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La rivista “Cristianità”, organo ufficiale di Alleanza Cattolica compie cinquant’anni di vita. L’attuale numero 413 in diffusione propone due presentazioni, la prima del compianto dirigente di Alleanza Cattolica, professore Marco Tangheroni (1946-2004) in occasione dei venticinque anni dalla sua nascita; la seconda è dello storico Oscar Sanguinetti. Per il momento presento quest’ultima. Nel settembre del 1973 vedeva la luce il «numero zero ad experimentum» di Cristianità. L’evento segnava, in qualche modo, la conclusione della fase embrionale dell’associazione e l’apertura in Italia di una intensa e feconda stagione di apostolato culturale di segno contro-rivoluzionario. Prima della rivista Cristianità in Alleanza Cattolica, erano esistiti ciclostilati, ricordo in particolare, un bollettino periodico intitolato “Il resto della verità”, ne sono usciti quattro numeri. Tuttavia la rivista, voleva essere uno strumento completo per informare in primis i suoi membri, ormai presenti in più province del territorio nazionale, in vista di un’auspicata omogeneità culturale, nonché per far conoscere all’esterno le tesi ufficiali — la «linea» — dell’associazione, fornendo a un pubblico più esteso elementi di analisi della situazione, di informazione e di formazione culturali. Alla fine del secolo e del millennio il mondo è cambiato e di molto. C’era stata la caduta del Muro di Berlino, l’implosione del sistema imperiale comunista nei paesi dell’Europa centro-orientale. Tuttavia, l’inizio del nuovo millennio e del nuovo secolo era coinciso con un’altra «svolta epocale»: l’attacco terroristico contro gli Stati Uniti d’America avvenuto l’11 settembre 2001, un evento che aveva rimesso in movimento la storia e disegnato orizzonti sempre più confusi all’avvenire del mondo. Dopo il crollo delle Twin Towers a New York City il mondo si era accorto che la minaccia rappresentata dall’islamismo radicale aveva compiuto un salto di qualità e che i gruppi terroristici miravano non più solo a occupare pacificamente il territorio europeo e occidentale ma anche a ricostituire il Califfato — estintosi nel 1924 — o comunque a dar vita a entità statali dove la legge coranica fosse la regola giuridica. Uno scenario relativamente nuovo colpisce la Chiesa e il mondo intero.

Iniziando dalla Chiesa, ricordiamo che l’organismo fondato venti secoli prima da Gesù Cristo ha salutato l’ingresso nel suo terzo millennio con un solenne Giubileo, celebrato dall’anziano pontefice polacco, san Giovanni Paolo II (1978-2005), ormai al tramonto del suo ministero e della sua esistenza. La Chiesa, lungi dal sentirsi decrepita, si slanciava con impeto giovanile nel nuovo tempo umano, carica di problemi ma anche oltremodo ricca, come in tutte le sue età, pure le più travagliate, di tesori inestimabili di grazia soprannaturale, continuando a presentarsi come perenne via per raggiungere la vita eterna beata. In effetti, in questi anni di inizio millennio, i fenomeni destabilizzanti già manifestatisi nella Chiesa sullo scorcio del ventesimo secolo sembravano perdurare e aggravarsi: l’«autodemolizione» denunciata da san Paolo VI (1963-1978) nei primi anni 1970 non si era arrestata, ma continuava, sebbene in forma carsica, al di sotto di una linea ufficiale del pontificato di Giovanni Paolo II, che aveva frenato i rigurgiti di progressismo che affioravano ovunque.

Giovanni Paolo II nel 1992 aveva fatto dono alla Chiesa di un testo di importanza assoluta e universale, di un corredo fondamentale per rievangelizzare l’Occidente: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Cristianità nel 2012 ne celebra il ventesimo anniversario con un’ampia disamina del valore dottrinale e pastorale del testo, dedicandovi un numero speciale in cui, fra gli altri interventi autorevoli e di pregio, appare l’articolo di Cantoni dedicato a Il «Catechismo della Chiesa Cattolica».

 In quegli anni il secolarismo scatenato delle culture della modernità tardiva e relativistica, che prosciugava sempre più gli animi da ogni traccia di fede, di senso comune e di voglia di vivere, si è dotato di un’arma nuova e mortale nel suo sforzo di nuocere alla maggior agenzia di valori intrinsecamente ostili al secolarismo e al relativismo, ossia alla Chiesa: l’accusa di pedofilia e quella, correlata, di «copertura» da parte delle gerarchie ecclesiastiche. L’arma non era nuova ed era in realtà spuntata, perché la polemica veniva da ambienti progressisti che nel post-Sessantotto teorizzavano e praticavano la pedofilia e si appuntava su un fenomeno che investiva non solo il clero ma diverse categorie di persone. Durante il pontificato di Benedetto XVI (2005-2013), le forze anticlericali esasperano il problema e sfruttano le lacerazioni provocate dallo scandalo della pedofilia, di cui Papa Benedetto aveva dato una lettura in forte contro-tendenza, legando il fenomeno soprattutto al clima di relativismo morale creatosi nei seminari dopo il Sessantotto e nel postConcilio e saranno forse tra le cause della sua decisione di lasciare il Soglio e rinunciare al ministero petrino.

