Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *
Captcha *
Reload Captcha
Martedì, 23 Aprile 2024

Convegno Nazionale per la…

Apr 23, 2024 Hits:107 Crotone

L'Associazione "Pass…

Apr 05, 2024 Hits:637 Crotone

Ritorna Calabria Movie Fi…

Apr 03, 2024 Hits:668 Crotone

La serie evento internazi…

Mar 27, 2024 Hits:839 Crotone

L'I.C. Papanice investe i…

Mar 01, 2024 Hits:1414 Crotone

Presentato il Premio Nazi…

Feb 21, 2024 Hits:1536 Crotone

Prosegue la formazione BL…

Feb 20, 2024 Hits:1352 Crotone

Si firmerà a Crotone il M…

Feb 14, 2024 Hits:1524 Crotone

Sono oltre 365 milioni (5 milioni in più rispetto all'anno scorso) i cristiani nel mondo che subiscono un livello alto di persecuzione per la loro fede, 317 milioni se si considerano solo i 50 Paesi nei quali il livello di persecuzione è estremo. Il dato emerge dal rapporto World Watch List 2024 della Ong Open Doors/Porte aperte, che denuncia l'aumento della persecuzione ai cristiani, mai così intensa in 30 anni.

Il fenomeno riguarda un cristiano su 7, che diventa uno su 5 in Africa e 2 su 5 in Asia. Nel dossier si sottolinea che si mantiene, in termini assoluti, una impressionante accelerazione delle persecuzioni negli ultimi dieci anni. Il rapporto raccoglie le analisi di circa quattromila persone, tra reti locali, ricercatori ed esperti esterni e prende in esame "Chiese storiche", comunità di espatriati o di immigrati e quelle convertite al cristianesimo.

Quello che è emerge è che durante il periodo preso in considerazione, che va dall’ottobre 2022 al settembre 2023, si è registrato il livello più alto di persecuzione mai accertato dalla nascita, 31 anni fa, della World Watch List, continuando un trend in costante aumento da dieci anni. Una condizione che è valida sia a livello assoluto – i cristiani perseguitati sono aumentati di cinque milioni rispetto allo scorso anno – sia a livello relativo, sommando i vari parametri. “Questo accade”, spiega ai media vaticani il direttore di Porte Aperte Cristian Nani, “perché nelle nostre analisi i punteggi di ogni singolo Stato che viene analizzato nelle cinque aree della vita del cristiano – privata, famigliare, nazionale, chiesa, e società - sono tutti peggiorati, così come è peggiorato anche l’indicatore della violenza anticristiana”.

«Impressionante» anche il dato degli attacchi o delle chiusure di chiese e altre proprietà pubbliche cristiane (ospedali, scuole e simili): si è passati dai 2.110 casi del 2022 ai 14.766 del 2023, soprattutto a causa dell’oppressione portata avanti dal Partito comunista in Cina, dove sono avvenuti circa 10mila casi.

I cristiani nel mondo non patiscono soltanto una persecuzione fatta di violenza. Esiste anche la realtà della discriminazione che in molti paesi, come il Pakistan, si esprime in molte forme: discriminazione sul lavoro, mancato accesso alla sanità e all’istruzione, pressioni e minacce per far rinunciare alla propria fede, negazione di soccorsi dopo calamità naturali e burocrazia che impedisce l’autorizzazione alla costruzione di edifici per il culto.

«Non solo i massacri e i rapimenti, ma le oltre 14.000 chiese, cliniche e scuole cristiane attaccate o chiuse, le oltre 27.000 attività economiche saccheggiate o distrutte, costringono alla fuga famiglie e intere comunità cristiane, dando vita a esodi inumani e a una “Chiesa profuga” che grida aiuto».

L’aumento della persecuzione anticristiana è dovuto soprattutto all’estremismo religioso, in particolare quello islamico nell’Africa subsahariana e nel Medio oriente, e alle paranoia delle dittature comuniste, a partire da quella che governa il Nicaragua, che l’anno scorso è salito dal 50mo al 30mo posto della classifica.

Va infine sottolineato l’inquietante fenomeno della «persecuzione digitale», modello sviluppato dalla Cina soprattutto durante la pandemia di Covid-19 e poi esportato ad altri paesi come Myanmar, India, Vietnam e Russia.

