PROPOSTO A PAPA LEONE XIII DA MONS PIETRO CAMODECA DE’ CORONEJ NEL 1898.Prete albanese ordinato nella Diocesi di Tursi,insegnante della lingua greca e vice rettore del Convitto Municipale di Viggiano nel 1875.
L’obolo di San Pietro è una contribuzione in denaro, che viene realizzata dai parroci con l’aiuto dei fedeli , poi trasmesso al vescovo per essere consegnato al papa per le necessità dei poveri e della Chiesa. La sua raccolta avviene in tutto il mondo durante tutto l’anno, viene utilizzato dal Santo Padre per le necessità impellenti della chiesa e per assistere i poveri.
Nasce con il cristianesimo la pratica di sostenere materialmente coloro che hanno la missione di annunciare il vangelo e prendersi cura anche dei più bisognosi. Gli Anglosassoni, dopo la loro conversione, si sentirono così legati al Vescovo di Roma, che decisero di inviare in maniera stabile un contributo annuale al Santo Padre, Denarius Sancti Petri, Elemosina a S. Pietro, che ben presto di diffuse nei paesi europei. Benedetta da PIO IX con l’Enciclica Saepe Venerabilis del 5 Agosto 1871,questa colletta continua ad aver luogo in tutto il mondo cattolico ed il 29 giugno o la domenica più vicina alla solennità di S.PIETRO E PAOLO viene offerta al Santo Padre. Le offerte dei fedeli al Santo Padre devono essere destinate alle opere ecclesiali, alle iniziative umanitarie e di promozione sociale, come anche al sostentamento delle attività dalla Santa Sede. Il papa come pastore di tutta la Chiesa si preoccupa anche delle necessità materiali di diocesi povere, istituti religiosi e fedeli in grave difficoltà.
L’obolo di San Paolo, in aggiunta all’obolo di San Pietro, fu ideato già nell’ottocento da un prete di periferia, Mons Pietro Camodeca de’Coronej di Castroregio (CS),e proposto al papa Leone XIII, che aveva ben presenti le necessità che la Chiesa aveva di aiutare le tante persone che nel mondo chiedevano aiuto. Egli, vivendo in un piccolo paese povero della Calabria, mise in evidenza le difficolta che la chiesa incontrava, e seppe trovare il modo con il quale superare questo ostacolo che a quei tempi ed in quelle regioni doveva essere difficile da risolvere.
Mons Pietro Camodeca de’Coronej di Castroregio (CS), sacerdote eclettico, che si interessava della conservazione della lingua e delle tradizioni religiose albanesi greco-bizantine, fu ordinato Sacerdote nel 1871 dal Vescovo Acciardi della Diocesi di Tursi e sostenne con forza la creazione di una diocesi autonoma greco bizantina, che fu poi creata a Lungro (CS) nel 1919. Insegnò la lingua greca, ancora studente al Seminario di Tursi ed anche al Convitto Municipale di Viggiano, dove fu nominato Vice Rettore. Fu Presidente della Società Nazionale Albanese a Corigliano Calabro nel 1895 e da CIRILLO VIII Patriarca di Antiochia fu nominato ARCHIMANDRITA D’ORIENTE. Ebbe una produzione letteraria molto ricca, ma pochi sono i libri pubblicati. Egli ideò che all’aiuto economico, che i fedeli offrivano al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del successore di Pietro per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi , già conosciuto come Obolo di San Pietro, si aggiungesse anche l’0bolo di San Paolo. Questo obolo, raccolto dai parroci attraverso i vescovi doveva raggiungere il Santo Padre, in modo che il 6 Gennaio fosse a lui consegnato come dono dei re Magi.
