In attesa della pubblicazione della nuova enciclica di Papa Francesco“Laudato si”sull’ecologia e la manifestazione in difesa della famiglia del 20 giugno prossimo a Roma, ho letto e dunque presento un ottimo libretto che la Mondadori ha pubblicato qualche mese fa, “Cari genitori, cari bambini”, una miscellanea dei discorsi di Papa Francesco riguardanti l’importanza della famiglia e del matrimonio cristiano che deve durare per sempre.
Ho ricevuto il libro in dono di fine anno dai genitori dei miei bambini della scuola primaria. Per il suo linguaggio semplice, il testo, potrebbe essere utilizzato come ottimo strumento dagli insegnanti di Religione per far conoscere l’importante magistero di Papa Francesco anche ai bambini della scuola.
Stiamo vivendo un periodo storico difficile per la famiglia e per i suoi legami che si sfaldano sempre più. “Papa Francesco ci offre la testimonianza sapiente e paterna del suo magistero e ci regala parole di fede e incoraggiamento non solo per il nucleo familiare in genere, ma per ogni suo componente (dai genitori ai bambini ai nonni) in particolare”.
Il testo curato da Giuliano Vigini, pubblica una raccolta di discorsi, tenuti dal 2013 al 2015, da papa Francesco non solo sull’ambiente familiare, della sua centralità, degli affetti, la maturazione dei figli. Il Papa parla anche di chi danneggia la famiglia nel suo crescere e nel suo aprirsi al mondo. Scrive Vigini nella presentazione: “ci sono, in realtà, ostacoli e distorsioni che ne frenano o appesantiscono il cammino….”, Per questo l’umanesimo cristiano a cui punta Papa Francesco – che non si stanca mai di richiamare – è la ricostruzione di un’ecologia umana in cui l’uomo sia ricondotto alla sua integrità, unità e dignità di persona, e il creato, così sfigurato per tanti aspetti nei suoi equilibri, sia restituito alla sua bellezza e armonia”. Tra le tante tematiche affrontate dal Papa con energia e determinazione tipiche del combattente, quella della difesa della famiglia, è la battaglia più importante, “in cui si gioca il destino di tutti”. In questa battaglia, c’è proprio la famiglia cristiana ad essere chiamata a rendere testimonianza nella quotidianità dell’esistenza per rendere la società più giusta e solidale. Le famiglie cristiane che di fronte a quelli che brandiscono la “bandiera della libertà”, e sostengono la “cultura del provvisorio”, devono con la loro testimonianza, affermare la sacralità di una promessa che è per sempre e che è proiettata nel futuro.
Guardando alla famiglia di Nazaret, a Maria, madre esemplare che ascolta, decide e agisce, e a Giuseppe, uomo forte e di animo grande, i coniugi cristiani trovano il loro modello di fede e di speranza. I discorsi scelti da Vigini, riguardano spesso i temi connessi all’infanzia e alla vecchiaia.“Bambini e anziani rappresentano i due poli della vita e anche i più vulnerabili, spesso i più dimenticati”. Pertanto in una società dove pare trionfare una cultura di morte, come ben diceva san Giovanni Paolo II, mi sembrano profetiche le parole di Papa Francesco, pubblicate alla fine del libro: “Cari fratelli e sorelle, i bambini portano vita, allegria, speranza, anche guai. Ma la vita è così. Certamente portano anche preoccupazioni e a volte tanti problemi; ma è meglio una società triste e grigia perché è rimasta senza bambini!” A noi italiani, europei, la risposta. In Italia, ormai da tempo, siamo al suicidio demografico, non nascono più bambini, i giovani non si sposano, anzi non hanno più neanche il desiderio. Le conseguenze di questo rifiuto sono abbastanza tragiche, si pensi alle pensioni. Il futuro per gli italiani non promette nulla di buono.Ma ritorniamo al libro, il Papa lo sa che il matrimonio e la famiglia sono in crisi. “Viviamo in una cultura del provvisorio, in cui sempre più persone rinunciano al matrimonio come impegno pubblico”. Per papa Francesco, “Questa rivoluzione nei costumi e nella morale ha spesso sventolato la bandiera della libertà, ma in realtà ha portato devastazione spirituale e materiale a innumerevoli esseri umani. Specialmente ai più vulnerabili”. Pertanto il Santo Padre è convinto che il declino del matrimonio sta portando alla povertà e auna serie di numerosi problemi sociali, che colpiscono principalmente, le donne, i bambini e gli anziani.
