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Tante volte ci si interroga sul perchè studiare la Storia e sulla sua straordinaria importanza. Le vicende politiche di questi giorni confermano se ce n'era bisogno che veramente la Storia è maestra di vita. E pertanto ha ragione il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, quando afferma: “chi sbaglia Storia, sbaglia politica”. In questi giorni mentre si consuma il «curioso connubio tra pidioti e pentastellati  cementato sia dal morboso affetto per la poltrona, sia dall’odio implacabile verso un politico che ha fatto l’imperdonabile errore di dimostrarsi un uomo: Matteo Salvini», sto leggendo «Gli Italiani sotto la Chiesa», sottotitolo:“Da S. Pietro a Mussolini”, di Giordano Bruno Guerri, pubblicato da Mondadori, nella collana Le Scie (1992). Descrivendo Niccolò Machiavelli e il suo Principe, Guerri, offre diversi spunti molto utile per comprendere meglio le vicende politiche odierne. Mi riferisco al grosso scandalo del brutale e nello stesso tempo volgare trasformismo politico del PD e del movimento 5 Stelle, che certamente è un fenomeno tutto da studiare a livello psicologico e sociologico. E pertanto ha ragione il blog “Huffpost”, diretto da Lucia Annunziata, «Il Conte bis è nato, come noto e quasi scontato, come la più grande e plateale operazione trasformistica della politica italiana dopo il secondo dopoguerra». (Giorgio Merlo, L'elogio del trasformismo e la coerenza politica, 13.9.19, in huffingtonpost.it)

Nel secondo capitolo Giordano Bruno Guerri nella sua brillante descrizione storica, sottolinea una particolarità degli italiani: l'atavica divisione del nostro popolo. Già dal primo capitolo, Guerri, divide il popolo italiano, in bianchi e neri. Quando giunge a commentare Machiavelli e la sua opera più importante, Il Principe, non posso esimermi dal paragonarla alla situazione politica che stiamo vivendo.

Le riflessioni di Guerri sono attuali. Nella storia della recente politica si possono registrare diverse casi di trasformismo, tra i tanti è passato alla storia quello di Domenico Scilipoti. Ma l'attuale trasformismo che ha portato all'abbraccio PD e 5Stelle, resterà negli annali della storia parlamentare italiana.

Machiavelli fornisce un manuale di regole necessarie per governare i popoli. Nelle regole del Principe, lo storico senese, ne elenca qualcuna: «non può né deve rispettare la parola data, se tale rispetto lo danneggia». Il moderno principe per raggiungere gli scopi ha tutto il diritto di ingannare, avvelenare, congiurare, sterminare popoli. Pertanto per Machiavelli, la più importante virtù di un principe è l'astuzia, accompagnata dall'ambizione, dalla mancanza di scrupoli, dalla determinazione.

Insomma Machiavelli separa la politica dalla morale, codifica il realismo politico e afferma il principio che il responsabile di uno Stato non può tenere conto delle regole dei gentiluomini. Dunque a distanza di cinquecento anni le regole fondamentali del Principe sono attuali, vengono cinicamente rispettate dai molti politici presenti nel nostro parlamento. A questo punto potrei avanzare una provocazione: non sarebbe opportuno affidarsi ad un uomo, ad uno statista del calibro di Antonio Oliveira Salazar? Lo so per i pasdaran della democrazia passo per reazionario, fuori della Storia e probabilmente dal consorzio civile, ammesso che i sinistri, quelli del “siamo più umani”, conoscano Salazar.

Ritornando a Machiavelli, Giordano Bruno Guerri, scrive che tutti hanno imitato il Principe da Carlo V° al cardinale Richelieu, da Lenin a Mussolini. Anche Gramsci indicava la figura del principe in quella del moderno partito di massa.

Il testo di Machiavelli ha contribuito ad identificare gli italiani come “machiavellici” secondo il deteriore del termine: intriganti, astuti, inaffidabili, traditori, senza senso dell'onore, capaci di tutto. Capaci di cambiare bandiera facilmente.

