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Pio XII sulla copertina del TIME

 

Mentre il processo di beatificazione – con non poche difficoltà – prosegue nonostante tutto il suo complesso iter, il Comitato Papa Pacelli, presieduto dall’avvocato Emilio Artiglieri, ha organizzato a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense, l’ormai consueto convegno annuale (era questa la terza edizione) sull’ultimo Pontefice romano che la Chiesa ha avuto, Pio XII appunto. Il tema scelto per l’occasione è statoquantomai significativo: “Pio XII: il Papa della carità”. Si tratta in effetti di una delle dimensioni meno studiate in assoluto e quasi volutamente trascurate dei diciannove lunghi anni (1939-1958) del pontificato del Venerabile. A parlarne, in occasione dell’uscita della piccola biografia divulgativa per il grande pubblico presentata nella serata (cfr. E. Artiglieri, Pio XII. Il Papa della carità, Edizioni Elledici – Velar, Bergamo, Pp. 48, Euro 3,50), sono intervenuti – tra gli altri – il rettore dell’ateneo, monsignor Enrico dal Covolo, il cardinale JosèSaraiva Martins, già prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il filosofo Antonio Livi e il professor Giulio Alfano, docente di filosofia politica nella stessa università, mentre monsignor Nicola Bux – consultore presso la Congregazione per le Cause dei Santi – non è potuto intervenire per un contrattempo dell’ultima ora. A prendere la parola per primo è stato il cardinale Saraiva Martins che ha definito la biografia di Artiglieri un’opera “vivace e appassionata” ma anche “originale”, frutto di un lavoro di studio e di ricerca che si è protratto per anni avendo modo di vagliare le fonti più diverse e di confutare i vari pamphlet polemici e di parte che si sono susseguiti negli ultimi tempi. Soprattutto, la biografia mette in luce tutta la straordinaria grandezza morale di Papa Pacelli (“il più grande dei nostri tempi”) presentando materiale fotografico e documentale che illustra quanto Pio XII si prodigasse per recare conforto ai tanti perseguitati di allora (ed erano tanti), credenti e non credenti. Lo ha evidenziato anche il professor Basti di Genova che ha ricordato come la carità di Pacelli non conoscesse confini: era carità materiale e intellettuale insieme, che passava per la vita vissuta e l’esperienza concreta oltre che per le parole (già da piccolo non a caso era stato profondamente segnato dall’amicizia ‘fraterna’ con un ragazzo ebreo, suo compagno di classe, figlio di un rabbino, Guido Aronne Mendes (1876-1965) che lo ricorderà sempre con particolare affetto). Basti ha poi ricordato la spiccata sensibilità mariana di Pacelli che si era formata non solo a livello colto di studio ma anche popolarmente coltivando un rapporto tutto particolare con numerose effigi mariane di Roma (dalla basilica di Santa Maria Maggiore, che ospita l’icona della Vergine come ‘Salus Popoli Romani’ alla chiesa del Santissimo Nome di Gesù, che custodisce l’immagine della Madonna della Strada): è in quest’ottica di radicata e sincera devozione filiale che va infine letta anche la definizione solenne del quinto dogmamariano, quello dell’Assunzione, che egli stesso proclamerà nel 1950.