Per Papa Francesco occorre insistere su questi pilastri fondamentali che reggono una nazione, purtroppo da decenni i nostri governi sia di destra che di sinistra non hanno capito l’importanza fondamentale della famiglia e dei figli. Il matrimonio per sempre e la famiglia naturale con figli allo Stato conviene. Occorre aiutare i giovani a superare soprattutto “la mentalità dannosa del provvisorio” e di avere il coraggio di cercare l’amore forte e duraturo, andando controcorrente.
Il Papa ci invita a non cadere “nella trappola di essere qualificati con concetti ideologici. La famiglia è un fatto antropologico, e conseguentemente un fatto sociale, di cultura”. La famiglia non è né conservatrice néprogressista, “la famiglia è famiglia!”.
Il Papa ci invita a non lasciarci condizionare dai concetti di natura ideologica. Infatti per la prossima manifestazione di Roma, sono stati invitati tutti, senza sigle partitiche o associative. A questo proposito monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, aderendo alla manifestazione promossa dal comitato “Difendiamo i nostri figli”. Stop gender nelle scuole”, in un comunicato ha detto “C’è la volontà di distruggere la radice profonda e culturale del nostro popolo. Quello che è in questione non è soltanto la difesa del grande tesoro della tradizione della famiglia cattolica - che è stata il soggetto vivo ed attivo per secoli della vita sociale -ma la possibilità di una libertà autentica della persona in tutte le fasi della sua vita, dalla nascita fino alla fine. Penso alla cura della libertà della persona come difesa della vita e della sua sacralità, come difesa di ciò che la natura ha stabilito per quanto riguarda la procreazione; ma anche alla difesa della libertà di educazione, che è strettamente connessa alla libertà della vita.
Tuttavia la difesa della famiglia deve interessare tutti.
Certo Papa Francesco è consapevole che al giorno d’oggi per formare una famiglia, ci vuole coraggio, le difficoltà sono tante, però occorre precisare che “i nostri nonni si sono sposati in condizioni molto più povere delle nostre, alcuni in tempo di guerra, o di dopoguerra…Dove trovavano la forza?”. E’ consapevole che essere genitori è faticoso, però bisogna trovare il tempo di giocare con i propri figli e soprattutto i nostri giovani che soffrono di orfandad, cioè di orfanezza, dice spesso il Papa. “I giovani sono orfani di una strada sicura da percorrere, di un maestro di cui fidarsi, di ideali che riscaldino il cuore, di speranze che sostengono la fatica del vivere quotidiano”.
I figli sono un dono di Dio, “una società avara di generazione, che non ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un peso, un rischio, è una società depressa”. Il testo offre tanti e importanti spunti di discussione come quello della presunta povertà delle famiglie numerose, per Papa Francesco, queste sono opinioni semplicistiche: “…la causa principale della povertà è un sistema economico che ha tolto la persona dal centro e vi ha posto il dio denaro; un sistema economico che esclude sempre i bambini, gli anziani, i giovani senza lavoro(…) e crea la cultura dello scarto che viviamo”. Termino con l’invito del Papa a difendere le famiglie dallenuove colonizzazioni ideologiche, che attentano alla sua identità e alla sua missione.
La poetessa e scrittrice Ester Cecere, tarantina di nascita, ma di cultura e mentalità cosmopolita e formazione accademica prettamente scientifica, rappresenta un felice caso di virtuoso contrasto.
Infatti, nella vita di tutti i giorni lavora come ricercatore presso il CNR sede di Taranto (Consiglio Nazionale delle Ricerche), occupandosi di biologa marina. A questa attività, che svolge con passione, rafforzata da un viscerale amore per il mare, affianca quella letteraria, ormai da qualche anno in continuo e fertile movimento.