Il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662), meditando sui peccati più gravi della storia dell'umanità, soleva ripetere con un'iperbole che l'agonia di Gesù, lungi dall'essere conclusa, si protrae fino alla fine della mondo. Ma a ben vedere la considerazione si può applicare a maggior ragione anche alle persecuzioni che le diverse membra del corpo di Cristo (che poi compongono la Chiesa militante) hanno patito nei secoli passati e patiscono tuttora. In particolare, non si può restare indifferenti di fronte al vero e proprio mare di dolore che accompagna quotidianamente, ancora nell'Anno Domini 2014, la vita dei seguaci di Gesù in Pakistan: tra gli altri, lo documenta efficacemente l'ultimo breve lavoro pubblicato dall'opera di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) tutto dedicato alla via crucis contemporanea dei cristiani nella grande Repubblica Islamica al confine con l'Afghanistan (cfr. Aiuto alla Chiesa che Soffre (a cura di), Nel segno della croce. Pakistan, ACS, Roma 2013, Pp. 48). Il reportage, esito di un recente viaggio in Pakistan di una delegazione dell'ACS, presenta diversi racconti e testimonianze che, se non fossero suffragate dalle foto che li accompagnano, a stento si riuscirebbero a credere. Per fare comprendere ai neofiti di che cosa stiamo parlando esattamente, gli autori forniscono una serie di dati impressionanti: ad esempio si pensi che, nel solo 2010, secondo le stime della Commissione pakistana per i diritti civili “sono stati uccisi 237 attivisti per i diritti umani impegnati in politica [ma] in tutto, sono 1969 le persone che hanno perso la vita in modo violento. Dal 2005, queste cifre sono quasi raddoppiate” (pag. 4). Nella Repubblica, che attualmente è composta da 175 milioni di musulmani, vivono anche più di un milione di cattolici, tra cui quell'Asia Bibi che da cinque anni si trova ingiustamente in carcere ed è ancora in attesa di giudizio. Ma la vicenda della povera Bibi non è che la punta estrema di un martirio impressionante che sui mass-media in Occidente arriva raramente. Lo testimonia con commozione una religiosa italiana, suor Daniela Baronchelli delle Figlie di San Paolo, che nella popolosa città di Karachi (18 milioni di abitanti) gestisce una libreria cattolica rischiando la propria pelle giorno dopo giorno: in quanto cristiana - in una cultura in cui cresce in modo esponenziale il fondamentalismo islamista che non tollera la presenza di altri credi - e anche in quanto donna - in una società civile in cui alle donne in generale non viene riconosciuto uno status pubblico. Descrivendo la condizione sociale dei cristiani, Baronchelli dice che “sono sempre stati poveri, ma ora si parla proprio di miseria e sebbene siano molto forti nella fede, in tanti sono stanchi. Le madri sono senza lavoro, i padri sono stati licenziati dalle fabbriche. Tante persone vengono uccise senza motivo. Solo Dio sa qual é il futuro di questo Pakistan” (pag. 6). Insomma, “le persone qui convivono con la paura che in qualsiasi istante possa succedere qualcosa e con la consapevolezza che la vita é legata a un filo” (pag. 7).
Vengono poi ricordate le persone che dalla fondazione della Repubblica si sono battute per dare dignità ai cristiani, come il cardinale Joseph Cordeiro (1918-1994), a lungo arcivescovo di Karachi e primo vescovo pakistano della storia, grazie al quale sono sorti diversi centri di catechesi, scuole domenicali di studio della Bibbia e formazione e - anche grazie a lui - oggi sono più di 1000 gli insegnanti che domenica dopo domenica svolgono attività di evangelizzazione per avvicinare a Cristo la cultura locale.