A seguire, è intervenuto quindi padre Marc Lindeijer, assistente postulatore generale della Compagnia di Gesù, che ha tratteggiato sinteticamente – citando numerose testimonianze inedite di osservatori contemporanei, compresa la sua storica segretaria, la religiosa tedesca PascalinaLehnert (1894-1983) – la carità spirituale del pontefice romano passando in rassegna una per una ognuna delle sette opere di misericordia spirituale ricordate dal Catechismo della Chiesa Cattolica e la loro pratica nella vita di Pacelli. Ma non poteva mancare, ovviamente, un riferimento anche alla continuamente citata ‘questione ebraica’, ovvero il rapporto che Pio XII tenne verso gli ebrei perseguitati durante la seconda fase della Guerra Mondiale, seguita all’occupazione tedesca di Roma (settembre 1943) e alle successive deportazioni di massa verso i campi di concentramento nazisti:ne ha trattato lo studioso olandese DominiekOversteyns in una dettagliatissima relazione dal titolo “La carità di Pio XII verso gli Ebrei perseguitati a Roma: parlano i fatti e le testimonianze”. Facendo riferimento anche qui a numerosi racconti riportati direttamente dai protagonisti di quei giorni,Oversteyns ha spiegato che Pio XII aiutò in tutto più di 6.000 ebrei romani (su un totale di 9.000) garantendone – in vario modo e con vari mezzi – la vita in clandestinità o la fuga. Per questo scopo furono predisposti diciotto ricoveri in Vaticano e altri quarantaquattro nei vari collegi e istituti pontifici disseminati nell’area della Capitale, senza contare il capillare coinvolgimento delle case religiose (6300 in tutto). Il Papa (che peraltro aveva ospitato perseguitati in Vaticano anche prima di quei giorni) era infatti convinto che la soluzione più opportuna fosse quella di accogliere piccoli gruppi in tanti luoghi diversi e – visto il gran numero di richieste – che i monasteri di clausura, i conventi e le case religiose in genere fossero più sicuri dell’area interna del Vaticano in cui il via-vai in quei mesi fu a dir poco frenetico. A dispetto delle polemiche postume, questa scelta strategica si rivelò infine decisiva per salvare un gran numero di vite e fu testimoniata dagli stessi ebrei della comunità romana che resero omaggio a Pacelli all’indomani della sua morte a Castel Gandolfo (9 ottobre 1958).

A conclusione della serata, è intervenuto infine il professor Alfano che ha ricordato al pubblico un fatto clamoroso che pure quasi mai viene ricordato dalla storiografia contemporanea (a parte qualche eccezione come il recente lavoro di Luciano Garibaldi, cfr. L. Garibaldi, O la croce o la svastica. La vera storia dei rapporti tra la Chiesa e il nazismo, Lindau, Torino 2009): la famosa ‘Operazione Rabat’, ovvero il piano segreto di Hitler per far rapire il Pontefice (!) che avrebbe dovuto distruggere definitivamente la resistenza antinazista della Chiesa a Roma, che stava per essere messo in atto (manco pocòin effetti e in Vaticano si studiavano già le contromosse) e che fu confermato da Karl Wolff (1900-1984) in persona, il Comandante supremo delle SS. A chi è intellettualmente onesto,dovrebbe bastare anche solo questo per mettere– almeno si spera – finalmente la parola ‘fine’ sulla propaganda che mira a screditare l’immagine di Pacelli per scelte, anche politiche, di libertà e di rara coerenza (come il coinvolgimento nella nascita e lo sviluppo dei Comitati Civici di Luigi Gedda (1902-2000) e la successiva battaglia a tutto campo per le drammatiche elezioni nazionali del 1948 in cui il Fronte Popolare rischiava davvero di sconfiggere la DC portando l’orizzonte geopolitico dell’Italia verso Mosca). Infine, un dato significativo di costume, considerato che Pio XII fu un grande estimatore dei moderni mezzi di comunicazione di massa (il primo Papa a servirsene per la catechesi e la predicazione del suo Magistero di fatto fu lui). L’appuntamento dell’Angelus domenicale, diventato ormai consuetudine, tanto per la tv quanto per i fedeli cattolici di tutto il mondo, venne ideato proprio di lui, su suggerimento dello stesso Gedda, nel 1954. Doveva essere una benedizione, un semplice saluto del Papa alla numerosa folla accorsanella piazza. Ma sarebbe stato troppo poco e, comunque, allora non si usava. Il presidente dell’Azione Cattolica si sentì di suggerire: “Santità, reciti l’Angelus!”.E così nacque la preghiera in mondovisione. Per chi volesse approfondire ulteriormente, i testi delle varie relazioni della giornata sono stati pubblicati al seguente sito: http://www.papapioxii.it/.

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Il nuovo volume di Domenico Fisichella, Dittatura e monarchia. L’Italia tra le due guerre (Carocci ed., pagg. 416, € 22), è da poco nelle librerie. Cattedratico di scienza della politica, dottrina dello Stato e storia delle dottrine politiche a Firenze, Roma “Sapienza” e Luiss, Fisichella ha unito a una lunga carriera accademica un’ampia esperienza politica e istituzionale come senatore per quattro legislature, ministro per i Beni culturali e ambientali, vicepresidente del Senato per dieci anni. Per decenni editorialista di grandi quotidiani (La Nazione, Il Tempo, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero), Fisichella è autore di una lunga serie di volumi tradotti in più lingue.