Ha all’attivo la pubblicazione di tre libri di poesie: “Burrasche e brezze”(IL Filo Editore, Roma 2010), “Come foglie in autunno”(Edizioni Tracce, Pescara 2012) e la più recente “Fragile. Maneggiare con cura” (Kairòs Edizioni, Napoli 2014). Con queste tre opere, di potente impatto emozionale, Ester ha partecipato a numerosi concorsi letterari, attraverso i quali le sono stati conferiti importanti premi e riconoscimenti. Illustri critici letterari, spesso appartenenti a generi molto vicini alla poesia classica, si sono espressi sempre positivamente nei suoi riguardi: evidente dimostrazione che le sue poesie, in versi liberi e d’impronta vagamente ermetica, racchiudono un significato forte e diretto, di intrinseca simbologia.
In occasione di una recente presentazione della sua ultima fatica “Istantanee di vita” ho intervistato Ester, con la quale ho già parlato altre volte di poesia, un’arte letteraria che ci vede in piacevole affinità elettiva.
Ho letto con vero interesse i tuoi libri di poesie, nei quali si percepisce un crescendo di impronte emozionali, che rimandano ad una sofferenza dolce-amara spesso taciuta, sostituita da simbolismi espressi con eleganza, garbo ed un inconfondibile stile. La sensibilità è sempre sinonimo di travaglio interiore?
Ritengo che la sensibilità sia un aspetto caratteriale innato dell’individuo. Pertanto, alcuni individui sono più propensi di altri a percepire i problemi e le difficoltà del prossimo, così come sono più predisposti ad apprezzare le bellezze naturali ed artistiche. Sia le difficoltà proprie che quelle altrui, fin anche la bellezza della natura, possono suscitare in questi individui emozioni, suggestioni, anche di notevole intensità. Quindi, non penso che la sensibilità sia sempre e necessariamente sinonimo di travaglio interiore. Tuttavia, per quanto attiene alla mia personale esperienza, mi sento di affermare che la sofferenza interiore, causata da avvenimenti dolorosi vissuti in prima persona, ha sicuramente aumentato la mia sensibilità, portandomi ad immedesimarmi facilmente in coloro che soffrono e a provare per loro empatia ed anche a pormi domandi esistenziali, a cui è molto difficile dare una risposta. Del resto, Alda Merini scriveva:
“Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre coi ginocchi piagati… (da “Le più belle poesie” tratta dalla raccolta “Vuoto d’amore”).
Tutti noi viviamo in un’epoca difficile; l’umanità è disorientata, ha perso i punti di riferimento e con essi i sani valori esistenziali. In un contesto sociale di gravi difficoltà, che si ripercuotono anche nell’aspetto relazionale, quale dovrebbe essere il ruolo dell’arte ed in particolare della poesia?
La poesia ricopre ruoli diversi, a seconda che ci si riferisca all’autore o al lettore ed a seconda del genere poetico, vale a dire se si tratti di lirica o di poesia sociale . Nel primo caso, la poesia per l’autore ha un ruolo catartico; gli psicologi direbbero che rappresenta l’elaborazione del lutto. Nel secondo caso, la poesia diventa grido di ribellione, a volte vera e propria denuncia. Pensiamo alla celeberrima poesia di Pablo Neruda “Spiego alcune cose”, che il poeta scrisse quando era a Madrid, durante i sanguinosi avvenimenti della guerra civile da lui vissuti in prima persona, che lo sconvolsero profondamente. A mio avviso, alcune caratteristiche sono comuni ad entrambi i tipi di espressione; mi spiego, per l’autore la poesia è un’esigenza irrinunciabile; essa deve scaturire dal sentimento, in quanto non è mai il prodotto della ragione. Vorrei aggiungere che la poesia deve essere sempre “condivisibile”: ciò che il poeta enuncia deve poter essere valido per qualunque uomo, di una qualsiasi epoca, in una qualunque parte del mondo. Solo così la poesia assume un valore universale e immortale. Questo concetto è stato mirabilmente sintetizzato da Salvatore Quasimodo che affermò: “La poesia è la rivelazione di un sentimento che il poeta crede che sia personale e interiore, che il lettore riconosce come proprio”.
Il tuo ultimo libro di poesie “Fragile. Maneggiare con cura” parla delle umane fragilità, che esprimi attraverso efficaci allegorie. La poesia può essere un utile “strumento” di indagine introspettiva, volto anche a favorire l’elaborazione di tali debolezze dell’anima?
