiunque, e creava un diffuso senso di paura e di incertezza per il domani”.

Nel libro la Mellace parla di tre stagioni di violenze in una catena di furore popolare e di resa dei conti, sempre all'interno degli anni della seconda guerra mondiale. La prima all'indomani dell'8 settembre '43, le vittime oscilleranno tra le 500 e le 700, tutti concentrati sull'Istria,“caratterizzate da una ferocia disumana in special modo sulle donne, quasi a voler colpire gli uomini, gli italiani e quindi i fascisti, nei loro affetti più cari”. La seconda stagione, va dal 1 maggio 1945, con l'arrivo delle truppe di Tito a Trieste e l'ultima dopo la fine del conflitto mondiale.

Il 19 capitolo è dedicato ai “luoghi dell'orrore”, si comincia con la foiba di Basovizza e poi via via con tutte le altre. "Le foibe - scrive l'autrice - fornivano l'opportunità di uccidere in maniera celere senza grande dispendio di denaro per le munizioni", diventando in pratica delle "fosse comuni".

“La maggior parte delle vittime tra gli italiani apparteneva alla borghesia, gli oppositori più ferrei del partito comunista”.

In questi grandi “inghiottitoi naturali, propri dei terreni carsici, poco visibili poiché spesso la vegetazione copre le stesse voragini”, venivano scaraventati uomini e donne spesso legati l'uni agli altri da un fil di ferro. Nella maggior parte dei casi, bastava sparare al primo della fila che, cadendo, avrebbe trascinato con sé il resto dei prigionieri con lui legati. Per certi versi, scrive la Mellace: “ la celerità della sepoltura ne sviliva tutta la ritualità a essa legata, compresa l'elaborazione del lutto, e cancellava il diritto alla memoria del defunto”. Poi con la “spoliazione, prima dell'esecuzione, aggiungeva un ulteriore oltraggio alla vittima”. Questi morti non rappresentano un conflitto di razze, ma piuttosto ideologico, che si stava disputando per il controllo del territorio. Per la Mellace,“l'obiettivo non era eliminare i fascisti ma la classe dirigente italiana, in modo di creare il vuoto di potere che gli slavi si apprestavano a colmare”. E' interessante a questo proposito, l'intervista al professore Guido Rumici, che considera gli eccidi delle foibe sicuramente diversi dagli altri, ma non propende per una “pulizia etnica”. Infatti secondo lui in questa tragedia, ci sono anche “fattori nazionali, politici ed ideologici che si mescolano tra loro in un intreccio molto complesso che andrebbe visto in una prospettiva più ampia [...]”.

Quante furono le vittime?”. La Mellace non sa rispondere a questa domanda, per la verità, nessuno degli storici ancora ha risposto. In realtà, non sapremo mai con precisione quante furono le vittime delle foibe. Nessuno ha potuto quantificarle. I motivi sono tanti, innanzitutto perchè hanno distrutto i catasti, la documentazione, in pratica i titini hanno fatto tabula rasa per ricostruire un futuro diverso. Si creò una snazionalizzazione al contrario di quello che aveva tentato di fare il fascismo.  Molti archivi sono andati distrutti durante e nell'immediato dopoguerra. Inoltre le fonti slave sono state disponibili da poco tempo, dopo la fine della federazione jugoslava. Comunque sia il numero delle vittime oscilla tra un minimo di 5.000 e un massimo di 16.000.

Tuttavia si può scrivere, che“anche se rilevante, il numero degli infoibati è certamente inferiore a quello delle numerose stragi e sistematici stermini che si sono avuti nel corso della seconda guerra mondiale, ma la loro morte rimane pur sempre un crimine esecrabile e particolarmente sentito dai giuliani ancor oggi”.

 

Nei precedenti interventi su San Leonardo Murialdo ho raccontato, avvalendomi dei contributi di don Pier Giuseppe Accornero e Massimo Introvigne, la straordinaria opera evangelizzatrice e sociale di questo eccezionale santo vissuto nell'Ottocento della Torino Sabauda. Ma come ho già avuto modo di scrivere non c'è stato solo Murialdo, ma tanti altri, alcuni canonizzati dalla Chiesa, altri no. In uno studio accurato, un sacerdote, ne conta almeno 90 tra santi, beati, venerabili e servi di Dio. Ma l'elenco addirittura si può allargare a quasi 200 “santi” di uomini e donne, di rilievo per la loro pietà e per il loro apostolato sociale. Per lo più laici e laiche, appartenenti a tutti gli strati sociali.