Il Regno d’Italia nasce liberale nel 1861 e si sviluppa in chiave liberal-democratica. Poi, nel 1922, si avvia la dittatura. Come mai?

Il problema di tale transizione è complesso, e nel libro è affrontato a livello sia di politica internazionale sia di politica interna. Sul primo terreno, si deve ricordare che la Grande Guerra ha dato luogo a un profondo rivolgimento dell’intero equilibrio europeo, con la fine degli Imperi tedesco, austro-ungarico, russo, e anche ottomano. L’Italia, potenza vincitrice nel conflitto, ne risente in ragione della “vittoria mutilata” e quindi pure per i rapporti con gli alleati, specie francese e inglese. Sul piano interno, già da tempo, prima soprattutto a sinistra poi anche a destra, erano emerse suggestioni e spinte antiparlamentari, che gli eventi post-bellici e le violenze acuiscono e approfondiscono, in un quadro ove il disagio sociale estremizza i comportamenti collettivi.

Come si sviluppa la politica italiana dall’ascesa di Mussolini?

Anzitutto occorre studiare quando e come, attraverso quali provvedimenti e iniziative, il regime liberal-democratico si trasforma in regime dittatoriale. Fare chiarezza su questi due punti è assai importante. Inoltre, va precisato se la dittatura fascista abbia carattere autoritario o totalitario. Ancora. Come si configura il ruolo della Corona lungo questo percorso di transizione? Che cosa intendere, allora, per fascistizzazione dello Stato? Fin dove giunge tale processo? Qual è il ruolo del partito unico nel quadro istituzionale della nazione? Qual è la realtà della diarchia? Quanto si concreta l’ipotesi corporativista?

Il libro rende ragione delle grandi sfide che l’Italia affronta dalla prima alla seconda guerra mondiale, questioni oggetto di un impegno di ricerca sempre attento a delineare il quadro internazionale, per capire fra l’altro quanto il regime si spinga verso la guerra, quanto e fino a qual punto privilegi il mantenimento della pace.

Va rilevato che larga parte della storiografia, specie italiana, segue linee interpretative stereotipate per quanto riguarda sia l’azione internazionale del regime fascista sia i comportamenti della monarchia al cospetto delle trasformazioni indotte dalla dittatura nell’impianto costituzionale basato sullo Statuto Albertino. Compito di questo mio volume è far chiarezza con una ricerca scientifica approfondita su questi aspetti, ripercorrendo anche il pensiero della grande filosofia europea sui profili, vuoi dello Stato, vuoi della dittatura, come categorie concettuali. Lo scoppio della seconda guerra mondiale vede impegnata l’Italia, dopo la non belligeranza, a fianco della repubblica nazional-socialista tedesca: ne deriva il quesito sui motivi reali che inducono Mussolini in tal senso. Comunque, nella storiografia dominante la scelta del Duce ha comportato un’assimilazione dell’esperienza dittatoriale italiana a quella germanica.

Fino a qual punto ed entro quali limiti tale interpretazione può essere accolta?

Le sorti della guerra conducono al 25 luglio ‘43 e agli eventi successivi. Nuovamente, cruciale diviene l’esigenza di riflettere sul ruolo della Corona: per questo mi sono soffermato sul trasferimento di Vittorio Emanuele III e del governo a Brindisi, sul significato della Resistenza, sulla Luogotenenza generale affidata a Umberto, sulla svolta di Salerno, sull’attacco finale che la gran parte delle forze politiche sviluppa contro la Monarchia, fino alle vicende referendarie che precedono e seguono il 2 giugno ‘46, e che inducono Umberto II all’esilio. Su tutti questi punti, senza indulgere all’aneddotica ma mirando a cogliere i significati essenziali dei diversi momenti storici, il libro ha inteso scavare in profondità, per distinguere nella storiografia corrente, non sempre calibrata e plausibile, il grano dal loglio; dunque precisando, integrando, rettificando, per contribuire a una lettura realistica della storia nazionale. In questo spirito l’ultimo capitolo è dedicato a un confronto sintetico ma serrato tra vicissitudini del Regno e vicende dell’Italia repubblicana, per un giudizio accorto e meditato sul complesso della vita unitaria del Paese.