A questa domanda ho già in parte risposto. La poesia è senza alcun dubbio uno “strumento” di indagine introspettiva ma, più che all’autore stesso, è utile al prefatore attento, acuto, molto preparato, il quale riesce a scandagliare l’animo dell’autore leggendo i versi e “fra i versi”, come nel caso specifico del Prof. Nazario Pardini, e al lettore predisposto a leggere poesia. Quando il poeta si accinge a scrivere, raramente di getto, più spesso dopo aver “elaborato”, sentimentalmente mai razionalmente, cioè dopo aver lasciato decantare potremmo dire, una forte emozione, che sia dolore, malinconia, nostalgia, rimpianto o altro, non si pone il problema di “indagare” nel suo animo. Sente solo la prepotente esigenza di esternare quella sensazione. Sta poi alla sua abilità espressiva rendere condivisibile e universale l’emozione, o l’insieme di emozioni, che un avvenimento contingente ha suscitato in lui.
Mi colpiscono alcuni passaggi della recensione per la tua raccolta di poesie “Fragile. Maneggiare con cura” di Dalmazio Masini, presidente dell’Accademia Vittorio Alfieri, il quale afferma: “Oggi che la maggior parte dei poeti sembra continuare ad aspettare grandi eventi storici o grandi tragedie per gonfiare d’importanza i loro piccoli scritti…”. L’afflato poetico dovrebbe nascere dalle sedimentazione delle emozioni e non dalla razionalità. Secondo te, quest’ultima modalità non finisce per strumentalizzare la poesia?
Anche a questa domanda ho già in qualche modo risposto. Come ho poc’anzi precisato, la poesia non è il frutto della ragione. In più occasioni ho affermato, scherzando ma non troppo, che, a mio avviso, “la poesia sceglie” l’autore e il momento in cui “nascere”; non è l’autore che decide di scrivere una poesia. Si può, al contrario, entrare nell’ordine di idee di scrivere un racconto o un romanzo, decisione nella quale necessariamente entra anche l’elaborazione razionale. Per tornare al poeta e attore teatrale Dalmazio Masini, la sua bella recensione mi ha reso particolarmente felice per due motivi; il primo è dato dalla constatazione che un poeta che, come lui, scrive in metrica, abbia apprezzato una silloge scritta in versi liberi. Dalmazio Masini, inoltre, esalta la mia capacità di provare emozioni anche osservando le piccole, banali cose che ci circondano, quotidianamente sotto i nostri occhi e che nelle mie poesie sono divenute metafore o allegorie per esprimere le mie emozioni. Questa dovrebbe appunto essere una caratteristica del poeta la cui sensibilità, come già detto, è maggiore che negli altri.
Sempre in riferimento a Dalmazio Masini, un eccellente artista che da sempre predilige la poesia in metrica, egli ti ritiene poetessa di gran fascino, definendo la tua poesia “una gran poesia”, considerazioni autorevoli, che fanno la differenza, in quanto le vostre modalità espressive sono sostanzialmente distanti.
Dalmazio Masini è una persona molto preparata e ben comprende che la poesia per essere grande non deve necessariamente seguire le regole della metrica. La poesia deve emozionare. Del resto Giuseppe Pontiggia, parlando degli autori classici, aveva affermato che «si capisce qualcosa quando ci emoziona molto».
Sono tanti i poeti, indipendentemente dalla loro corrente filosofica, che da sempre cantano l’intimo rapporto con il dolore. Il loro virtuosismo sta proprio nella capacità di superare l’esperienza individuale, attraverso una visione cosmica del dolore, in una dimensione di profondo lirismo, all’interno della quale ognuno di noi si identifica. Qual è il poeta che meglio riesce a trasmetterle le tue sensazioni, entrando in intima relazione con la tua sfera emozionale?
I poeti con i quali mi sono sempre sentita in sintonia per quanto attiene al dolore, che da individuale diviene cosmico, in realtà sono due: Giacomo Leopardi e Giuseppe Ungaretti.