Ritornando alla politica italiana, si registrano diversi allarmi per quanto riguarda l'aspetto della coerenza, e della parola data. Ormai la stragrande maggioranza degli italiani conosce le motivazioni perché è nata questa operazione di trasformismo politico, tra Pd e 5Stelle, prima tra tutte «il terrore del voto anticipato, la perdita dello stipendio per i parlamentari e la potenziale e quasi certa riduzione secca di seggi dei due partiti contraenti la nuova maggioranza di governo». (Ibidem) Però questa deriva trasformistica crea un grosso problema: cambia la fisionomia fondamentale della politica sia a livello nazionale che locale, cancella o sospende la categoria della “coerenza”.

Infatti, «con l’irruzione del trasformismo sono le stesse regole della politica a mutare. E a mutare profondamente». Non è un caso che i due partiti che sostengono il Conte bis sono stati costretti a cancellare «tutto ciò che hanno detto, scritto, teorizzato, sostenuto e urlato nelle piazze negli ultimi 10 anni».

Pertanto occorre fare un'ulteriore riflessione: «Che senso ha, oggi, - scrive Merlo - per fare qualche esempio concreto, sostenere in un partito che una scelta politica è credibile, netta e di lunga durata perché è stata assunta dagli organismi preposti di quel partito? Abbiamo tutti in mente le solenni dichiarazioni dei candidati alla segreteria nazionale del Pd, delle loro mozioni congressuali, delle loro deliberazioni votate all’unanimità dalle segreterie e dalle direzioni sino a poche settimane fa che escludevano in modo categorico per motivi politici, culturali, etici, programmatici e storici qualsiasi alleanza politica con i 5 Stelle».(Ibidem)

Stessa cosa si può scrivere dei 5 Stelle. Sarebbe superfluo elencare tutti gli insulti contro il Pd da parte dei grillini, la rete è piena.

Allora c'è da chiedersi seriamente se da questo momento qualsiasi dichiarazione, deliberazione congressuale, almeno per quanto riguarda certi partiti, saranno solo parole al vento destinate a cadere nell'arco di poche ore. Se è così non si può più credere a niente.

Questa degenerazione politica a cui stiamo assistendo oltre a ingrossare il partito dell'astensionismo, mina la credibilità della democrazia e delle istituzioni. Infatti,

«Non ci sarebbe da stupirsi se, quando mai si riuscisse a tornare a votare, la percentuale dei votanti non superasse il 30% degli aventi diritto al voto. Questo infatti potrebbe essere l’esito di una crisi politica maldestramente gestita da chi sperava di ottenere il voto e invece ha favorito la nascita del peggior governo possibile».(Marco Invernizzi, Il governo nascente di male in peggio, 29.8.19, alleanzacattolica.org).

L'inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Emilia che prende il nome di "Angeli e Demoni" vede al centro della indagini la rete di servizi sociali della Val D'Enza e del comune di Bibbiano. Secondo quanto scritto nell'ordinanza del tribunale, alcuni degli operatori dei servizi sociali avrebbero falsificato le relazioni da consegnare al Tribunale dei Minori in modo da riuscire ad allontanare i bambini dalle proprie famiglie per poi darli in affido ad amici e conoscenti.

“Verrà creata una banca dati e nascerà una squadra speciale per la protezione dei minori. Si confronterà con i ministeri, e la commissione parlamentare che verrà istituita, per avere un monitoraggio del percorso dei piccoli affidati. Tutti gli operatori dovranno sentire il fiato sul collo da parte della magistratura che farà i controlli”. Così annunciò il pentastellato ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede poco dopo la pubblicazione dell’inchiesta "Angeli e Demoni". Fu forse il primo a pronunciarsi sul caso, dando il via ad uno scontro politico che ancora non ha trovato soluzione.

il quotidiano il giornale ricostruisce la questione politica del Bibbiano : l’inclusione nel registro degli indagati di tre sindaci targati Pd ha da subito scatenato l’ira dei partiti. Dalla Lega, al Movimento Cinque Stelle, fino a Fratelli d’Italia (uno dei partiti che più ha condotto la lotta per tenere accesi i riflettori sulla vicenda), tutti si sono scagliati contro il Partito democratico, accusando i vertici per non aver preso subito provvedimenti nei confronti dei propri sindaci e di aver messo davanti il garantismo, tutelando gli indagati, ancor prima di spendere due parole nei confronti delle presunte vittime. Un silenzio, quello dei dem, che ha scatenato l’ira del leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, che in un video messaggio pubblicato sui suoi canali social arrivò a definire gli allora avversari di governo "il partito di Bibbiano". Un’appellativo incettabile per i vertici del Pd che, a suo tempo, minacciarono querele a tutti coloro che, come Di Maio, si fossero permessi di associare il nome del partito all’orrenda vicenda (di cui però i dem hanno continuato a parlare poco o nulla).