Su Cristianità, una volta perfezionate le dimissioni di Benedetto XVI, Massimo Introvigne, allora reggente nazionale vicario, traccia un fedele profilo del pontificato cessato, ne redige un accurato «bilancio», accompagnato da un caloroso farewell, ribadendo nel contempo la fedeltà di Alleanza Cattolica alla Cattedra di Pietro e al suo nuovo titolare . Sempre in ambito ecclesiale, Cristianità registra anche un fatto piccolo ma assai significativo, ossia il riconoscimento canonico — come associazione privata di fedeli con personalità giuridica privata — di Alleanza Cattolica da parte della diocesi di Piacenza-Bobbio, il 13 aprile 2012 . Riguardo al riconoscimento, Cantoni precisa: «Dopo cinquant’anni Alleanza Cattolica ha ricevuto un riconoscimento ufficiale — è l’inizio, il battesimo, ma è già un passaggio significativo —, e ciò è accaduto non perché abbia modificato qualcosa di essenziale, pur se nel tempo siamo cresciuti, qualcosa si è svolto».

Intanto negli ultimi decenni vi è l’avanzata della globalizzazione, un fenomeno che non concerne più soltanto la finanza — già mondializzata nell’Ottocento — e la comunicazione — le cui barriere cadono nella seconda metà del Novecento grazie ai satelliti, alla «rivoluzione digitale» e a Internet —, ma invade ogni aspetto della vita: dall’accresciuta mobilità delle persone e delle merci a quella dei centri di produzione, nonché alla fluttuazione e mutazione del lavoro salariato, con enormi ricadute sugli Stati e sui relativi sistemi economici, ricadute che arrivano a modificare in profondità le relazioni e i legami sociali, non solo quelli commerciali.

 Con la globalizzazione si intreccia l’esplosione del fenomeno migratorio, che investe soprattutto l’Africa e l’Asia orientale — India, Bangladesh, Pakistan — ma si nota anche in aree dell’America meridionale e alla frontiera fra Messico e Stati Uniti. Oltre ai vari fattori che provocano l’immigrazione, come le guerre, l’economie disastrate, la rivista sottolinea un’altra fonte di flussi umani verso i Paesi opulenti dell’Europa e dell’Occidente in generale: la migrazione, pure quella che potremmo definire «ideologica», dai Paesi islamici. Migliaia di persone, lavoratori e no, si insediano con le proprie famiglie negli Stati più «aperti», come il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’Italia, fino a costituire ormai minoranze cospicue della popolazione. E dove vi è un islamico quella è terra d’islam, potenzialmente rivendicabile come sovranità. Nonostante lo sforzo statunitense, non di rado coronato da effimero successo, per contrastare l’espansione del radicalismo armato di matrice islamica — non l’unico radicalismo armato, ma di certo il più diffuso e pericoloso — sul suo proprio terreno di coltura, non si può dire che il fenomeno sia scomparso. Forse si è indebolito, ma non è domo. L’abbandono statunitense dell’Afghanistan ai talebani — dopo centinaia di morti fra le file dei soldati USA —, l’impantanamento in Siria, le difficoltà dello sforzo euro-americano in Libia, nello Yemen, in Nigeria, nell’Africa sahariana, sono altrettanti fattori che sembrano vanificare il disegno complessivo di estinguere queste tendenze radicali e di ridimensionarne il pericolo per l’Occidente. Su queste svariate correnti che attraversano impetuose la vita di ciascuno di noi e che modificano la convivenza civile nel nostro Paese si è abbattuta due anni or sono l’epidemia di SARS da virus denominato «Covid-19» originatasi in Cina. Lepidemia, grazie alla globalizzazione, è giunta in tutto il mondo e ha letteralmente sconvolto economie, forme di convivenza, vita familiare, attività lavorativa e professionale, scuola e rapporto fra i cittadini, nonché fra i cittadini, le istituzioni e i servizi pubblici. Ha avuto un impatto devastante sui sistemi sanitari nazionali e ha rovinato intere categorie di operatori economici e di imprese, offrendo invece larghe possibilità di profitto a chi ha saputo «cavalcare» per tempo la crisi e soddisfare i nuovi bisogni individuali e collettivi da essa scatenati.

Nella politica italiana ha assistito senza farsi troppe illusioni all’ascesa del fenomeno berlusconiano e all’accesso al governo delle forze di centro-destra, inclusa la destra post-fascista, fino a poco prima demonizzata o strumentalizzata. La presentazione di Sanguinetti fa riferimento alle varie stagioni politiche italiane a partire da quella specie di “insorgenza” popolare guidata dal Polo delle Libertà, dopo quella del 18 aprile 1948. Ne ha apprezzato soprattutto il ruolo di oggettivo rallentatore — e, in certa misura, inibitore — dell’avanzata implacabile dell’agenda anti-bioetica, senza trascurare il rilievo dell’avanzata tecnocratica. Tutto ciò è venuto meno con il governo guidato da Matteo Renzi (2014-2016) e quello presieduto da Paolo Gentiloni (2016-2018), durante i quali sono state approvate la legge che modifica il diritto di famiglia, introducendo le unioni civili fra persone dello stesso sesso, e la legge sul cosiddetto «fine-vita», che sancisce per il malato la possibilità di rifiutare le cure, anche quelle cosiddette «salva-vita», e di fatto introduce il «diritto» al suicidio.

Oggi, i cattolici italiani sono diventati una minoranza e sul piano politico devono offrire il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, innanzitutto «[...] difendendo e diffondendo quei princìpi senza i quali non c’è bene comune [...] che vanno dalla sacralità della vita, alla centralità della famiglia, dalla libertà religiosa e di educazione all’attenzione speciale alle categorie più in difficoltà», e sostenendo i «princìpi contenuti nella dottrina sociale della Chiesa, confrontandoli con la situazione storica in cui si vuole operare per evidenziare le priorità».