C’è un vizio d’origine nell’Italia repubblicana?

L’Italia, in ragione dell’esito della guerra, fa parte del segmento occidentale, e ne segue le sorti. La democrazia repubblicana mette in piedi un sistema costituzionale muovendosi sull’onda della paura del fascismo. Potrebbe trattarsi di una scelta plausibile, se basata su un’analisi delle condizioni che hanno condotto in Italia a instaurare un regime autoritario, e su un adeguato esame di coscienza. Così non è stato. In questo quadro, per evitare tentazioni autoritarie, si privilegia la scelta del sistema parlamentare, senza cogliere che l’emergenza e il successo del fascismo sono stati ampiamente incoraggiati proprio dalla crisi del sistema parlamentare degenerato in parlamentarismo assemblearistico, dal travaglio dei suoi partiti, dalle mattane rivoluzionarie di alcuni di essi, dal “biennio rosso”, dalla loro incapacità di superare i veti reciproci dando luogo a una qualche coalizione antifascista, dall’abdicazione aventiniana. Se avessero fatto un’analisi delle condizioni e un esame di coscienza, la scelta più ragionevole sarebbe stata un’altra.

Quale?

Per evitare tentazioni autoritarie, avrebbero potuto privilegiare un regime rappresentativo in grado di assicurare insieme espressività democratica e governabilità, capacità di registrare i diversi orientamenti dell’elettorato e, in pari tempo, stabilità e operatività dell’esecutivo. Quanto alla Resistenza, che i governi guidati da Badoglio e anche da Bonomi hanno tentato, riuscendovi in ampia misura, di tenere nell’alveo della legittimità, è stata poi abbandonata all’area comunista e alla rivendicazione della sua egemonia organizzativa, simbolica e propagandistica.

Quando si arriva a una svolta?

Nel ‘47 si consuma la separazione governativa tra i partiti di centro, democristiani in testa, e comunisti. La distinzione rispetto a questi ultimi sulla visione della democrazia appare a De Gasperi fondamentale. Il solco tra mondo occidentale e Urss si approfondisce. Il voto del 18 aprile ‘48 dà ragione all’impostazione degasperiana.

Intervista a cura di

Marco Bertoncini

pope

 

Il 28 febbraio cade il primo anniversario della storica rinuncia al Papato di Benedetto XVI: la dichiarazione pubblica di quella decisione epocale avveniva infatti esattamente un anno fa. Quei giorni e quelle settimane di sorpresa, di commozione e di agitazione li ricordiamo bene tutti: lì per lì sembravano non finire mai.

Eppure, oggi, a rivedere uno per uno tutti gli eventi che da allora si sono susseguiti sembra sia passato non un anno ma quasi un secolo. E questo specialmente in Germania, la sua amata patria. Ma, d’altronde, come avverte pure il Vangelo (Luca 4,24 o Giovanni 4,44), nemopropheta in patria. Con la sua terra Joseph Ratzinger, prima da cardinale e poi da Pontefice, ha avuto sempre un rapporto altalenante, certo non nella sua natìa Baviera e al Sud in generale, dove continua a essere ricordato e stimato, ma nel resto del Paese sicuramente sì.

Soprattutto, il ‘Paese legale’, se ci passate l’espressione, compreso quello interno al mondo ecclesiale. Anzi, qui – come sta emergendo drammaticamente in questi giorni ad alti livelli – la sua predicazione sembra avere fatto venire finalmente alla luce una spaccatura profonda e allarmante che, beninteso, forse si riscontrerà pure in altre realtà e altri contesti geografici, ma non con l’eco e i numeri cospicui che si vedono da queste parti.

Prendiamo il magistero sui cosiddetti princìpi pre-politici non negoziabili ad esempio: diritto alla vita, centralità della famiglia, libertà di educazione e libertà religiosa. Che in Germania, come nel resto dell’Occidente, peraltro, vengono continuamente disattesi a ogni livello come nulla fosse. Nel corso degli anni, l’ampia riflessione sul tema del Pontefice ha cercato di dimostrare invece come una società che non solo non li difende, ma li combatte anche – e li combatte radicalmente – alla lunga non possa stare in piedi. Detto in termini più immediati e brutali possibili: è destinata a scomparire dalla scena del mondo.