Nel frattempo, da luglio, l’ex governo in carica composto da Lega e Cinque Stelle decise di far partire una commissione d’inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori, per cercare di fare chiarezza sulle vicenda e puntare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidamenti in tutta Italia. Decisi e compatti, i due partiti avevano deciso di indagare sullo scandalo mentre, il Partito Democratico, sviava l’argomento, tanto da far infuriare l’opinione pubblica. Nei mesi successivi alla pubblicazione della vicenda, per tutte le strade d’Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle prime due parole che ricordano il simbolo dei dem. Ma, se prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sopresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. Un cambio di rotta che riaccende le polemiche.

I 58 minuti di discorso sono stati carichi di argomenti, sentimenti e anche emozioni. Dall'inizio alla fine i suoi sostenitori non hanno mancato di applaudirlo, di intonare cori e canti per lui. "Oggi qui noi abbiamo vinto", ha ripetuto più volte l'ex titolare del Viminale. E a giudicare da quante persone sono accorse a Pontida sembra proprio così.

Tra i vari temi toccati nel suo lungo discorso, Salvini ha anche parlato dello scandalo di Bibbiano. Una vergogna fatta e finita che ora il Pd cerca di insabbiare in tutti i modi. Ma quegli affidi illeciti, quegli inganni a decine e decine di famiglie non si possono dimenticare. Non si può dimenticare la sofferenza di quei bambini strappati ai loro genitori.  

Salvini non poteva stare zitto alla solita retorica di sinistra, di dem e radical chic. "Le critiche per la bimba di Bibbiano portata sul palco di Pontida - si chiede il leader del Carroccio ad Aria Pulita su 7Gold -. Ma chissenefrega. Se qualcuno ruba i bambini, io voglio gridare da papà che è uno scandalo portarli via dalle famiglie. Non era necessario avere una bambina, ma cinquanta bimbi sul palco. Non solo dall'Emilia, arrivano segnalazioni da tutta Italia. I delinquenti sono quelli che rubano i bambini".  

questo gesto, questa gioia di una famiglia che si ritrova ha scatenato la sinistra. La decisione di Salvini di far salire sul palco Greta ha sollevato una serie di polemiche. C'è chi parla di "strumentalizzazione dei bambini", chi descrive il leader della Lega per "uno che gioca sulla carne dei più deboli", chi urla "non devi fare salire i bambini sul palco di Pontida" e chi più ne ha più ne metta. Nello specifico: Carlo Calenda spara un "che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco?" e chef Rubio è monotono con un "sfruttare una bambina per la tua cazzo di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa".  

 Così, alla fine del comizio, il leader della Lega ha chiamato sul palco alcuni bimbi. Fra questi c'è anche Greta. "Greta è questa spelendida ragazza con i capelli rossi dopo un anno è stata restituita alla mamma - ha spiegato Salvini emozionato -. Mai più bambini rubati alle loro famiglie, mai più bambini rubati alle mamma e papà, mai più bimbi come merce". Poi ha dato un cinque a madre e figlia che si sono ritrovate e tutti e tre insieme hanno gioito.  

Quello che è certo e concreto è che l'ex titolare del Viminale non cerca di nascondere un caso che deve far solo vergognare (tutti), ma ne parla. Il Pd sta zitto e attacca (Salvini) per non andare a beccare i veri responsabili di questa storia scandalosa.

Il partito di Bibbiano fa finta di non vedere il dato di fatto e addirittura arriva a dire che "gran parte delle cose sono una montatura". Andatelo a spiegare a quei genitori che si sono visti portare via i propri figli. Vediamo se trovano anche loro una montatura tutto questo scempio.