L’area «bioetica», specialmente nella sua relazione con la politica, è quella che nel periodo considerato presenta le più numerose e difficili problematiche, in quanto settore di punta del tentativo rivoluzionario di sovvertire i costumi attraverso una legislazione atta a coprire le più folli possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica sanitarie. Cristianità dà puntuale notizia e commento a tutto il magistero, via via sempre più corposo, che san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, senza omettere gli spunti forniti nei suoi documenti e nelle sue dichiarazioni da Papa Francesco, producono in quest’area.

Un capitolo a parte merita l’analisi della «rivoluzione nella Rivoluzione», che a partire da inizio secolo ha compiuto passi giganteschi, ovvero l’omosessualismo e tutte le sue derivazioni LGBTQ, che costituiscono la più recente frontiera del tentativo di imporre la teoria gender come visione univoca della persona, ma in realtà in una prospettiva molto più ampia. In occasione della presentazione, il 22 ottobre 2002, da parte dei Democratici di Sinistra e di altri di una proposta di legge dal titolo Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto, che mirava al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, incluse quelle omosessuali, Cristianità pubblica una sorta di breve catechismo a domande e risposte redatto da Bruto Maria Bruti (1954-2010) per fornire argomentazioni a chi vi si opponeva. Alla difesa e all’apologia della famiglia come primo alveo dell’esistenza umana e come struttura-base della società è dedicato l’intero numero 377, uscito poco dopo la manifestazione per la famiglia — o Family Day — svoltasi a Roma il 20 giugno 2015.

 Per la ricostruzione della verità storica Cristianità è stata pure attenta alle ricorrenze storiche, in particolare al bicentenario della prima fase dell’Insorgenza italiana, quella del 1799, e alla seconda fase di essa, manifestatasi fra il 1805 e il 1809. Lo ha fatto, in particolare, dando spazio alle cronache dei convegni organizzati dall’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, poi denominato ISIIN, Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, a Milano nel 1996 e 1997, oltre che nel 2004 e nel 2005, ma anche polemizzando con le letture scorrette dell’Insorgenza. Al fenomeno Cantoni dedica più tardi, nel 2008, un ampio articolo-saggio, che a mio avviso «chiude» l’ermeneutica storica del fenomeno delle «Vandee cattoliche» — ricollegandole alla parabola ascendente dello Stato moderno —, maturata nella riflessione di quasi un quarantennio. Così pure, fin dal 1998, mantiene viva la memoria della «guerra dei Cristeros» avvenuta settant’anni prima nel Messico cattolico, una memoria particolarmente cara a chi, come Alleanza Cattolica, promuove la regalità anche sociale del Signore. Un certo rilievo è stato riservato alla commemorazione del terzo cinquantenario dell’Unità italiana. Nel 2011 sono stati pubblicati sul numero 359 un «manifesto», dal titolo «1861-2011. Unità e Risorgimento. La verità anzitutto». Un manifesto-appello per l’identità nazionale, e la cronaca del convegno 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, organizzato a Roma il 12 febbraio 2011 da Alleanza Cattolica. Ha fatto quindi seguito l’ampio e importante saggio di Mauro Ronco, La questione istituzionale dopo l’Unità d’Italia, pronunciato nel corso del predetto convegno, e in seguito riveduto e annotato: un testo lucido e compiuto che fonda la posizione legittimamente critica sul Risorgimento che è da sempre nel DNA di Alleanza Cattolica e dovrebbe esserlo di ogni realtà associativa conservatrice.

Nel 2013 è ricorso il trentennale del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Dichiarazione sulla massoneria — pubblicato il 26 novembre 1983 —, approvato speciali modo da san Giovanni Paolo II, che costituisce tuttora il diritto vigente in materia dei rapporti fra la Chiesa e la setta massonica. Il numero 370 è stato dedicato al tema e reca un articolo di Introvigne, fondamentale per una visione completa, e soprattutto aggiornata, del fenomeno massonico.

Come detto, la rivista Cristianità non si occupa solo del passato, ma attinge al passato, alla fede e alla retta ragione per comprendere come affrontare il presente e «preparare» il futuro. In questa prospettiva, sulle sue pagine si sono succedute analisi della situazione — una situazione che potremmo dire varia ogni giorno, pur in un contesto di degrado spirituale e morale crescente — in cui l’apostolato culturale di Alleanza Cattolica viene a situarsi. Così, Cristianità ha affrontato il nodo della definitiva «morte» della cristianità nata sulle ceneri dell’impero romano. Una morte «annunciata», che ora ci fa trovare di fronte non più a un organismo in agonia ma a un cadavere in via di decomposizione, quindi connotato dai fenomeni dissolutori e miasmatici tipici di questa condizione, che proiettano liquami a 360 gradi. La condizione, di degrado della nostra società, di un mondo sempre più “liquido” di Quarta Rivoluzione ha costretto l’associazione a mutare il proprio apostolato. Ha aperto la serie delle analisi don Pietro Cantoni, nel 2016, con Riflessioni su «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» e la situazione attuale, e ha proseguito Marco Invernizzi con Alleanza Cattolica fra Sessantotto e «morte» della cristianità. In questo stesso articolo veniva lanciata la strategia che sembrava meglio rispondere alle nuove esigenze venutesi a creare, una strategia racchiusa nella parola d’ordine: «costruire ambienti». Ovvero, cercare di «[...] operare dentro gli ambienti che si sono costituiti dopo il 1968, che sono movimenti ecclesiali e gruppi di preghiera, ma non esclusivamente [come] le reazioni spontanee alla Quarta Rivoluzione: un esempio ne è il Comitato Difendiamo i Nostri Figli, che ha promosso i due raduni di massa dei Family Day del 20 giugno 2015 e del 30 gennaio 2016.

