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Come rendere “rediviva” la missione

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Una torcia illumina i piedi di un Cristo crocifisso affrescato su di una parete. Il cielo plumbeo, quello tipico del freddo. Quel freddo che corre sulla schiena mentre l’immagine si allarga e una campana suona imperterrita. Intatta, con metà della facciata di quel che resta di una chiesa cattolica. La neve cade. Il protagonista, il “redivivo” segnato negli occhi dal dolore, dalla paura e dal freddo, cade in ginocchio. Ma è solo nel ricordo del figlio che gli è stato ucciso e che immagina di abbracciare. E intanto la campana suona. In un attimo la scena cambia.  Alejandro González Iñárritu apre uno spiraglio nel suo film The Revenant – Redivivo.

Quel che basta per consentirci di far entrare un pezzo di storia un po’ martoriato. E che in qualche modo è ritornato attuale dopo le dichiarazione di Papa Francesco sugli indios.

The Renevant racconta un mondo fatto di avida competizione, e i suoi protagonisti corrono sugli stessi sentieri battuti da eroici missionari.

Siamo nei primi decenni dell’Ottocento, un manipolo di gesuiti attraversa l’alto corso del Missouri e le Montagne Rocciose in un’impresa che si estese sull’arco di tre secoli.

Perché i pionieri di quei missionari penetrarono in quell’angolo di mondo per la prima volta nel Seicento, al fine d’istruire i pellerossa, distoglierli da quei costumi disumani che li caratterizzavano, e battezzarli.

Celebre è la figura del gesuita francese, Padre Isaac Jogues (1607-1646), incamminatosi verso il Nord America per evangelizzare le popolazioni indigene. Mentre si trovava su una canoa, cadde in un’imboscata tesa sul lago Saint Pierre dagli Irochesi (popolazione di nativi americani originariamente stanziata tra gli attuali Stati Uniti e il Canada), acerrimi nemici degli Uroni, che erano in sua compagnia. Li torturarono, strappando loro prima le unghie e poi le dita; nudi e incatenati, nella notte, li copersero di carboni ardenti.

Oppure, come non citare Padre Jean de Brébeuf (1593-1649), anch’egli catturato dagli Irochesi e sottoposto ad un lento supplizio. Gli furono spezzate una ad una le articolazioni, tagliati di seguito naso, lingua, orecchie e poi cavati gli occhi. Nonostante ciò non riuscivano ad impedirgli di sussurrare “Gesù, abbi pietà di loro”. Allora gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue. Un gesto che voleva significare ammirazione per un simile coraggio e una maniera per impossessarsene. E in qualche modo è ciò che accadde. Fu proprio un gruppo di Irochesi a tramandare il ricordo di Padre Brébeuf e compagni, al punto che, centocinquant’anni dopo, quegli indiani, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis, compirono una serie di spericolate spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei “veste nera” (come chiamavano i sacerdoti) andasse a vivere con loro.

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Accadde con il gesuita belga Pierre Jean De Smedt (1801-1873), ricordato per il “sorriso paterno e la tempra d’acciaio”, capace di convertire con l’esempio, la sua fermezza, e pietà. E la tribù vinta si inchinò alla potenza del Dio dei cattolici.

Di uomini simili, e del loro coraggio missionario si animò la Chiesa Cattolica fino a oltre metà del Novecento. Poi un lento ripiegarsi su se stessa. La Chiesa di quegli anni fece un bene che è ancora inestimabile, non le mancava l’entusiasmo, né aveva bisogno d’essere esortata ad uscire dalle “secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa”.

La storia rende onore e omaggio a quei missionari “in uscita” nei frutti evidenti anche più a sud, nel Messico. La terra che solo grazie ai missionari ha potuto compiere il passaggio dal popolo dei Maya, la cui primitiva dimensione sanguinaria trova la sua migliore esemplificazione in Apocalypto di Mel Gibson, alla civiltà cattolica.

Oggi una Chiesa per dirsi “rediviva” dovrebbe, forse, solo accogliere l’esortazione di Padre Gheddo di quasi quattro anni fa: “[…] Mezzo secolo fa si facevano le veglie chiedendo a Dio più vocazioni per la missione. […] Oggi prevale la mobilitazione su temi quali la vendita delle armi, la raccolta di firme contro il debito estero dei paesi africani, l’acqua bene pubblico, la deforestazione etc. Quando temi come questi acquistano il maggior peso nell’animazione missionaria, è inevitabile che il missionario si riduca a un operatore sociale e politico. Chiedo: è mai pensabile che un giovane o una ragazza si sentano attirati a diventare missionari, se vengono educati a fare denunce e proteste, a raccogliere firme contro le armi o il debito estero?”. O il surriscaldamento globale?

jaguarpaw

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