 

In questo intervento voglio focalizzare la mia attenzione sul sano realismo cristiano di questi santi che si sono impegnati con abnegazione per risolvere i vari problemi del loro tempo. Qui in particolare presento il beato Francesco Faà di Bruno, vissuto nello stesso periodo di san Murialdo. Faccio riferimento al bellissimo testo di Vittorio Messori, “Un italiano serio”. Il beato Faà di Bruno”, pubblicato dalle edizioni Paoline. Peraltro,nella sua presentazione al Meeting di Rimini, nel lontano 1990, fu oggetto di attacchi sconsiderati da parte dei vari pasdaram risorgimentisti, che senza averlo letto, si scagliarono contro Messori, perchè si era permesso di mettere in discussione l'epopea risorgimentale.

 

C'è un capitolo del libro, il VI°, dove Messori, riesce a spiegare bene ai lettori il senso dell'opera socializzatrice dei santi torinesi.

 

Qui partendo dalla parabola del “Buon samaritano”, Messori, spiega il comportamento di questi straordinari “italiani seri”.“Amare il nostro prossimo come noi stessi”, esortò Gesù a quelli che lo ascoltavano. Ma il dottore della legge, chiese capziosamente:“ma chi è il mio prossimo?”. Alla fine della parabola Gesù, invita il dottore della legge a fare come il samaritano:“Va, e anche tu fa lo stesso”. Certo il comportamento del samaritano, è scandaloso, “poco sociale, non risolutivo, al limite 'alienante' e diseducativo”, scrive Messori. “Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti (e poi, in seguito, stando ai cattolici che 'vogliono andare a monte', che denunciano anch'essi, sdegnati, la 'carità alienante', i 'santi della beneficenza') quell''avere compassione', per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica”.

 

Dunque i santi torinesi, quegli “italiani seri”, come Cottolengo, Cafasso, Bosco, Murialdo, Faà di Bruno, quelli più conosciuti, ma tanti altri meno conosciuti, hanno obbedito a quell'antico, ma sempre attuale, comando: “Va, e anche tu fa lo stesso”. Tutti questi apostoli, secondo Messori,“passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate”.

 

Certo questi santi hanno anche alzato la voce e denunciato lo scandalo di chi non faceva nulla per aiutare chi stava nel bisogno.“Ma, più che scrivere 'manifesti', distribuire volantini, creare una Nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa”. Messori, insiste nella polemica, questi santi non hanno fatto come gli ideologi che“discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia”.

 

I nostri santi erano anche esigenti, probabilmente più dei cosiddetti riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo.“I quali - scrive Messori- (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita”. Mentre i vari don Murialdo, don Bosco, minacciavano sventure per l'eternità,“senza limite, né fine”. Sostanzialmente la passione per i poveri era identica ai vari rivoluzionari del tempo, ma differente la terapia. Si raccomandava ai ricchi di non riporre la speranza nelle ricchezze ma in Dio, di fare opere buone,“di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera”.

 

Ancora scrive Messori,“questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore!) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria”. Sicuramente non erano favorevoli all'”esproprio proletario”, come auspicavano i comunisti. Invitavano sì a dare il superfluo ai poveri, ma doveva nascere, dalle ragioni della coscienza, del cuore. Tuttavia questi santi torinesi“intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò nasce dalla forza”.

 

In pratica, ormai dopo il Novecento, il secolo delle ideologie, in particolare del socialismo più o meno scientifico, abbiamo infinite prove del fallimento di certe terapie rivelatesi illusorie, rovinose e catastrofiche.

 

Vittorio Messori, grande giornalista e storico, non poteva scrivere meglio queste riflessioni, e insiste sulle varie utopie apparse nel mondo. I santi, in particolare, questi dell'Ottocento torinese, sono“seguaci di quel Gesù che 'sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo', membri di una Chiesa millenaria 'esperta in umanità', prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri”.

 

Pertanto tutti erano convinti, che,“solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza,l'aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di 'non voler fare altro che la politica del Padre Nostro'.

 

Nella bimillenaria storia della Chiesa, nella tradizione cristiana, ci sono stati dei tentativi,“per anticipare già qui il mondo e l'uomo 'nuovi' promessici - scrive Messori -, ma si tratta di quei piccoli 'pezzi di umanità' che sono gli ordini e le congregazioni religiose”. Qui,“almeno nelle intenzioni, si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui tutto sia in comune, in cui l'egoismo sia il più possibile vinto”. Naturalmente questa vita comunitaria è una scelta libera, non forzata, è una “chiamata”, una “vocazione”.

 

Invece,“le ideologie che perseguono l'utopia dell''uomo nuovo' e del 'mondo nuovo', del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la 'virtù' alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno stato oppressivo. Uno stato che assomiglia molto a quello del Daesh dell'Isis.