Numerosi interventi di Cantoni sulla rivista — recanti prospettive e riflessioni su una Cristianità Nuova nel terzo millennio, a partire dalla consapevolezza della Cristianità in agonia e dalle sue dimensioni culturali — sono stati raccolti poi raccolti in G. CANTONI, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, SugarCo, Milano 2008.

Invernizzi torna ancora su questo tema, l’anno seguente: «Il Sessantotto, rivoluzione eminentemente individualistica e interiore, ha anche distrutto gli ambienti, in particolare quelli fondati semplicemente sull’amicizia, che nascevano spontaneamente soprattutto fra i giovani, sostituendoli con nuove aggregazioni artificiali fondate sull’ideologia, sulla musica o sullo sport. Queste ultime due forme sono sopravvissute alla fine dell’epoca delle ideologie». E nell’editoriale del numero successivo, nel paragrafo dedicato a Come cambia la lotta contro la Rivoluzione, Invernizzi afferma: «[...] sempre più evidente appare la necessità di una ricostruzione che passi attraverso la riconquista delle anime e ricreando il rapporto fra persona e persona, mediante un apostolato che comprenda la creazione di ambienti missionari, che non si chiudano in loro stessi, ma sappiano trovare il linguaggio e le forme adatte a toccare il cuore dei nostri contemporanei. [...] Un apostolato, infine, come ha spiegato Papa Francesco sempre incontrando la Chiesa italiana il 10 novembre 2015, che sappia essere umile, disinteressato e capace di trasmettere la letizia dell’essere cristiano, affinché gli uomini disperati del nostro tempo vedano nei cattolici il desiderio di servire e di fare crescere e non l’arroganza o lo zelo amaro, il distacco dai privilegi del denaro e del potere, e quindi la gioia che nasce dal Vangelo, senza la quale è difficile oggi mostrare la verità della dottrina cristiana».

Terminata la stagione della diffusione militante nelle vie e nelle piazze, nel 2009, con il numero 351, viene mutato il modo di proporre la rivista, passando dal formato A4 al formato quaderno, per renderla più simile ad altre testate allora presenti nel mondo cattolico, in particolare alla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica. Nel 2013, con il numero 367 viene introdotto qualche ritocco stilistico alla copertina, da allora rimasta immutata. Il cambio di veste editoriale è l’aspetto più visibile di un mutamento più profondo. La rivista, infatti, si dota di una redazione vera e propria, che ha sede a Roma, e passa da bimestrale a trimestrale — tornando poi alla cadenza bimestrale dal 2017 —, senza mai diminuire il numero delle pagine. Lo fa confermando la linea, scelta nei primi anni 1970, di fornire elementi d’informazione, d’interpretazione e di giudizio sui grandi eventi che interessano la vita della Chiesa, la politica internazionale e nazionale, la società e la cultura. Perciò a Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica e direttore della rivista dal primo numero, si affianca ufficialmente un corpo redazionale associativo, garanzia della fedeltà della linea editoriale al patrimonio dottrinale e culturale cui Alleanza Cattolica attinge fin dalla sua fondazione. L’anno seguente Cristianità dà risalto al cinquantenario dell’opera del professor Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e ControRivoluzione, libro di formazione di base dell’associazione, e al convegno organizzato in quell’occasione, a Roma, il 21 novembre 2009, da Alleanza Cattolica in collaborazione con l’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà. Nel 2013 compare l’ultimo articolo scritto da Cantoni per la «sua» Cristianità e dedicato a commemorare il centenario della nascita di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), una delle maggiori «scoperte» del suo ininterrotto lavoro di scouting culturale. Colpito in quell’anno da una grave malattia, non collabora più alla rivista, salvo con alcuni articoli frutto di interventi precedenti a quella data, e lascia nel 2016 la guida dell’associazione, sostituito da Marco Invernizzi. Cristianità gli dedica buona parte dei numeri 393 e 394 in occasione del suo ottantesimo compleanno, quindi l’intero numero 401 dopo la sua scomparsa, avvenuta il 18 gennaio 2020, e il numero 411 con la pubblicazione degli atti del convegno Per la maggior gloria di Dio, anche sociale. In memoria di Giovanni Cantoni (1938-2020), tenutosi a Piacenza, sua città natale, il 25 settembre 2021. 3. Sanguinetti conclude la sua documentata presentazione sulla vita di Cristianità negli ultimi venticinque anni e nell’imminenza del cinquantesimo anniversario della sua nascita, si impone qualche breve considerazione di merito. La prima riguarda la longevità della testata: questa tumultuosa transizione d’epoca, il mutare ogni giorno più rapido dell’ambiente in cui le iniziative editoriali vengono a collocarsi, il fluttuare dei gusti del pubblico, la concorrenza spietata dei social media e della comunicazione elettronica, hanno segnato la morte di tante riviste, specialmente quelle attive nell’area della cultura e della cultura religiosa e conservatrice in particolare. L’aver superato agevolmente i quattrocento numeri in cinquant’anni rappresenta dunque un autentico monstrum.

Attenzione non ci sono solo le guerre con i carri armati, ma anche le guerre combattute attraverso la cultura, i mass media, i libri, per cancellare il passato, ma anche il presente, discriminando le persone in carne e ossa. Da qualche anno è in atto in particolare negli ambienti culturali americani, ma sta arrivando anche in Europa e in Italia, una “guerra culturale” contro tutto quello che ha rappresentato e rappresenta la civiltà occidentale e quindi cristiana. Su questo tema si è discusso, sabato scorso a Genova in un convegno organizzato da Alleanza Cattolica (si può seguire il convegno sui canali youtube dell’associazione, Cancel culture. Dalla “battaglia delle idee” alla “guerra culturale. Tra un mondo che nasce e uno che muore”.).