Intanto un altra questione  molto importante e come sottolinea il Giornale Il locale hotspot di contrada Imbriacola, che ha una capacità massima di 95 persone, a seguito degli approdi autonomi delle ultime 48 ore e dell’arrivo degli 82 migranti a bordo della Ocean Viking, raggiunge quota 224 ospiti. Una situazione che manda su tutte le furie in primis il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, il quale in primo luogo critica la decisione del governo di scegliere lo scalo dell’isola come porto per la Ocean Viking: “Accoglienti sì, cretini no”, dichiara sabato il primo cittadino.

In effetti gli 82 migranti scesi dalla nave dell’Ong francese Sos Mediterraée, sotto il profilo prettamente logistico vanno a gravare e non poco sul sistema di accoglienza dell’hotspot di Lampedusa, con possibili gravi ripercussioni anche per l’ordine pubblico.

Dal Viminale adesso arriva la conferma di un primo trasferimento di almeno 70 migranti, i quali nella mattinata di questo lunedì vengono imbarcati sul traghetto di linea che collega Lampedusa con Porto Empedocle.

Da qui poi, i 70 migranti saranno smistati nei vari centri d’accoglienza della Sicilia. Ma l’emergenza a Lampedusa non è comunque terminata. Da un lato infatti, permangono più di 150 migranti, con la capacità del locale hotspot ancora ben sforata. Dall’altro lato, gli sbarchi sull’isola più grande delle Pelagie proseguono.

Diversi gli approdi autonomi a partire dalla giornata di sabato: anche un singolo arrivo di un barchino con dieci persone a bordo, in questo momento può costituire un grande e grave problema per la gestione del centro d’accoglienza di contrada Imbriacola.

Si torna a proporre i ponti aerei, in modo che il trasferimento dei migranti venga agevolato e velocizzato. Anche perché la nave di linea per Porto Empedocle può accogliere un numero giornaliero limitato di migranti ed il rischio è che, partito un gruppo verso la Sicilia, a Lampedusa ne arrivi subito un altro tramite nuovi sbarchi.

Una situazione quindi vicina al collasso, a cui si sta cercando di porre un rimedio anche se, per via dell’aumento del ritmo degli approdi a Lampedusa, non è semplice far rientrare il tutto in tempi brevi alla normalità.

Intanto emergono alcune novità anche dalla Ocean Viking, ormeggiata presso il porto dell’isola dalla giornata di sabato. La Guardia Costiera domenica pomeriggio ha effettuato un sopralluogo per verificare l’esistenza di tutte le condizioni idonee per la navigazione, controlli di routine effettuati nelle scorse ore anche sulla Open Arms, ormeggiata a Porto Empedocle in quanto raggiunta da fermo amministrativo.

Questa mattina membri della Sos Mediterranée fanno sapere di essere pronti a riprendere la navigazione: “Dopo lo sbarco delle 82 persone a bordo avvenuto sabato notte e nove ore di controlli da parte della Guardia Costiera italiana, la nave sta tornando nel Mediterraneo centrale per riprendere le operazioni di ricerca e soccorso”. Lo si legge in un post pubblicato sul profilo Twitter di Medici Senza Frontiere, l’associazione umanitaria che collabora con Sos Mediterranée.

Intanto in Europa per alcuni giorni in Italia molti nei media e nelle istituzioni illusi che il combinato disposto della nomina di Paolo Gentiloni a Commissario europeo agli Affari economici e dell’ascesa al Mef del dem Roberto Gualtieri contribuisse a spostare questo perimetro verso una posizione simile a quella dell’Italia, che l’austerità l’ha patita a partire dall’era di Mario Monti e necessità una discontinuità a tutto campo. 

Ma la strada resta in salita: Gentiloni è stato commissariato, nella nuova squadra di Ursula von der Leyen, dalla nomina a suo supervisore di Valdis Dombrovskis, superfalco lettone dell’austerità. Sarà l’ex premier lettone, scrive la Stampa, che “sovrintenderà i commissari con i portafogli legati all’Economia e alla Finanza”, marcando letteralmente a uomo l’ex premier italiano e coordinando la squadra economica, seguendo direttamente la riforma del Patto di Stabilità.