 

Thomas Eliot, premio Nobel per la letteratura, ammoniva gli uomini di non farsi illusioni nel“il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, 'un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, ormai abbiamo chiaro, abbiamo visto e constato (ma non lo ricordiamo abbastanza) “come il bel sogno di creare il paradiso interra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra”. Del resto lo sapeva bene quel santo Papa Giovanni XXIII: “mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo”.

 

Attenzione a quelli che vogliono rendere gli uomini felici, diceva Karl Popper,  perchè poi alla fine “non esistano a massacrarli per questo”. Tra tutte le idee, quella di “rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa”

 

Peraltro la Chiesa esorta sempre a cambiare vita, alla conversione, ma sa anche che il peccato, l'egoismo, l'indifferenza, mai saranno del tutto eliminati, perchè l'uomo è ferito dal peccato originale. Pertanto la perfezione non è di questo mondo. Sono considerazioni che vengono fuori, ogni volta che ci affanniamo a sistemare ogni cosa su questa terra, come in questi giorni di gravi calamità naturali: il terremoto e l'abbondante nevicata, nel centro Italia.

 

Per quanto riguarda la poliedrica figura del beato Faà di Bruno, sono altrettanto significative le considerazioni di Messori su quest'uomo che si è dedicato anima e corpo ad alleviare i mali di migliaia di donne, domestiche di Torino, abbandonate al loro destino dai soprusi della casta liberale. Faà di Bruno fu ufficiale di Stato Maggiore e poi scienziato stimato in tutta Europa e umiliato, perché cristiano coerente, dalle autorità anticlericali massoniche di Torino. Anche il Faà di Bruno ha fatto tante cose per aiutare gli ultimi. La più importante è la Pia Opera di Santa Zita, creata nel malfamato Borgo San Donato, eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane. Al suo interno fonda una serie di opere, asili, scuole e laboratori per proteggere sempre le donne operaie, che in quel tempo erano molto numerose a Torino e spesso sfruttate dai ricchi borghesi liberali. A questo proposito Enzo Peserico, presentando il libro di Messori nel 1991 sulla rivista Cristianità (maggio-giugno 1991n.193-194) scriveva:“Si tratta di una vera e propria “città delle donne” a servizio della quale nel 1868 costruisce la chiesa di Nostra Signora del Suffragio e nel 1869 istituisce una congregazione di suore, le Minime di Nostra Signora del Suffragio. A queste seguiranno una serie impressionante di opere a favore del proletariato urbano, prodotto e insieme rifiuto del nascente potere liberal-massonico, preoccupato di rispondere alla carità cristiana con la retorica ideologica degli “uomini finti” la retorica che caratterizza Cuore, di Edmondo De Amicis, ma che sempre lesinò nel contribuire ad alleviare la miseria delle masse urbane diseredate”.

 

Nel suo operato non fece troppi discorsi sul proletariato, ma operò con realismo, preferì, scrive Messori,“battersi per far funzionare subito le mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche che bussavano alla sua porta[...]non elaborò  un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento,ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche[...]”.

 

Significativa la vicenda dell'orologio progettato dal beato sul campanile della Chiesa del Suffragio. Così“in attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema[...]”. Lo collocò a cinquanta metri di altezza così tutti gli ottantamila della città avevano avere l'ora esatta.

 

Questo semplice episodio, dimostra per Messori,“lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso”.

 

Anche il Faà di Bruno, vivrà fino in fondo, da protagonista, il lacerante“caso di coscienza del Risorgimento”, come è stato chiamato quello dei cattolici italiani, costretti a dividersi tra amore di patria e amore di una Chiesa perseguitata da quella patria medesima” (p. 182). Ma il nostro non indugia, si impegna in tutti i campi (dalla scienza all'arte) nella buona battaglia contro la Rivoluzione anticristiana.

 

Dunque, concludo con le parole del compianto Enzo Peserico sul beato Faà di Bruno, è stato “un cattolico integrale, una gloria per la Chiesa. Ma anche un cittadino esemplare”(p. 210): insomma, un“italiano serio“, capofila di quella schiera di santi ignoti che, costituendo il tesoro nascosto ma grandioso della storia degli italiani, ci rendono oggi partecipi di legami di terra e di sangue molto più reali e fecondi di quelli immaginati dalle caricature tricolori di oscuri “fratelli” d 'Italia, cari ormai soltanto ai loro nostalgici nipotini.

 

“Italiani seri” che non hanno bisogno di difesa, ma più urgentemente di trovare figli che ne rinnovino con la propria vita l'intelligenza e il cuore: perché, come suggerisce Vittorio Messori attraverso un'epigrafe al testo, tratta da Evagrio Pontico, monaco del secolo IV,“a una teoria si può rispondere con un'altra teoria. Ma chi mai potrà confutare una vita?”.

 

 

 

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