“Cosa hanno in comune la sospensione di un corso di Dostoevskij durante la guerra in Ucraina, la proposta di abolizione del Columbus Day e la rimozione, lo sfregio o l’imbrattamento di molte statue di personaggi storici del passato?

Sono tutti frutto di quella che viene definita “cancel culture”, cancellazione della cultura”. Questa è la premessa di presentazione del convegno.

Un tema di attualità che si è approfondito nel convegno organizzato da Alleanza Cattolica, in programma a Genova, presso Palazzo Ducale, nella splendida cornice del Salone del Minor Consiglio, sabato 19 marzo. I lavori del Convegno, presentati da Marco Dufour, sono stati aperti dal Reggente Nazionale di Alleanza Cattolica, Marco Invernizzi, che ha esposto il motivo per cui viene data tanta importanza all’argomento. Che cosa è la “cancel culture”, la fase terminale di un processo plurisecolare che ha avuto come obiettivo la distruzione della civiltà costruita in Europa dalla prima evangelizzazione cristiana (IV-XIV secolo). Una civiltà particolarmente visibile attraverso il patrimonio artistico del Bel Paese, ma anche percepibile nelle relazioni, nelle istituzioni, nei costumi. Realtà che nei secoli più recenti sono state progressivamente emarginate dalla vita pubblica.

Rispetto al ’68, il cui scopo era cambiare l’uomo, entrando nel cuore delle persone e recidendo ogni legame naturale e sociale, la “cancel culture” fa un passo in avanti. Vuole infatti imporre una radicale cancellazione del passato, come se non fosse mai esistito. Una totale rimozione della memoria delle proprie radici. Nulla di meno.

Non è questione solo di qualche statua imbrattata, - afferma Invernizzi - non è questione dell’eliminazione dello studio della Storia o dell’uso di criteri odierni per giudicare il passato, che è la prima cosa che lo storico non dovrebbe fare, né si tratta di offrire una narrazione che conduca al disprezzo delle civiltà trascorse.

Si tratta di cancellare la memoria delle proprie radici, di trovare il modo di cancellare definitivamente nella testa e nel cuore di ciascuno di noi quell’idea che è esistito un altro modo di vivere rispetto a quello contemporaneo. E il modo in cui vuole operare la cancellazione è particolarmente violento: il passato non deve più esistere. La rivoluzione lo ha cancellato perché l’uomo nuovo ha finalmente preso possesso di tutta la realtà anche del passato e del giudizio sul passato.

Si tratta di una forma di gnosticismo moderno, secondo la felice intuizione del filosofo austriaco Eric Voegelin, in un libro “Il Mito del Mondo Nuovo”, come spiega questo autore, “la violenza era necessaria a questi movimenti gnostici moderni per imporre la Rivoluzione a uomini refrattari, capitò durante la Rivoluzione Francese, a tutti quelli che si ostinavano a non accettare i principi dell’89 elaborati a Parigi, capita anche oggi a tutti quelli che non accettano i principi elaborati nelle centrali del potere del pensiero unico. Ma – precisa Invernizzi – la violenza può essere esercitata anche in altri modi, per esempio privando forzatamente i giovani dell’accesso alle radici spirituali e culturali, oppure imponendo di fatto un divieto di fare domande, come spiegherà dopo il professore Boghossian. Nel sistema universitario americano, dove lui ha insegnato, è passata l’idea che fare delle domande è pericoloso. In Italia sono arrivate le prime avvisaglie del Cancel culture, riguardano principalmente l’ambito accademico.

Ecco perché è compito di un’associazione che svolge un apostolato culturale come Alleanza Cattolica denunciare il pericolo, anzitutto descrivendolo e quindi cercando d’indicare delle vie di uscita dalla crisi - non semplici da trovare - nella quale si trova il mondo occidentale.

È doveroso provarci, continuando a coltivare l’esigua forma di vita che sopravvive nel corpo devastato dalla malattia e che sta morendo, perché da essa possa nascere una nuova esistenza, robusta e duratura. Un mondo che nasce dentro un mondo che muore.

Sostanzialmente, il convegno si prefigge tre percorsi di “recupero”.

Il primo riflette sul ritorno a una discussione sulla verità e sul senso delle istituzioni universitarie, anche come esito di un itinerario che rischia di degradarle a mera formazione professionale o luogo di vacuo esercizio retorico.

Il secondo vede nelle lingue, e nelle reazioni a certi sforzi di modificarne le strutture per ragioni ideologiche, un luogo di “resistenza” e ancoraggio al bene comune che esse rappresentano e promuovono.

Il terzo percorso è una via pulchritudinis (“via della bellezza”): un rinnovato interesse per l’arte e la bellezza possono aiutarci a riconsiderare le culture e la loro storia in un modo più adeguato e tale da riconoscere la bellezza come elemento d’incontro con il senso della realtà e della vita.

A partire da questi tre percorsi, due conclusioni sono offerte.

Anzitutto un recupero dell’essenziale nelle pratiche educative, che riprenda la traiettoria del Trivio individuata al termine dell’Impero Romano, in un’epoca di grandi incertezze e profonde trasformazioni, per molti aspetti simile alla nostra. Il Trivio, infatti, sottolineava che una persona ben formata dovesse saper pensare bene (Dialettica/Logica), saper comunicare in modo comprensibile agli altri (Grammatica), e in modo tale da esser loro gradito (Retorica).