Il periodo preso in considerazione va dall'ottobre 2022 al settembre 2023. Su cento Paesi monitorati, 78 hanno un livello di persecuzione considerato almeno "alto", mentre quelli a livello "estremo" sono passati in un anno da 11 a 13. Il primo in classifica è, come sempre dal 2002, la Corea del Nord, dove è impossibile vivere la fede cristiana. Seguono Somalia, Libia, Eritrea e Yemen. Paesi dove, si legge nel rapporto, "la fede cristiana va vissuta nel segreto e, se scoperti, i cristiani - soprattutto quelli convertiti - rischiano la morte".

Al sesto posto c'è la Nigeria, che detiene il record di cristiani uccisi a causa della violenza jihadista. Sono 4.118 sui 4.998 totali nel mondo - il secondo è la Repubblica Democratica del Congo con 261. Si tratta di uno dei pochi numeri assoluti in calo rispetto allo scorso anno, quando i cristiani uccisi furono 5.621. Secondo Porte Aperte il calo è dovuto ai mesi antecedenti alle elezioni in Nigeria, periodo in cui i massacri si sono fermati per poi ricominciare dopo il voto.

Nel Paese africano c'è stato anche il numero più alto di rapimenti di cristiani, 3.300 sui 3.906 globali, ma in generale è tutta la fascia del Sahel a essere particolarmente difficile a causa dei gruppi islamisti. Il Pakistan - costantemente tra le prime dieci nazioni in cui la vita dei cristiani è più difficile - si trova al settimo posto ed è il secondo per le violenze contro i cristiani. Sale all'ottavo posto dal decimo il Sudan, seguito dall'Iran.

Decimo posto per l'Afghanistan, dove la violenza sui cristiani è calata dopo le persecuzioni degli anni precedenti che hanno portato molte comunità a fuggire. "La vita dei cristiani non è ora più sicura", si legge, "ma semplicemente i talebani hanno smesso di cercarli". L'India - undicesimo in classifica - è lo Stato con il maggior numero di cristiani arrestati - 2.332 su 4.125, seguito da Eritrea (400), Cuba (75) e Nicaragua (60).

Tra i nuovi Paesi in cui la persecuzione ha raggiunto il livello "estremo" ci sono la Siria e l'Arabia Saudita. Fra gli altri dati emersi globalmente ci sono anche 14.766 attacchi alle Chiese e ai luoghi di culto mentre sono decine di migliaia le aggressioni personali e alle attività economiche. La ong Porte Aperte dichiara inoltre che è difficile raccogliere dati certi sul numero di vittime di stupro e abusi a causa della fede: in molti paesi le denunce sono rare, per ragioni culturali e sociali.

Tuttavia, un dato minimo di partenza, secondo stime incrociate con testimonianze raccolte, è 2.622 (erano 2.126 l'anno scorso), a cui si sommano oltre 609 matrimoni forzati. Questi sono la punta di un iceberg ben più imponente. La vulnerabilità domestica colpisce specificamente le donne e i bambini appartenenti alle minoranze. In Nigeria la violenza sessuale viene usata come arma per terrorizzare le comunità cristiane, così come in Burkina Faso, Repubblica Democratica del Congo, Camerun e Repubblica Centrafricana. Ma abusi si sono registrati anche in Siria, Pakistan, Arabia Saudita e India.

Fonte Fonte Vaticana /agi / tempi / e varie agenzie

 

 

 

 

Gli attacchi del gruppo armato yemenita Houthi nel Canale di Suez stanno mettendo a repentaglio il commercio mondiale. Dalla metà di novembre gli Houthi sono entrati a gamba tesa nel già incandescente teatro di guerra palestinese: gli yemeniti hanno lanciato missili contro Israele (tutti intercettati dal sistema di difesa israeliano) e intensificato gli attacchi, attraverso droni e motovedette, contro le navi commerciali di tutte le nazionalità che attraversano il Mar Rosso, costringendo alcuni tra i colossi della navigazione come Bp e Msc a circumnavigare l’Africa allungando il viaggio di circa due settimane. È bene ricordare che dal Canale di Suez passa circa il 12% del commercio mondiale e ben il 40% (per circa 155 miliardi di dollari) di import-export italiano.

Così la nuova bufera che rischia di abbattersi sull’Europa e in particolare sui Paesi affacciati sul Mediterraneo, Italia in primis; una bufera con epicentro nel Mar Rosso; una bufera che potrebbe tornare a gonfiare le vele dell’inflazione; una bufera, infine, che rischia di vanificare le speranze di un allentamento della stretta sui tassi già nel 2024.