Limiti sostanziali che spingono a vedere nella nomina di Gentiloni più un “premio” all’afflato europeista del governo giallorosso e alla marginalizzazione di Matteo Salvini che una concessione di reali poteri sostanziali. E lo si è visto in occasione delle prime riunioni diEurogruppo ed Ecofin a cui Gualtieri ha partecipato, nel corso delle quali le sue richieste sono andate in sostanziale continuità con quelle del predecessore Giovanni Tria: più flessibilità contabile, meno focalizzazione su concetti discutibili come l’output gap, rifiuto di qualsiasi manovra restrittiva. 

Segno che indipendentemente dall’approccio del governo italiano a Bruxelles, il muro contro muro è di difficile superamento. Nonostante le dichiarazioni d’intento coraggiose e battagliere, appare evidente che anche la nuova Commissione terrà il “perimetro” dell’austerità molto vicino a quanto desiderato dai Paesi nordici paladini del rigore, concedendo forse qualche avanzata solo per rispondere alle difficoltà economiche della Germania.

Sono rari i libri che riescono a coniugare gli avvenimenti, i fatti politici, o addirittura la cronaca, alla micro e alla macro Storia. Ci riesce Paolo Mieli, giornalista, ma soprattutto storico, nel suo libro, «Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto», Rizzoli (2017).

Mieli nel testo ripercorre la vita del nostro paese attraverso una serie di storie, a partire dal Risorgimento, dai primi anni del nuovo Regno d'Italia, dalla Grande Guerra, il fascismo, il dopoguerra, con i tanti e vari governi balneari democristiani, il centrosinistra, l'opposizione anomala del partito comunista italiano. Fino a trattare vicende oscure di cronaca giudiziaria come il caso Montesi.

Naturalmente io mi soffermerò su alcuni aspetti storici che ritengo meritano maggiore attenzione. Paolo Mieli nella sua narrazione storica si avvale di una serie di studiosi e citando Giovanni Sabbatucci, afferma una tesi politica a cui pare legato, in Italia, «le forze politiche, anziché andare al governo dopo aver vinto le elezioni, vincono le elezioni dopo essere andate al governo (sfruttando con mezzi leciti o illeciti a seconda dei casi, le opportunità offerte dal potere) diventerà uno dei caratteri perenni e una delle anomalie maggiori del sistema politico italiano». E' stato sempre così, tranne nel ventennio mussoliniano.

Nella Ia parte del testo, dall'unità al Fascismo, Mieli racconta come si è formato il nuovo Regno d'Italia e l'Unità del Paese. Alle prime elezioni del 1861, gli aventi diritto al voto furono 420.000, andò a votare la metà, l'1% degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di 200 voti per mandare a Torino un deputato; in uno solo 89. Praticamente la nostra democrazia viene costruita da una piccola élite. E peraltro nasce con un vizio d'origine: l'esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX. In questo modo il nascente Stato borghese liberale, nasce debole.

Per cinquant'anni, nella fase iniziale della storia d'Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisitema». In pratica sono i «neri, come li definivano i liberali». A questi si aggiungevano i «rossi, cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l'ossatura del Partito socialista[...]».

Pertanto conclude Mieli, l'”impossibilità dell'alternanza” nella politica italiana non è nata nella metà del Novecento, emergeva già nel secolo prima, all'inizio dell'esperienza unitaria.

A proposito dello studio della Storia, Mieli lamenta un oblio di questo studio. A partire dalla scuola italiana. Sostanzialmente per lo storico, si «andò affermandosi un modo di insegnare la storia assai poco problematico che puntava “piuttosto sull'oblio che sulla presa di coscienza”, dove imperavano le “ricostruzioni di comodo del passato”».

In pratica molto della nostra Storia è stato rimosso, ecco perché secondo Mieli, hanno avuto successo di pubblico i testi come il bestseller Terroni, di Pino Aprile e il fortunato Il sangue del sud di Giordano Bruno Guerri, che hanno tolto il velo agli aspetti più controversi della conquista del sud. Mieli si ferma a questi testi, che hanno un taglio giornalistico,  ma ce ne sono tanti altri che a partire dagli anni '90, hanno fatto giustizia sui veri fatti accaduti nel nostro meridione. Tanti autori di matrice cattolica controrivoluzionaria hanno raccontato la vera storia del Risorgimento, a partire da Carlo Alianello per arrivare ad Angela Pellicciari, che per la verità viene citata.