La seconda conclusione richiama a un antico libro della Bibbia, il Libro di Neemia, in cui si racconta di come gli ebrei, tornati dall’esilio babilonese, ricostruirono le mura di Gerusalemme (circa 445-432 a.C.): “Quelli che costruivano le mura e quelli che portavano o caricavano i pesi, con una mano lavoravano e con l’altra tenevano la loro arma; tutti i costruttori, lavorando, portavano ciascuno la spada cinta ai fianchi” (Neemia 4, 10-12).

Questo racconto ricorda come tutti noi abbiamo il compito sia di denunciare le derive anti-umane di certe ideologie, sia di lavorare per costruire un mondo migliore.

Successivamente all’intervento di Marco Invernizzi, ha preso la parola, il Sindaco Marco Bucci, che ha sottolineato come questa offensiva culturale di cancellazione del passato ha colpito in particolare la città di Genova. E riferendosi all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, «Abbiamo protestato con tutte le città americane in cui è successo. È totalmente inaccettabile e non mi rassegno alla cancel culture, specie quando riguarda un nostro illustre concittadino», tuona il sindaco di Genova, Marco Bucci, nel Salone del minor consiglio di Palazzo Ducale, a Genova.

Dopo il sindaco è intervenuta Laura Boccenti, già docente di storia e filosofia e dirigente scolastico nei licei. La sua relazione ha lo scopo di individuare le radici culturali, ideali, l’origine del fenomeno della Cancel culture.

Subito dopo inizia la tavola rotonda, moderata da Domenico Airoma, Airoma, vice vicario di Alleanza Cattolica, vice presidente del Centro Studi “Rosario Livatino”, attualmente procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino. Tavola rotonda, purtroppo un po' anomala, perché i partecipanti non erano presenti, ma collegati in streaming. L’esponente di Alleanza Cattolica, prima di dare corso alla tavola rotonda ha fatto una sintesi sulle relazioni esposte precedentemente.

Il movimento della Cancel culture si propone di cancellare una cultura, quella cristiana, che ha prodotto una civiltà cristiana, che a sua volta ha animato l’Occidente, su una ben precisa concezione dell’uomo. Cancel cultur significa cancellare l’anima di un mondo.

Il primo intervento è del professore Peter Gregory Boghossian del mondo accademico statunitense, già professore di filosofia all’Università statale di Portland, vittima della Cancel culture. Altra persona scomoda che è intervenuta è la professoressa Paola Mastrocola, che recentemente insieme a Luca Ricolfi, ha scritto “Il Danno Scolastico” (La Nave di Teseo). La Mastrocola che ha scritto brillanti testi di sana polemica sulla Scuola italiana, in poco tempo ci ha offerto un inno alla libertà artistica contro ogni tipo di dispotismo.

Subito dopo è intervenuto il giornalista del Foglio, Giulio Meotti, che da tempo segnala quello che sta accadendo soprattutto oltreoceano, denunciando le prime vittime di questa sistematica cancellazione o annientamento di opere e uomini che fanno riferimento alla tradizione al passato. In una decina di minuti è riuscito a spiegare bene quello che è la nuova ideologia che stiamo esaminando. Soprattutto Meotti ci ha offerto una vera e propria “galleria degli orrori”, come poi dirà Orsina. La migliore definizione di Cancel culture l’ha data uno scrittore francese dice Meotti, questi nuovi giacobini della Cancel culture sono come i talebani che nel 2001, hanno fatto saltare le due grandi statue di Buddha di Balyan.

In pratica c’è una visione colpevolizzante e mortificante di tutta la storia europea, e un potente odio di sé. Tuttavia, quando parliamo di Cancel culture, il nostro pensiero va all’abbattimento delle statue, in Inghilterra si abbatte di tutto, recentemente si è cancellato anche il nome di David Hume, il padre dell’Illuminismo scozzese. Oggi in Inghilterra non c’è un grande che non viene messo in discussione. Inoltre, la guerra in Ucraina ha causato la cancellazione di tutto quello che fa riferimento alla Russia. Tutti i grandi musicisti russi del Novecento sono stati cancellati.

Notizia dell’ultima ora, tutte le scuole francesi che portavano il nome di Aleksandr Solgenicyn, sono state cancellate, nonostante era un dissidente che si è fatto anni di gulag siberiano, però era un conservatore, cristiano slavofilo e negli ultimi anni amico di Putin.

Meotti ha ricordato il grande significativo discorso ad Harward di Solgenicyn nel 1978 quando questo gigante del dissenso, venuto da Est in Occidente, lui che veniva dall’inferno, disse agli americani, guardate che voi non vivete nel paradiso, ma nel purgatorio e avete perso il coraggio intellettuale.

Airoma, presentando il professore Luca Ricolfi, sociologo e professore all’Università degli Studi di Torino, Presidente della Fondazione David Hume, viene posta la domanda, su come si possa uscire dall’ideologia della Cancel culture e del danno scolastico, per quest’ultimo, per Ricolfi, probabilmente non c’è nessuna possibilità per riparare il danno che è stato fatto a intere generazioni di studenti italiani, non c’è nessuna via di uscita. Ricolfi è categorico: una riforma della scuola italiana non ha nessuna probabilità di riuscita. La maggioranza delle famiglie italiane non sono interessate alla trasmissione culturale per i propri figli. Il professore evidenzia un fattore importante, la interruzione della trasmissione culturale nei confronti degli studenti italiani ha danneggiato soprattutto i ceti popolari.