Ed è proprio l’Italia che rischia di dover subire i maggiori danni, visto che la circumnavigazione dell’Africa rende più agevole fare rotta sul porto di Rotterdam, piuttosto che in direzione di quello di Trieste, aggiungendo così danno a danno.

«Niente più del Canale di Suez ha fatto comprendere il livello di interconnessione esistente tra geopolitica e trasporto marittimo. L’incidente avvenuto nel marzo 2021 con l’incaglio della portacontainer Ever Given, che ha provocato la chiusura della via d’acqua egiziana per una settimana, ha messo in luce i molti problemi che possono derivare al commercio mondiale che, è bene ricordare, per il 90% viaggia via mare».Quanto al valore delle merci trasportate, si può azzardare una stima in base ai beni assicurati, una stima persino difficile da scrivere per il numero di zeri necessari, vale a dire 1 miliardo di miliardi di dollari.

Difficile immaginare fino a che punto la situazione può aggravarsi se la tensione in quell’area dovesse durare ancora settimane. Di sicuro l’Europa ne uscirebbe ancora più debole di quanto già non sia nello scacchiere mondiale.Che la situazione sia ad alto rischio è provato dal fatto che secondo i dati di tracciamento monitorati dall’agenzia Bloomberg, nell’ultima settimana solo 114 navi commerciali (tra cui petroliere, navi portarinfuse e navi-container) hanno proseguito la rotta tradizionale e sono transitate dentro o fuori dal Mar Rosso attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb: la settimana prima erano 131, un mese fa 272. 

«Stiamo assistendo a una escalation che può portare a possibili contagi anche per ciò che riguarda i prezzi dell’energia», ha osservato ieri il commissario europeo Valdis Dombrovskis. Tuttavia, sul fronte del petrolio al momento non si intravedono segni di allarme: ieri il prezzo del Wti (il greggio americano) è calato dello 0,29% a 72 dollari il barile, quello del Brent è rimasto più o meno al livello della vigilia, ovvero 78 dollari.Nondimeno, in serata Shell ha annunciato di aver sospeso le spedizioni che transitano in quell’area, riflettendo la crescente preoccupazione per un ulteriore peggioramento del conflitto. Sicché, a lungo andare è impensabile che il fronte delle materie prime non subisca scossoni. Tra l’altro, per quanto riguarda l’Italia l’allungamento delle rotte verso Oriente mette a rischio anche la voce export per alcuni generi.

Gli Houthi sono un gruppo armato yemenita composto principalmente di combattenti della confessione zaydita, una branca minoritaria dell’Islam sciita, ma sono presenti anche elementi di altri gruppi religiosi. Gli Houthi derivano dalla “Gioventù credente”, un’associazione nata nel nord dello Yemen per dare vigore alla rinascita dello zaydismo, fermare l’emarginazione politico-religiosa e arrivare all’autonomia delle terre del nord. Il gruppo, con posizioni anti Usa e anti Israele, e vicino alle istanze iraniane, negli anni si ritaglia un ruolo anche sullo scacchiere geopolitico.

Le azioni degli Houthi, che negli anni hanno migliorato le proprie capacità militari, sono dirette a imbarcazioni in transito sul Mar Rosso e alle infrastrutture petrolifere saudite. Infatti nel gennaio del 2022 il gruppo rivendica un attacco negli Emirati Arabi Uniti, tra i protagonisti della Coalizione anti-Houthi nello Yemen. Gli Houthi stanno dando un contributo anche alla guerra in atto tra Israele e Palestina: gli yemeniti hanno rivendicato il lancio di missili contro Israele e attacchi contro navi al largo delle coste dello Yemen, nel Mar Rosso, in segno di solidarietà con i palestinesi.

La distanza geografica non corrisponde a una distanza reale tra il nostro paese e la complicata situazione nel Mar Rosso. “Il danno economico è già iniziato per i nostri porti – ha aggiunto il ministro Tajani -, soprattutto quelli del Sud, ma anche quello di Genova”. Ma non è preoccupata solo la politica. L’associazione Assoutenti ha stimato che la crisi nel Mar Rosso si ripercuote nelle tasche degli italiani: un rincaro del 10% sulla benzina corrisponde a una spesa di 213 euro in più in un anno, così come un aumento dello stesso importo sul gas porterebbe a una maggiore spesa annua di 200 euro.