Il primo, da me molto amato sin da quando ero adolescente, mi ha sempre trasmesso con i suoi versi il profondo, angoscioso dolore che ha dato origine alla sua poesia, dolore di una infelicità dovuta alla perdita delle illusioni e alla conseguente fatica di vivere senza più alcuna speranza, il che portò Leopardi all' elaborazione del pessimismo cosmico. Tra le tante opere, la sua lirica a me più cara è "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia". In quelle domande accorate, rivolte alla luna, traspare tutto il dolore dell'uomo solo con la sua disperazione, (sensazione che ahimè ho provato anch'io diverse volte!), uomo tanto solo da chiedere aiuto alla luna stessa, per comprendere non soltanto il perchè dell’insoddisfacente condizione umana, ma anche e soprattutto il significato della vita. E il suo dolore l'ho sempre percepito come tangibile, un dolore irrimediabile, sfociato nella disperazione dell'ultimo verso: "E' funesto a chi nasce il dì natale". Ho sempre amato molto quel dialogo-soliloquio con la luna, che l'autore percepisce distante e indifferente alla condizione umana; eppure, tanta è la sua disperata solitudine, che egli arriva a personificarla, pur di poter dialogare con essa.
Per Ungaretti la comune percezione del dolore è differente. Egli è il soldato in trincea che può morire da un momento all'altro ("Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie"), che soffre per le atroci inutili morti e tuttavia, paradossalmente, gli fanno apprezzare la vita e l'amore ("Non sono mai stato/tanto/attaccato alla vita" da "Veglia"). Due percezioni del dolore completamente differenti tra loro anche per genesi, ma che sento molto vicine alla mia, in quanto, sia nel dipanarsi della sua vicenda terrena sia durante le guerre, l'uomo si trova spesso in balia di eventi che non riesce a fronteggiare e che vive, a volte, in disperata solitudine.
La tua ultima fatica è un’opera prima di narrativa dal titolo “Istantanee di vita”, una raccolta di brevi racconti, che fotografano efficacemente la quotidianità e si riferiscono a storie realmente accadute, in un alternarsi di stati d’animo, nei quali il lettore spontaneamente si identifica. La lettura ha letteralmente catturato la mia attenzione, pagina dopo pagina. Anche in prosa ritrovo un tuo personale registro artistico, che viaggia con sobrietà sulle ali delle emozioni. Come è nata in te l’esigenza di esprimerti in prosa?
Così come per la poesia, (scrivo poesie da quando avevo quattordici anni), ho sempre avuto una certa propensione anche per la prosa; quando frequentavo le scuole elementari, scrivevo fiabe. Dopo tre libri di poesie, ho sentito l'esigenza di fermare su carta episodi realmente accaduti, insoliti, drammatici o divertenti, che rappresentano la varietà delle situazioni che la vita ci riserva. Sono "istantanee" di vissuto sui quali, tuttavia, raramente ci soffermiamo e che, invece, potrebbero offrirci molteplici spunti di riflessione. Per incuriosire il lettore, ma anche per dare alla narrazione un respiro più ampio, ho ritenuto opportuno far precedere ogni racconto dalla citazione di uno scrittore, giornalista o filosofo, che ha lo scopo di introdurre il lettore al tema della riflessione.
La descrizione dei racconti, con forti richiami al verismo, è accurata e puntuale ed è interessante la tua attenzione rivolta all’ambiente, che andrebbe salvaguardato a tutela delle future generazioni. Qual è nel merito l’essenza del tuo messaggio?
La mia prosa è piuttosto asciutta, talvolta volutamente cruda per rendere la realtà delle situazioni e per far vivere al lettore le stesse sensazioni del protagonista. Non amo le descrizioni eccessive, ho una forte tendenza alla sintesi, come nella poesia del resto. Come biologa marina, interessata allo studio e alla salvaguardia dell'ambiente marino, non ho resistito alla tentazione di inserire due racconti, ispirati sempre a episodi realmente accaduti, che portassero all'attenzione del lettore la gravità delle conseguenze della nostra mancanza di attenzione verso i problemi legati alla tutela ambientale. In sintesi, il messaggio è il seguente: il mondo in cui viviamo, non lo abbiamo ereditato dai nostri genitori, lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli e le azioni che compiamo, o non compiremo, si ripercuoteranno inevitabilmente sulle generazioni future.
Alla tua esigenza di un’incessante ricerca interiore, che fruga fra i tumulti dell’anima, si interpongono momenti di ampio respiro, nei quali si percepisce speranza e rinascita. Ritieni sia corretta la mia chiave di lettura?