Paolo Mieli dà ampio spazio allo storico Massimo Viglione con 1861:Le Due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile. Il testo è un utile manuale, che contesta il Risorgimento e l'Italia Unita. Ma Mieli fa riferimento anche al volumetto del cardinale Giacomo Biffi, L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni 1861-2011.

Viglione, è convinto che l'Italia nonostante sia un insieme di popoli, ha un elemento che li unisce, è quello religioso e la memoria più o meno sentita dell'eredità imperiale di Roma. Scrive Aldo Schiavone in (Italiani senza Italia), la Chiesa, «si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi alle diverse epoche, le torri e i campanili d'Italia». Pertanto, l'istituzione religiosa ebbe dunque, «la ventura di rimanere l'unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana […]. Finì con l'assumere perciò il ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale – o almeno di velo – contro l'invadenza straniera».

Sicuramente secondo Viglione, la religione ela Chiesa, «erano di fatto non solo l'anima dell'italianità, ma anche l'unico concreto elemento unificatore delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico - per Viglione – ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale e statuale di tali popolazioni». Invece sappiamo come è andata, il Risorgimento, cioè la “Rivoluzione italiana” è stato un movimento sociale contro la Religione Cattolica e contro la Chiesa.

Non solo ma l'unificazione avvenne senza rispettare i diritti internazionali dei vari legittimi Stati preunitari a partire del Regno delle Due Sicilie. Tutti Stati conquistati con l'inganno e con la violenza. Pertanto secondo Galli della Loggia, l'Italia è l'unico Paese d'Europa, la cui unità nazionale e la liberazione dal dominio straniero sono avvenuti in aperto feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale.

Mieli accenna alla misteriosa morte di Ippolito Nievo, nel naufragio misterioso del piroscafo Ercoli. Nievo che aveva partecipato all'impresa dei Mille, auspicava un'alleanza con i preti per cambiare la società italiana.

Mieli fa riferimento anche alle insorgenze dei popoli italiani contro l'invasione napoleonica dell'Italia. Un tema trascurato per decenni, anzi come più volte ha detto Giovanni Cantoni, le insorgenze sono una pagina di Storia, letteralmente “strappata”. E ora ripresa, soltanto dopo gli studi che sono stati fatti all'interno di Alleanza Cattolica, con l'Istituto per la Storia delle Insorgenze (ISIN).

Gli insorgenti, la vera e unica resistenza fatta dagli italiani contro un esercito straniero, lasciarono sul terreno oltre centomila morti. Dall'altra parte c'erano gli agguerriti eserciti francesi, sostenuti da qualche migliaio di giacobini italiani. Tempo fa visitando la cittadina di Susa, sono entrato anche nel Palazzo Comunale, tra le tante targhe, alcune erano inneggianti agli eserciti francesi, visti come liberatori, manifestavo il mio sbigottimento e disappunto con dei dipendenti di quel Comune).

Tuttavia lo storico Mieli riconosce tutti questi fatti, le insorgenze e poi come venne fatta l'unità del Paese, facendo i nomi dei protagonisti di quegli avvenimenti. Anche se lui da laico, non riconosce che probabilmente dietro al disegno unificatore dei Savoia e dei rivoluzionari italiani come Garibaldi e Mazzini, c'era la Massoneria, ma c'era anche un disegno «di protestantizzazione dell'Italia». Tuttavia nel testo Mieli fa riferimento alla «guerra legislativa» contro la Chiesa e qui non può non citare la Pellicciari. Inoltre nelle citazioni dei diversi storici, Mieli fa il nome dello zuavo irlandese Patrick Keyes O'Clery, che ha ben raccontato, essendo presente, il risorgimento nel suo testo La Rivoluzione Italiana, pubblicato in Italia soltanto dalla casa editrice Ares. 

Nel contesto del Risorgimento, una scheda è dedicata ai numerosi conflitti tra il liberale Cavour e il repubblicano Mazzini e tanti altri intrighi istituzionali del nuovo Stato.