Ma tutti i beni di consumo sono a rischio rincari perché il 12% del commercio mondiale attraversa il Canale di Suez. “Il Mar Rosso è una rotta strategica per l’Italia dove transita il 40% del nostro import-export marittimo per un totale di 154 miliardi di euro– leggiamo su QuiFinanza -. I cambi di rotta operati nelle ultime ore dalle navi in transito nella zona determinano un forte incremento dei costi di trasporto e pesanti ritardi nelle consegne che, unitamente ai rialzi dei carburanti, potrebbero riflettersi in modo diretto sui prezzi al dettaglio delle merci vendute in Italia dando vita ad una spirale inflattiva”. Per una famiglia con due figli, secondo le stime di Assoutenti, l’aumento di un punto percentuale del tasso di inflazione si traduce in un incremento della spesa pari a +411 euro all’anno.

Il 40% dell’import-export italiano passa per il Canale di Suez. “L’allungamento delle rotte marittime tra Oriente e Occidente, costrette ad evitare il Canale di Suez a causa dei ripetuti attacchi terroristici hanno portato ad aumenti vertiginosi del costo dei trasporti marittimi che arrivano fino a raddoppiare ma aumentano di circa due settimane anche i tempi di percorrenza”. Questo è l’allarme lanciato dalla Coldiretti preoccupata per i possibili rincari generalizzati e per la salvaguardia dell’export italiano.

“Le destinazioni interessate sono quelle asiatiche, verso le quali l’Italia ha esportato oltre 217 milioni di chili di frutta, di cui oltre 182 milioni di chili mele, con principali destinazioni l’Arabia Saudita (oltre 66 milioni di chili di mele), l’India (oltre 51 milioni di chili di mele) e gli Emirati Arabi (oltre 15 milioni di chili di mele)”. Ma sono tanti i beni del made in Italy che rischiano di rimetterci da un rallentamento delle esportazioni: nella sola Cina, le esportazioni agroalimentari valgono oltre 570 milioni di euro all’anno (112 milioni di euro solo dal vino).

Fonte varie agenzie, il Giornale, policy

 

 

 

L'Ue valuta l'invio di tre navi. Palazzo Chigi: informati con largo anticipo ma non ci è stato chiesto di partecipare ai raid, lavoriamo per abbassare la tensione. Colpita anche Sanaa. Mosca chiede una riunione urgente dell'Onu e accusa: "Così s' innesca un'escalation distruttiva". Raid su 60 obiettivi, nel mirino le postazioni dei miliziani filo-iraniani in risposta agli attacchi contro le navi che hanno portato a una riduzione del traffico nel Canale di Suez. I ribelli: "Pagheranno un prezzo pesante". Londra: abbiamo dato un segnale forte

'Non abbiamo preso di mira nessun altro paese tranne Israele', ha detto il portavoce Houthi. In azione contro le basi, oltre a Usa e Gb anche 8 Paesi alleati. Per Mosca 'escalation distruttiva'. Hamas: 'Conseguenze'. Fonti Chigi: 'Non chiesta la partecipazione. Richiesta di sottoscrivere la dichiarazione ma Roma non ha firmato'

Il petrolio balza con le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e dopo l'attacco in Yemen contro i ribelli Houthi. Il Wti sale del 4,4% a 75,2 dollari al barile.
Il Brent guadagna il 4,2% a 80,6 dollari al barile. Il greggio si porta ai livelli di fine dicembre 2023.  Il prezzo del gas sale con gli operatori che guardano all'ondata di freddo ed ai livelli degli stoccaggi. Sotto i riflettori anche gli effetti delle tensioni geopolitiche. Ad Amsterdam le quotazioni sono in rialzo del 3,2% a 31,8 euro al megawattora.

All’operazione, fanno sapere i media statunitensi, saranno presto coinvolte altre nazioni tra cui Paesi Bassi, Australia, Canada e Bahrein, che dovrebbero fornire logistica, intelligence e altro supporto. Gli attacchi, ha riferito un dirigente Usa alla Cnn, sono stati condotti in particolare con aerei da combattimento e missili Tomahawk. Oltre una dozzina di obiettivi Houthi sono stati colpiti da missili lanciati da cielo, terra e mare (con il sottomarino Uss Florida) e sono stati scelti per indebolire la capacità degli Houthi di attaccare le navi nel Mar Rosso. Tra gli obiettivi colpiti sistemi radar, depositi e siti di lancio di droni, missili balistici e missili da crociera.