Benedetto XVI ha detto e spiegato questa analisi scioccante rimandando alle evidenze concrete della ragione umana – comune a tutti – alla forza della legge naturale – pure comune a tutti – e al peso della memoria storica continentale più recente, pure sotto gli occhi di tutti. Insomma: con strumenti e argomenti laici, comprensibili a chiunque e a ogni latitudine, facendo uso di una grammatica universale propria dell’essere umano in quanto tale, come ha rimarcato intelligentemente qualche osservatore parafrasando i suoi discorsi.

E qual è stata la ricezione di questa paziente e lunga riflessione da parte dei fedeli laici e poi dei suoi confratelli, vescovi e sacerdoti a un anno di distanza? Che, pare di capire, oggi la maggioranza dei ‘cattolici’ (virgolette d’obbligo) tedeschi preme, o premerebbe, per il riconoscimento di varie e plurali tipi di famiglie, chiedendo l’ammissione alla Sacra Comunione più o meno come si chiede il diritto alle ferie pagate in altro campo. Della serie: mi spetta per legge e guai a te se non me lo dai.

Questo è l’esito della chiamata missionaria alla nuova evangelizzazione per l’Europa apostata: farsi secolarizzare dal mondo e dal suo principe, apertis verbis.

C’è da rimanere esterrefatti. Anche perché poi tutto questo accade mentre in alcune regioni, come il Baden-Württemberg, si riscrivono i programmi d’istruzione scolastici sulla base della gender theory e chi, per esempio da ultimo a Stoccarda, prova a manifestare in piazza come può, fosse anche un’associazione di genitori, viene presa di mira, colpita e dispersa come si fa…con i Black Bloc al G8, avete presente? Sì, proprio quelli che danno fuoco a negozi e automobili trasformando una città in una trincea da guerra mondiale. Insomma: quanto sta accadendo a nostro avviso dimostra proprio tutta la lungimiranza e persino l’urgenza assoluta della questione dei princìpi non negoziabili. Se sono divisivi, se si accendono così tanto gli animi, se per fare una manifestazione sul punto non basta più nemmeno più il cordone della polizia allora dovrebbe essere ovvio che il nodo è proprio lì. Altri temi, pure importanti, non possiedono la stessa rilevanza centrale per la costruzione dell’identità ecclesiale, della società civile e della vita pubblica. E se non si riesce a mettersi d’accordo nemmeno sui minimi fondamentali, parlare di alleanze politiche e strategie di rilancio è pura utopia. Tra l’altro, non si capisce (o si fa finta di non capire) che l’attacco alle manifestazioni contro il gender non è solo un attacco al singolo tema in discussione nei parlamenti ma che è anche, e più aggressivamente, una negazione frontale della presenza di Dio nel mondo e delle sue ragioni, oltre che dei suoi diritti originari.

Chi ritiene convintamente che queste manifestazioni non debbano avere luogo (contro ogni rispetto della libertà di espressione altrui, va da sè), quale che sia il motivo, riterrà pure che nello spazio pubblico certe posizioni non debbano mai entrare: è ovvio. Cioè che uno potrà pure pensarla diversamente dal programma di educazione alla diversità che viene imposto strumentalmente a scuola o dalla pseudo-cultura del pensiero unico che giganteggia sui mass-media, purchè si tenga ogni riserva per sè, nel piccolo recinto della sua coscienza, e possibilmente stia zitto.

E‘ stupefacente, per dire il meno, che un simile lavaggio del cervello a trecentosessanta gradi possa attecchire nella comunità cristiana e persino in chi al suo interno vi ricopre incarichi di responsabilità. Ancora più stupefacente dopo gli otto anni passati, che peraltro, a dirla tutta, erano stati introdotti dai ventisette di Giovanni Paolo II, il Grande, come giustamente lo si ricorda, che nel suo testamento spirituale (Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni, Rizzoli 2005) aveva già paragonato il comportamento del Parlamento europeo su questi temi, cioè la nuova questione antropologica, a un nuovo totalitarismo che usa i diritti dell’uomo contro l‘uomo.Scriptamanent: c’è scritto proprio così, nuovo totalitarismo. Ora, totalitarismo in italiano di solito vuol dire dittatura, Infatti poi abbiamo avuto la dittatura del relativismo, come l’ha chiamata notoriamente il suo successore, che ancora dura e va avanti alla grande. Ma si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

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