Passo alla scheda sul “paradosso della Grande Guerra”. La 1 guerra mondiale costò all'Europa 15 milioni di morti, su un totale di 120 milioni di maschi adulti mobilitati. I feriti furono più di 34 milioni (tra cui 8 milioni di mutilati e invalidi) e 11 milioni di prigionieri, decine di migliaia dei quali morti nei campi di prigionia. Tra i prigionieri 600.000 circa furono italiani, la metà dei quali caddero nelle mani del nemico dopo la disfatta di Caporetto. Per Mieli, una cifra altissima rispetto a quella degli altri Paesi. In guerra. Tra l'altro questi prigionieri per il governo italiano furono considerati come disertori.

Dopo queste gigantesche cifre, ha un grande significato la frase del papa di allora Benedetto XV che definì la 1 guerra mondiale, una inutile strage.

Anche qui Mieli prende in esame i movimenti politici degli interventitsti e quelli che non volevano la guerra. Secondo il giornalista Ugo Ojetti la guerra fu «come una liberazione da una lunga febbre che non voleva finire». Per Mieli questo conflitto venne presentato dal governo «come l'ultima campagna del Risorgimento che avrebbe consentito finalmente a tutti gli italiani di far parte di un un unico Stato nazionale». Anche se il governo che portò alla guerra avevo poco a che fare con gli ideali romantici di Mazzini e compagni. La guerra nonostante il tradimento del patto con gli austrotedeschi, per alcuni doveva dimostrare al mondo l'unità del paese, la grande potenza.

E invece, «l'Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione».

In parte erano divisioni ideologiche che durarono a lungo fino a quando la Regia marina nel giorno di Natale del 1920, bombardò Fiume occupata dai legionari dannunziani.

Una guerra che colse gli italiani impreparati, una mobilitazione degli eserciti con forti ritardi. Un esercito italiano «dipinto come la parte migliore del paese, una comunità salda e disciplinata, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti». Tutte frottole e propaganda di regime. Peccato come fanno notare diversi storici, che questo esercito non aveva vinto mai nessuna battaglia sul suolo europeo e in Africa ad Adua aveva subito la peggiore sconfitta di un esercito bianco in Africa.

Del resto Cadorna, il capo di Stato maggiore e comandante sul campo era convinto «che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari». Sappiamo come Cadorna cercò di risolvere il problema, con fucilazione immediata per chi tentenna nei combattimenti. Anche se poi questi stessi soldati seppero dare il meglio di se stessi nelle varie battaglie che affrontarono sul terreno brullo del Carso o sulle cime dei Dolomiti. .

Mieli tra le tante osservazioni fa notare la scarsa partecipazione alla guerra degli studenti universitari. Anche Mieli riporta i casi di ufficiali che ostinatamente guidavano i propri soldati a dei veri e propri massacri come quello del colonnello Mario Riveri al forte Basson, dove morirono 1100 uomini su 2800.

Altro macabro particolare della grande guerra è l'impazzimento di molti ragazzi rimasti segnati per tutta la vita. Di questo se ne è occupata una studiosa abruzzese, Annacarla Valeriano, in uno straordinario libro, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931). Il libro nasce dalle annotazioni dello psichiatra  veneto Marco Levi Bianchini, futuro direttore del manicomio abruzzese. Secondo la Valeriano emergeva «la pervasività della violenza a cui i fanti erano esposti e che avrebbe costituito una delle caratteristiche più peculiari del conflitto: una 'brutalizzazione' dello scontro che non colpì soltanto coloro che combatterono in prima linea ma si estese anche nelle popolazioni civili, provocando ferite nel corpo e nell'anima […] Per la Valeriano - le conseguenze psichiche della violenza si manifestarono sotto forme diverse:i nuovi stimoli derivanti dalla 'guerra di luci e di scoppi terribili' furono infatti smaltiti dalla psiche dei soldati attraverso una serie di reazioni che continuarono a dispiegare per lungo tempo i loro effetti».

Altri studiosi provarono a definire queste nevrosi dei militari della grande guerra. L'azione logoratrice e depressiva della vita nelle trincee avevano provocato un ottundimento del senso della vita e del pericolo in coloro che erano stati nelle zone di combattimento.