Gli attacchi hanno interessato la capitale Sana’a e varie altre città, Hodeidah, Saada, Dhamar, Taiz, Zabid. Gli Stati Uniti e i loro alleati puntano a “ripristinare la stabilità nel Mar Rosso”. È quanto viene sottolineato in una nota stampa congiunta. “Il nostro obiettivo resta quello di allentare le tensioni e ripristinare la stabilità nel Mar Rosso”, spiega la dichiarazione che coinvolge Stati Uniti, Australia, Bahrein, Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Regno Unito 

Immediata la reazione dei miliziani. Gli Houthi “continueranno a prendere di mira le navi legate a Israele nel Mar Rosso”. A dirlo è un portavoce dei ribelli sciiti. “Affermiamo che non c’è assolutamente alcuna giustificazione per questa aggressione contro lo Yemen, poiché non c’era alcuna minaccia alla navigazione internazionale nel Mar Rosso e nel Mar Arabico, e gli attacchi hanno colpito e continueranno a colpire le navi israeliane o quelle dirette ai porti della Palestina occupata”, scrive Mohammed Abdulsalam su “X”.

“Il nostro Paese è stato sottoposto ad una massiccia aggressione da parte di navi, sottomarini e aerei da guerra”, ha detto il viceministro degli Esteri dei ribelli houti, Hussein Al-Ezzi: “L’America e la Gran Bretagna devono prepararsi a pagare un prezzo pesante e a sopportare tutte le terribili conseguenze di questa palese aggressione”.

Soddisfazione invece per Joe Biden, secondo cui le forze statunitensi e britanniche, appoggiate da Australia, Bahrein, Canada e Paesi Bassi, hanno attaccato “con successo” obiettivi dei ribelli Houthi. Il presidente ribadisce che gli attacchi sono la risposta alle azioni contro le navi commerciali in transito nel mar Rosso. E assicura che non esiterà a prendere nuove decisioni di questo tipo perché gli Stati Uniti e i loro alleati “non tollereranno” attacchi da parte degli Houthi.

Gli Houthi in Yemen, le cui postazioni sono state prese di mira da raid Usa e britannici, sono in Occidente definiti 'ribelli' perché sostenuti dall'Iran.

Ma da dieci anni costituiscono la principale forza militare e istituzionale del martoriato Paese arabo. Dal 2014 controllano la capitale Sanaa con tutti i ministeri e la Banca centrale, oltre a vaste regioni del centro e del nord.

Nonostante l'Arabia Saudita abbia finora tenuto un atteggiamento cauto rispetto alla contrapposizione tra Usa e Houthi, questi ultimi sono da anni in lotta con le forze yemenite filo-saudite e quelle sostenute dagli Emirati Arabi Uniti che si spartiscono, con aspre rivalità, il centro-sud del Paese, incluso lo strategico porto di Aden. Le regioni orientali dello Yemen sono invece da decenni dominio del qaedismo locale, lo stesso nel quale si era formato Osama bin Laden.

Il governo filo-iraniano di Sanaa, guidato dal leader Abdel Malek Houthi, nel corso degli anni ha sviluppato un arsenale militare capace di colpire con missili balistici e droni di fabbricazione iraniana obiettivi distanti anche duemila chilometri, come nel caso degli attacchi avvenuti nel recente passato contro installazioni petrolifere saudite e degli Emirati. Il porto israeliano di Eilat dista circa 1.600 chilometri.

Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, afferma che l’Iran “condanna fermamente” gli attacchi aerei statunitensi e britannici nelle aree dello Yemen controllate dagli Houthi, riferisce Nournews citata dal Times of Israel. “La consideriamo una chiara violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dello Yemen, nonché una violazione delle leggi, dei regolamenti e dei diritti internazionali”, aggiunge Kanaani.

L’Arabia Saudita sta seguendo gli attacchi aerei statunitensi e britannici sul vicino Yemen con “grande preoccupazione”. È quanto fa sapere il ministero degli Esteri di Riad. “Il Regno dell’Arabia Saudita segue con grande preoccupazione le operazioni militari che si svolgono nella regione del Mar Rosso e gli attacchi aerei su una serie di siti nella Repubblica dello Yemen”, si legge in una nota che invita “all’autocontrollo” e ad “evitare un’escalation”.

 

Fonti Varie Agenzie/ riformista/msn

 

 

 

 

Pubblicità laterale

  1. Più visti
  2. Rilevanti
  3. Commenti

Per favorire una maggiore navigabilità del sito si fa uso di cookie, anche di terze parti. Scrollando, cliccando e navigando il sito si accettano tali cookie. LEGGI