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Evoluzioni demografiche, tra falsi miti e verità

Copertina del saggio

Il professor Michel Schooyans, docente emerito dell’Università Cattolica di Lovanio e membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, è da tempo una delle voci più critiche delle strategie socio-politiche che si celano dietro la globalizzazione di massa dei costumi promossa da alcuni eminenti, e perlopiù insospettabili, organismi sovranazionali. Il suo storico volume su Il nuovo disordine mondiale (San Paolo, Cinisello Balsamo 2000) fu prefato nientedimeno che dal cardinale Joseph Ratzinger: quando uscì – tra l’indifferenza generale – i pochi che se ne occuparono lo accusarono subito di pessimismo catastrofico e neo-millenarismo. Oggi, a poco più di un decennio di distanza, quel testo è diventato invece una lettura obbligata per quanti si occupano professionalmente di geopolitica, globalizzazione e sviluppo a livello mondiale e colui che prima era definito come ‘visionario pessimista’ viene ora descritto come ‘un profeta inascoltato’. Questa sua ultima fatica, uscita per le edizioni Studio Domenicano di Bologna, riassume sinteticamente le principali riflessioni dell’accademico belga con un’esposizione perlopiù divulgativa senza perdere però alcunché in scientificità. Il titolo già dice tutto: Evoluzioni demografiche. Tra falsi miti e verità, (cfr. M. Schooyans, Edizioni Studio Domenicano (ESD), Bologna 2014, Pp. 110, Euro 12,00) volendo con ciò intendere che l’ambito degli studi demografici a livello di mainstream è oramai sempre più appannaggio di ideologi e demagoghi vari che diffondono spesso in pubblico, invece di ricerche fondate, degli autentici luoghi-comuni a danno, paradossalmente, della stessa comunità scientifica che pure dicono a parole di voler rappresentare. Peggio ancora: le loro opinioni personali (giacché di questo infine si tratta) vengono poi recepite da policy-maker, economisti e osservatori terzi come se fossero invece delle verità certe e innegabili contribuendo in tal modo a confondere ancora di più le (poche) idee consolidate dell’opinione pubblica nell’epoca del relativismo dominante. L’attenzione dello studioso si focalizza in questo lavoro sulle principali conferenze internazionali che hanno affrontato negli ultimi decenni le questioni demografiche a livello globale a cominciare da quelle del Cairo (1994) e di Pechino (1995).

Nella seconda, in particolare, l’autore rileva che “la famiglia [fu] presentata come il luogo prototipo della lotta di classe: lì la donna è oppressa dall’uomo il quale, imponendole il ‘fardello’ della maternità, le impedisce di svilupparsi e maturare portando il suo contributo alla produzione. La liberazione della donna passa dunque attraverso la distruzione della famiglia. Tema classico del neo-malthusianesimo, la distruzione della famiglia si presenta ormai come uno dei ‘nuovi modelli’ di famiglia […] Nel corso di questa stessa Conferenza, tutti questi temi vengono raggruppati sotto l’etichetta ‘gender’: le differenze di ruoli attribuiti all’uomo e alla donna non hanno alcun fondamento naturale; sono il prodotto della cultura e, come tali, possono e devono essere abolite. Ciascuno è libero di scegliersi il proprio sesso o di cambiarlo. Siamo in piena rivoluzione culturale” (pag. 87): una rivoluzione però totalmente diversa da quelle del passato in cui le armi più affilate sono costituite dalle leggi degli Stati di diritto formalmente democratici e dalle lezioni impartite nella scuola dell’obbligo, quindi dalle produzioni di consumo nei vasti campi della cultura più popolare e dell’intrattenimento. In quest’ottica è appunto l’istituzione famigliare il nemico principale, da ostacolare prima e abbattere poi in ogni modo. Poco importa che – notoriamente – sia invece proprio la famiglia “il luogo per eccellenza dove l’uomo nasce alla libertà” (pag. 105) essendo considerata persino nella Dichiarazione parigina dei diritti umani del 1948 (non certo un documento di matrice confessionale) come una fondamentale agenzia naturale con peculiari prerogative proprie e pre-statuali (ad esempio all’articolo 16, che recita: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”). Oltre alle Carte universali dei diritti ci sarebbero poi anche le evidenze più recenti fornite dai premi Nobel per l’economia come lo statunitense Gary Becker che nel 1992 si è aggiudicato il riconoscimento dopo aver posto in rilievo “il ruolo capitale della famiglia e dell’educazione nella società” (pag. 106). Mettendo a confronto società culturalmente o etnicamente diverse nei migliori studi comparati emerge infatti con sempre maggiore chiarezza che “è primordialmente nella famiglia che si forma il ‘capitale umano’, l’unico che importa in definitiva, e che rischia di venir meno. E’ nella famiglia che si forma la personalità del bambino. E’ nella famiglia che il bambino impara il senso dell’iniziativa, della responsabilità, della solidarietà […]: qualità altamente apprezzate nella società” (pag. 106) e dunque – non lo si dirà mai abbastanza – assolutamente essenziali anche per garantire la salute civica di una comunità.

Lungi dall’essere astratto, o generico, questo tipo di discorso ha dei riflessi molto concreti per le attuali battaglie intorno alla ‘questione femminile’: “[durante la formazione del bambino] il ruolo della madre è essenziale: è lei che desta queste qualità e che insegna al bambino a studiare, a mettere ordine nelle sue cose, a essere economo […] Di qui il valore specifico dell’attività materna, che dovrebbe essere riconosciuta nella e dalla società. Il bambino non è soltanto un bene per i suoi genitori, è un bene per la società. L’attività materna non è semplicemente un bene ‘privato’, è un bene a favore della società” (pagg. 106-107). Si vede allora qui nitidamente la necessità di offrire alla donna delle condizioni sociali, economiche e culturali che nel complesso aiutino – e non ostacolino – la scelta verso la creazione della famiglia e la vocazione alla maternità. A chi non fosse ancora del tutto convinto, poi, sarà utile riflettere sulle “conclusioni corroborate al contrario da Claude Martin, che ha studiato [i danni sociali] del ‘dopo divorzio’”. Quello che si constata dal punto di vista empirico è che “il divorzio aumenta il rischio di emarginazione e persino di esclusione del coniuge separato più vulnerabile; crea condizioni propizie all’insuccesso scolastico e alla delinquenza” (pag. 107) per i minori: insomma un quadro fotografico che obiettivamente non disegna affatto quel positivo traguardo di civiltà’ di cui continuano a parlare alcuni professionisti della retorica politica relativista. La conclusione di Schooyans, che qui riprende peraltro in parte gli studi dell’economista indiano Amartya Sen, anch’egli già Premio Nobel, afferma senza mezzi termini che private dell’educazione famigliare le persone alla lunga non maturano né umanamente né socialmente fino al punto anzi di essere del tutto prive di una qualsiasi coscienza critica (non è un caso che i totalitarismi abbiano sempre visto con sospetto l’esistenza di solide reti famigliari) e dell’esercizio concreto di una reale libertà personale. E’ dunque tempo che le organizzazioni pubbliche lascino finalmente alla famiglia tutta la libertà – e la responsabilità – che le compete e che gli organismi sovranazionali, per quanto possibile, si limitino a vigilare sulla tutela dei più fondamentali diritti naturali oggi realmente minacciati a livello internazionale, come quello alla vita e alla costruzione di una famiglia. Il resto, mai come di questi tempi, rischia di apparire sempre più come mera ideologia.

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