Sempre a Karachi si trova poi un seminario che prepara al ministero i futuri sacerdoti: circondato da moschee e madrasse, soffocato dalle grida dei muezzin all'alba e dai sermoni dei mullah al venerdì, l'area è situata in un territorio letteralmente minato eppure i ragazzi che lo frequentano (ventisette attualmente) non per questo sono disposti ad abbandonare la loro vocazione: ben sapendo che potrebbero essere rapiti o anche uccisi da un giorno all'altro continuano a studiare e a prepararsi per il giorno dell'ordinazione attingendo forza dagli scritti dei Padri della Chiesa dove la persecuzione e il martirio non sono leggende di un tempo remoto ma cronache diffuse e ricorrenti. E tuttavia non basta: ancora peggiore è la situazione nella provincia del Punjab dove - sempre ad opera di estremisti islamici - dal 2005 ad oggi sono stati uccisi 22 tra insegnanti e catechisti cattolici. Di fatto, “nessuno è al sicuro in questa Provincia. Ci racconta [un sacerdote] che «tutti gli edifici, compresi quelli dove abita il vescovo, hanno sul retro una seconda uscita per scappare in caso di emergenza e non sono, comunque, sicuri». Ci sono posti di blocco ovunque e in alcuni quartieri della città si può arrivare solo con un permesso speciale da richiedere giorni prima. Anche il vescovo ne ha bisogno ed essendo la cattedrale intitolata a Nostra Signora del osario, situata in uno di quei quartieri, i fedeli molto spesso non possono recarsi a Messa in quanto sprovvisti del permesso” (pag. 18). A tutto questo va aggiunta la condizione di perdurante povertà che affligge storicamente la comunità cristiana: di solito i lavori che riescono ad avere sono quelli per fare “i netturbini o puliscono le fogne nei quartieri peggiori” (pag. 21), oltre a un 'marchio sociale d'infamia' che resiste e non li abbandona mai. Ancora oggi infatti pubblicamente si fa fatica ad accettare che un pakistano non sia islamico e persino i sacerdoti e i vescovi vengono invitati a convertirsi...all'Islam! ACS racconta poi la significativa vicenda di un frate francescano, padre Victor John, che ha compiuto da poco i 25 anni di sacerdozio e che nel 2001 - dopo avere difeso il terreno di una scuola cattolica da un'occupazione - è stato minacciato dall'ennesimo gruppo islamista radicale con minacce come questa: “se provi a celebrare la Messa ti facciamo saltare in aria con una bomba!” (pag. 23). Da allora esce sotto scorta ma non ha diminuito il suo impegno apostolico, anzi è lui stesso a raccontare l'opera educativa e di dialogo interconfessionale che la Chiesa promuove attivamente nelle scuole del Paese, a dispetto di quanto accade invece nelle strutture scolastiche statali in cui “gli studenti e gli insegnanti non islamici vengono discriminati” (cit. a pag. 23). Infine, non va dimenticata la scottante questione della cosiddetta 'legge anti-blasfemia' approvata nel 1986 che stabilisce il carcere a vita per la profanazione del Corano e la pena di morte per un'ingiuria rivolta a Maometto: “é sufficiente un semplice sospetto o un'affermazione incauta, per rinchiudere una persona dietro le sbarre. L'oneredella prova funziona al contrario: non é l'accusatore che deve dimostrare la colpevolezza dell'imputato, ma è l'accusato che deve dimostrare la sua innocenza. Peraltro, chi accusa non pronuncerà mai le vere o presunte offese inferte al Corano o all'Islam, perchè diventerebbe a sua volta perseguibile del reato di blasfemia. E ' un mecanismo contorto, aggravato dal fatto che nella pratica non viene fatta alcuna distinzione tra volontarietà o involontarietà del reato: se un bambino o una persona analfabeta gettassero nell'immondizia un vecchio giornale sul quale casualmente é scritto anche un solo versetto del Corano o se una persona non in grado di intendere e di volere, affermasse di essere lui stesso Maometto, queste azioni verrebbero considerate, in ogni caso, compiute intenzionalmente” (pag. 29). Né basta l'assoluzione definitiva dei giudici per salvarsi la vita perchè tra il 1986 e il 2010 “sono state ben 34 le persone linciate dopo sentenze di assoluzione” (pag. 29). Invano Shahbaz Bhatti, il compianto Ministro per le minoranze assassinato nel marzo del 2011, si era speso per combattere questa barbarie giuridica e civile: il suo lucido testamento spirituale, scritto qualche tempo prima, resta però tra tutti ancora oggi il messaggio più toccante, e insieme di speranza, perchè testimone di una sconvolgente santità ordinaria, per la martorita comunità cristiana pakistana: “Mi è stato chiesto di porre fine a questa mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, perfino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta é sempre stata la stessa. Non voglio popolarità e non voglio potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, la mia personalità, le mie azioni, parlino per me, dicendo che sto seguendo Gesù. In me é un desiderio così forte che mi considererei un privilegiato qualora, in questo mio impegno, Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire [...] Finchè avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesà e questa povera sofferente umanità nei cristiani, nei bisognosi e nei poveri” (pag. 45).