Poi il professore si è soffermato sul rapporto tra politicamente corretto e Cancel culture. In realtà il politicamente corretto non è più un fenomeno omogeneo, ma una costellazione di fenomeni, che ormai costituiscono come una grande piovra con tanti tentacoli. Ricolfi ha classificate ben cinque mutazioni del fenomeno. Per esempio, c’è il tema del mixgender definito dal professore, “follemente corretto”. Interessanti le riflessioni sulla censura che ormai raramente viene dall’alto, ma viene dal basso, o quelle sulla comunicazione.

Il penultimo intervento è di Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma. Orsina ha trattato il ruolo della politica nella Cancel culture, che è una specie di colabrodo, l’ultimo aspetto della Rivoluzione.

L’ultimo intervento è di Lorenzo Cantoni, professore all’Università della Svizzera italiana di Lugano, che in un mondo in frantumi, come il nostro, mostra come è bello vivere senza menzogna; il titolo della sua splendida relazione è “La Verità e la Bellezza per non arrendersi”.

 

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“Arcipelago Gulag di Aleksandr Solgenitsin, I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, Gulag di Anne Applebaum, Koba il terribile di Martin Amis, Il Grande Terrore di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine di Robert Conquest, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, La società aperta e i suoi nemici di Karl Raimund Popper, Prigioniera di Stalin e Hitler di Margarete Buber-Neumann, Il corsivo è mio di Nina Berberova, Ritorno dall’Urss di André Gide, Tutto scorre di Vasilij Grossman, Il passato di un’illusione di François Furet, L’epoca e i lupi di Nadezda Mandel’stam, tutte le opere di Osip Mandel’stam, tutte le opere di Marina Cvetaeva, tutte le opere di Anna Achmatova, tutte le opere di George Orwell, L’uomo in rivolta di Albert Camus, La mente prigioniera di Czeslaw Milosz, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, Commissariato degli archivi di Alain Jaubert, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Il dio che è fallito di Koestler, Silone, Wright, Gide, Spender, Fisher, Novecento il secolo del male di Alain Besançon, I fantasmi di Mosca di Enzo Bettiza, Il regime bolscevico di Richard Pipes, Togliatti 1937 di Renato Mieli, Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, Autobiografia 1945-1963 di Emmanuel Le Roy Ladurie, Nemici del popolo di Nicolas Werth, L’utopia al potere di Mihail Geller e Aleksandr Nekric, Stalin di Boris Souvarine, La scheggia di Vladimir Zazubrin, Viaggio nella vertigine di Evgenia Semionovna Ginzburg, Lettere a Olga di Vaclav Havel, Cime abissali di Aleksandr Zinoviev, tutte le opere di Milan Kundera, Il tempo della malafede di Nicola Chiaromonte, la collezione completa della rivista «Tempo Presente», Intervista politico-filosofica a Lucio Colletti, Atlante ideologico di Alberto Ronchey, Storia delle democrazie popolari di François Feijto, La nuova classe di Milovan Gilas, Due anni di alleanza germano-sovietica di Angelo Tasca. Tutte le opere di Filippo Turati”.

Questo elenco, preparato da Pierluigi Battista e pubblicato sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2021, viene riproposto da Roberto Pertici, che insegna Storia contemporanea all’Università di Bergamo, in apertura dell’ultimo suo libro È inutile avere ragione. La cultura “antitotalitaria” nell’Italia della prima Repubblica edito da Viella nel novembre 2021 e che, dopo un primo capitolo dove l’autore fa delle osservazioni introduttive che, sole, meritano l’acquisto del volume, ripropone sei saggi pubblicati tra il 2003 e il 2017. L’elenco di Battista rappresenta quello che è stato in Italia l’oblio culturale del fenomeno “comunismo” e a riprova, entrate in una libreria e provate a cercare due/tre titoli tra quelli citati qui sopra! Sarà molto difficile. Perché? Perché «queste opere (…), non hanno mai ottenuto una vera cittadinanza in Italia (…) non sono divenute parte integrante di quel “senso comune storiografico” con cui ragiona da noi il cosiddetto “pubblico colto” (ammesso che esista)». Giudizio senza appello, questo di Pertici?

Ma come è potuto succedere tutto questo?

Ho cercato di spiegarlo nel libro. La presenza nell’Italia di un forte e abile Partito comunista, che aveva svolto un ruolo importante nella Resistenza e nell’elaborazione della Costituzione, ma che al tempo stesso non ha mai interrotto il suo rapporto organico con l’URSS e col comunismo internazionale (almeno fino al 1981, cioè alla vigilia del crollo di quel mondo) ha impedito che l’anticomunismo democratico entrasse nella coscienza del paese. La cultura comunista (assecondata, si deve dire, da quella post-azionista e anche da quella dossettiana) ha presentato l’anticomunismo come l’anticamera del fascismo: ogni posizione anticomunista rischia oggettivamente (ecco l’aggettivo magico) di aprire la strada alla destra, questo il suo motivo ricorrente. E siccome, per quella cultura, destra e fascismo sono la stessa cosa (non esiste, cioè, una destra democratica), il cerchio si chiudeva e si chiude.

Si può affermare che l’Italia è una repubblica fondata sull’antifascismo?

Certo che si può affermare, ma si dovrebbe aggiungere dell’antifascismo democratico, perché all’interno del fronte antifascista era presente anche il comunismo staliniano: la società che gli stalinisti avevano in mente era, per molti aspetti, anche peggiore di quella fascista. Era inevitabile che la nuova Repubblica democratica si costruisse un pedigree: alcune forze (liberali, socialisti riformisti, repubblicani, ma anche De Gasperi e gli uomini della generazione popolare) proponevano di risalire anche alle tradizioni liberali e democratiche del Risorgimento, con ragione, aggiungo io. Ma hanno vinto coloro che volevano allontanare e negare il retroterra risorgimentale, sottolineando lo sbocco fascista dello Stato post-risorgimentale: comunisti, azionisti e dossettiani.