Passando alle schede sul fascismo Mieli descrive il Tribunale fascista, l'Ovra, che amministrò la giustizia fino al 25 luglio 1943. «Non si può dire che il tribunale di Mussolini - osserva Mimmo Franzinelli in Il Tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943) – sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3112 imputati contro 7581 prosciolti; pronunciò settantasei condanne a morte delle quali ne saranno eseguite cinquantotto, in gran parte contro i “terroristi slavi”, come già ben documentato da Marina Cattaruzza in L'Italia e il confine orientale (1866-2006) e da Maria Verginella in Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena. Peraltro tutti i giudici che avevano fatto parte dell'Ovra furono amnistiati in tempo di record e qualcuno ebbe un ruolo nella nuova repubblica.

Interessante la scheda, «strani protagonisti della Rsi». Qui Mieli oltre a fare l'elenco degli storici che hanno descritto gli anni della repubblica di Salò, racconta alcuni episodi che tra l'altro non conoscevo. Intanto scrive che certa storiografia che ha negato dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata», e cioè i repubblichini, dimostra grandi limiti. Non si può ridurre «l'ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della 'barbarie consumata da un manipolo di sanguinari'».

Mentre cita positivamente chi ha studiato il fascismo a cominciare da Renzo De Felice, fino ad arrivare a Giampaolo Pansa e quindi per ultimo al versante reducistico Giorgio Pisanò.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmeri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime fascista».

A questo punto Mieli elenca i vari futuri personaggi dello spettacolo che hanno aderito alla Rsi, che hanno avuto un ruolo attivo, anche se alcuni, successivamente hanno preso le distanze da quella scelta. Si passa da Giorgio Albertazzi a Raimondo Vianello, forse l'unico che ha raccontato la sua scelta con realismo.

Mieli fa affidamento a L'Italia di Salò: 1943-1945, che racconta decine di pagine interessanti al primo fascismo clandestino, dopo che l'Italia fu liberata dagli americani, proprio al Sud. C'è una rete clandestina dietro le linee nemiche, movimenti spontanei, formati prevalentemente da giovani. Hanno inizio nel luglio del 1943 in Sicilia. La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo», «Movimento per l'Italianità della Sicilia», fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante. In queste formazioni clandestine si distingue anche una giovane donna, Maria D'Alì, definita la «Giovanna D'Arco della Sicilia». A Messina c'è Salvatore Claudio Ruta, leader di un gruppo di giovani fascisti. Ci sono altri nomi e soprattutto episodi di resistenza, di manifestazioni contro il nuovo governo alleato.

Mieli ricorda un movimento nato in Sicilia di protesta contro la leva militare a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Il loro slogan era «Non si parte», per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro i nazi-fascisti. Una strana alleanza, simile a quella del 1866, quando ci fu la rivolta del «Settemezzo» A Palermo e in tutta la Sicilia contro il governo del nuovo Regno d'Italia, dei Piemontesi. Anche allora borbonici, garibaldini, anarchici, cattolici scesero in strada per protestare.

Mieli racconta delle resistenze avvenute anche in Sardegna, in Calabria e a Napoli dove era attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, che ha combattuto su più fronti contro il comunismo.

Nella mia presentazione io mi fermo qui, potrei continuare, interessante la scheda delle “Tre vittorie della Destra”, nel Novecento: la marcia su Roma del 1922; il successo elettorale della DC, del 18 aprile 1948; il successo elettorale del 27 marzo 1994 di Silvio Berlusconi. Sarà un po' forzato l'accostamento dello storico giornalista, ma ci sono tanti altri avvenimenti che Mieli propone nel libro, a cominciare dalla Repubblica bloccata del secondo dopoguerra.

Anche qui sono tanti i nomi di politici, protagonisti della storia della politica italiana, la fanno da padroni i democristiani e i comunisti. Il testo di Mieli si può leggere scegliendo tra le varie schede che propone. Sarebbe interessante fare riferimento ad altri episodi che mi hanno colpito maggiormente. Un ultimo accenno voglio farlo: l'episodio del vescovo di Reggio Emilia, monsignor Beniamino Socche, del 7 luglio 1960, collegato ai disordini contro il governo Tambroni. E poi quelli riguardanti l'opposizione anomala del Pci, con tutti i travagli politici interni. Anche Mieli racconta i cosiddetti “fatti di Ungheria” del 1956, come furono vissuti dai comunisti italiani.

 

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