La pubblicazione si può richiedere all'ufficio stampa dell'Opera a questo indirizzo e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
A cavallo tra il cinquantesimo anniversario dell'enciclica di Papa Giovanni XXIII e la sua imminente canonizzazione l'Osservatorio Internazionale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa pubblica per le edizioni Cantagalli il tredicesimo quaderno della collana di studi e approfondimenti tematici: lo firmano un teologo e un giornalista che rievocano brevemente l'eredità del Magistero di Papa Roncalli alla luce della sua ultima lettera enciclica, la Pacem in terris appunto (E. Malnati – M. Roncalli, Pacem in terris. L'ultimo dono di Giovanni XXXIII, Edizioni Cantagalli, Siena 2013, Pp. 192, Euro 12,00). La prefazione è del Presidente dell'Osservatorio, monsignor Giampaolo Crepaldi, che - sgombrando opportunamente il campo da approcci mondani (sia nel senso di 'mondo', sia nel senso di 'moda') oggi più che mai in voga - sottolinea l'attualità del documento pontificio alla luce dell'ermeneutica della riforma nella continuità evidenziando in particolar modo il fatto che “le 'novità' delle encicliche non derivano, come normalmente si pensa, dai fatti nuovi che emergono alla ribalta della storia in quel tempo, ma dalla eterna giovinezza del Vangelo. Altrimenti le encicliche avrebbero lo stesso valore di una indagine sociologica, oppure di una rassegna di cronaca giornalistica” (pag. 8). D'altronde, a leggerla con la dovuta attenzione, l'enciclica fin dall'inizio è saldamente ancorata al concetto di 'ordine sociale' che in ultima analisi fa riferimento al piano di Dio creatore e alla sua sapienza infinita. E' un ordine che di per sé ha a che fare con una gerarchia di valori predeterminati e con una natura universale che ci precede. Infatti quando poi affronta il tema – politicamente scorrettissimo – dell'autorità, il 'Papa buono' rimanda proprio al fatto che anch'essa viene da Dio e, dunque, “chi esercita l'autorità lo fa come partecipazione all'autorità di Dio” (pag. 12): un discorso che vale pure per le odierne democrazie sempre più tentate dalla logica efficientistica dell'astratto proceduralismo burocratico autoreferenziale e fine a se stesso. Infine, in merito al 'bene comune', categoria fondamentale della Dottrina sociale, esso – scriveva Giovanni XXIII cinquant'anni or sono - “va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del fine ultraterreno ed eterno” (nr. 35) della collettività, come a dire che la qualità di un ordinamento si vede anche dagli ostacoli – o meno – che esso frappone alla santificazione pratica delle singole anime dei propri consociati.
Più nello specifico, poi, la cornice storica e teologica è approfondita dai contributi dei due studiosi che sottolineano anche le parti del documento giovanneo successivamente riprese dal Compendio della Dottrina sociale della Chiesa pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004, in particolare riguardo alla libertà di educazione e al diritto naturale (soprattutto Malnati). Non a caso, d'altronde, l'enciclica stessa all'inizio spiegava che la pace fra gli uomini sarebbe stata possibile solo “nella verità, nella giustizia, nell'amore, nella libertà”, richiamate esattamente in quest'ordine, il che vuol dire che prima di tutto c'è quindi il primato della verità che rimanda al Sommo Bene incarnato da Dio e che senza questa centralità della sua Presenza ogni piano di pacificazione sarà da considerarsi destinato inevitabilmente a fallire. A seguire, Roncalli ripercorre le varie tappe dell'elaborata scrittura dell'enciclica - mentre Giovanni XXIII era già fortemente debilitato dalla grave malattia, un cancro allo stomaco, che di lì a poco l'avrebbe portato alla morte - ricordando il lavoro svolto da monsignor Pietro Pavan (1903-1994), allora docente alla Pontificia Università Lateranense, di cui sarà poi rettore (prima di essere creato cardinale), e in particolare l'uso innovativo che il Papa in quegli anni farà dei moderni strumenti di comunicazione di massa, come la televisione: sarà proprio in diretta televisiva RAI, infatti, il 9 aprile 1963, che il Pontefice firmerà l'enciclica accompagnondola con queste significative parole: “Sulla fronte dell'Enciclica batte la luce della divina rivelazione che dà la sostanza viva del pensiero. Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intima della natura umana, e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale. Ciò spiega una innovazione propria di questo documento, indirizzato non solo all'Episcopato della Chiesa universale, al Clero e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche 'a tutti gli uomini di biona volontà'. La pace universale è un bene che interessa tutti indistintamente; a tutti quindi abbiamo aperto l'animo Nostro” (cit. a pag. 96).
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