Anche a trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica questo (antifascismo) è ancora necessario?

È necessario come una componente fra le altre di una cultura democratica, che dovrebbe circolare nelle scuole e nell’opinione pubblica italiana: ma questa cultura è molto più vasta e molto più antica dell’antifascismo. Va dall’umanesimo cristiano di Erasmo al costituzionalismo sei-settecentesco di Locke e Montesquieu, al liberalismo ottocentesco di Tocqueville e di Cavour, al socialismo umanitario e riformista fra Otto e Novecento. E all’anticomunismo democratico di De Gasperi (in Italia), di Orwell, Camus, Aron a metà Novecento, fino alla cultura del dissenso dei paesi dell’est, da Solženicyn a molti degli autori citati da Battista. Ma i comunisti sono stati sempre estranei a tutta questa cultura: ammettere che essa avesse ragione, significava negare 70 anni di comunismo in Italia e nel mondo. E questo non se lo potevano permettere, non potevano permettersi di dire: scusate! Abbiamo sbagliato tutto fin dall’inizio. Ecco allora la centralità dell’antifascismo nella loro visione: l’unica stagione in cui potevano dire di “avere avuto ragione”. Ed ecco allora l’assolutizzazione del fascismo e la sua riproposizione come spettro immanente della politica italiana, contro cui mobilitarsi e rinnovare l’union sacrée dell’antifascismo militante.

Cosa intende per cultura “antitotalitaria”?

L’ho scritto nel libro: “Antitotalitaria” è stata (in Italia e non) quella cultura che ha sempre coniugato un radicato antifascismo con un altrettanto radicato anticomunismo.  Al suo interno era convinzione diffusa che l’esperienza fascista fosse morta per sempre e che il vero problema delle democrazie del dopoguerra consistesse nella lotta culturale e politica contro il mondo comunista, non solo là dove ormai era già “sistema”, ma anche nelle sue propaggini occidentali: bisognava, quindi, mutare spalla al proprio fucile.  In questo modo la pensavano più o meno i cattolici della generazione degasperiana, i socialisti democratici e riformisti, i cold war liberals di diverse origini e vari orientamenti.  Detto altrimenti: cattolici non integralisti, liberali non laicisti e socialisti non massimalisti. Il problema fondamentale di ogni cultura democratica novecentesca è stato quello di mantenere il giusto equilibrio fra il momento antifascista e quello anticomunista. Così la più consapevole cultura “antitotalitaria” del primo ventennio dopo la guerra cercò di evitare un anticomunismo che spingesse alla creazione di un fronte unico con l’estrema destra monarchica e post-fascista o con le forze sociali più conservatrici:  di differenziarsi quindi da un «anticomunismo negativo – come lo avrebbe definito Augusto Del Noce -  che pensa come ideale alla costituzione di un blocco generale delle forze anticomuniste, che inevitabilmente sarebbe un blocco di interessi anziché di idee» e che spesso riduceva il comunismo «a un fenomeno fronteggiabile con provvedimenti di polizia». Mentre per Del Noce e per quelli che la pensavano come lui, il comunismo costituiva una sfida di alto profilo, anche perché convogliava alcune delle tendenze di fondo della cultura contemporanea, e quindi esigeva una risposta adeguata.

La cultura di cui parlo in questo libro operava, in modo più o meno esplicito, una distinzione di grande rilievo e, a parer mio, degna di essere mantenuta: fra l’antifascismo “storico” (pre-1945) e quello “ideologico” (post-1945). Si richiamava costantemente al primo, pur non prendendolo in blocco, essendo presenti al suo interno anche tradizioni non compatibili con la democrazia. Ma era estranea al secondo, che concepiva il fascismo come un pericolo eterno della politica italiana, contro il quale era quindi necessaria una mobilitazione permanente: concezione presente in varie forze (comunisti, socialisti, post-azionisti, cattolici dossettiani) fin dall’immediato dopoguerra.  L’antifascismo come ideologia altro non era che una «formula» (così la pensavano gli “antitotalitari”) funzionale a determinati disegni politici, anche se non sempre convergenti: la legittimazione del partito comunista come cardine della democrazia italiana, la condanna di ogni anticomunismo, l’illegittimità politico-culturale di una qualsiasi formazione alla destra della DC, come  anche delle correnti anticomuniste all’interno di quel partito, e talora – nelle frange della “nuova sinistra” – la critica radicale della repubblica nata da una Resistenza abortita e tradita.

È veramente “inutile avere ragione” o è sempre meglio che essere vissuti nella menzogna?

È una bella domanda: è chiaro che è meglio essere dalla parte della ragione, pur senza riuscire a farla vincere, questa ragione, piuttosto che vivere nella menzogna. Ma la testimonianza personale non basta e gli eredi della cultura antitotalitaria si dovrebbero interrogare anche autocriticamente sulle ragioni della propria emarginazione: insomma le lamentele, le polemiche retrospettive e le recriminazioni non sono sufficienti. La logica del we few, we happy few è fallace, sia sul piano politico che su quello culturale. Quando si perde, la prima cosa da fare è riflettere sui propri errori, non incolpare i complotti degli altri, o magari il destino cinico e baro. Lo insegnava ai suoi un grande maestro di politica come Togliatti: proprio questo suo realismo, questa sua consapevole opera di pedagogia politica e di formazione di un gruppo dirigente che imparasse a ragionare come lui, sono stati una delle chiavi del successo comunista nella società e nella cultura dell’Italia della prima Repubblica.

 

 

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