La tua chiave di lettura è sicuramente corretta. La mia poesia, generalmente, dipinge abissi di disperazione e un buio assoluto, nel quale l’anima tormentata si sperde. Tuttavia, in ogni raccolta edita, alcune liriche aprono sempre un varco alla speranza. A mo’ di esempio, cito “La lampara”: Anche quest’altra fune s’è spezzata/e sono nell’antico mare./La sola luce di questa lampara/le nere acque rischiara/e con essa troverò forse la sponda (da Burrasche e Brezze, Il Filo, Roma 2010).
E ancora “L’arca”: Sottocoperta,/scampoli felici /e briciole d’amore./Zolle di terra profumata /e qualche seme/sulla prua,/ché al ritorno del sole/i fiori sboccino ancora (da Come foglie in autunno. Edizioni Tracce, Pescara 2012).
Per finire, ricordo “Canto alla vita, nonostante”: Se morissi ora/più/non m'illuminerei /dell'accecante bagliore/che d'azzurro esplode./Più/non volerei contro vento/al fianco di arditi gabbiani./Più/non mi cullerebbe del mare/lo sciabordio fraterno./Ch’io viva/godendo/di notti senza luna./Ch’io viva/fremendo/allo schiaffo del maestrale./Ch’io viva/apprezzando/il volo basso dei pipistrelli. (daFragile. Maneggiare con cura, Kairòs Edizioni, Napoli, 2014).
La speranza di poter superare le avversità, il dolore che esse stesse, ma anche la malignità e la cattiveria del prossimo ci causano, non deve mai abbandonarci, deve essere il nostro bastone. Senza speranza e senza rinascita, (da Crisalide in farfalla/mi trasformerò/per volare almeno un giorno da “Per volare almeno un giorno” tratta dalla raccolta Fragile. Maneggiare con cura”), non si può continuare a vivere. E nel trovare la forza per andare avanti, “nonostante”, la poesia è una efficace forza trainante per l’autore, che riesce a consolarsi anche con una goccia di rugiada, nella quale vede la forza inarrestabile della Vita, e per il lettore. Tanto è confermato dalla lirica brevissima, eppure di grande potenza evocativa, scritta all’alba da Giuseppe Ungaretti dopo l’ennesima notte trascorsa in trincea, “Mattina”: M’illumino d’immenso”.
La porta alla speranza resta aperta anche nei racconti della raccolta “Istantanee di vita”, ma non voglio fare anticipazioni, per non togliere la sorpresa al lettore, che avrà la bontà di acquistare il libro.
Un importante, avvincente appuntamento il prossimo 18 giugno 2015 alle h 18.00, presso il bookstore Mondadori di via del Pellegrino, 94 (Roma), dove avrà luogo la presentazione del libro “Tra le argille del tempo” (David and Matthaus Edizioni), l’ultima fatica letteraria dell’eclettico Giuseppe Lorin il quale, nella sua interessante carriera artistica, ha sempre posto l’accento su tematiche socio-culturali di una certa rilevanza.
L’artista, che ama definirsi “uomo di cultura”, è attore, poeta, regista, critico letterario, autore, romanziere, conduttore e giornalista.
Il romanzo “Tra le argille del tempo”, di genere “postfantastorico”, assolutamente innovativo nell’attuale panorama editoriale, colpisce per la sua singolarità e trova la sua ambientazione a Roma, partendo dalla notte dei tempi, quando i villaggi che sorgevano sulle colline circostanti il fiume Tevere, (al quale non era stato ancora assegnato questo nome), per motivi legati alla difesa e all’economia e per contrastare le calamità naturali, iniziarono un processo di aggregazione, dando vita ad entità sociali numericamente consistenti, progredite e profondamente rispettose e zelanti verso l’insieme di culti, tradizioni e costumi propri, che costituirono un fenomeno sociale nell’Antica Roma, reso complesso dal sincretismo religioso, frutto dalla confluenza delle diverse pratiche religiose degli abitanti dei villaggi.
Così, il ventuno aprile del 753 a.C. nacque Roma, la prima grande metropoli dell’umanità, destinata ad influenzare la società in tutti gli aspetti afferenti alla cultura, la filosofia, il diritto, la religione ed i costumi nei secoli successivi.
A tale riferimento, un significativo passaggio del romanzo: “A nord e a sud di quel corso d’acqua, le diverse genti autoctone, gli aborigeni figli della terra, rudi creature scaturite da querce e da lecci, dalla congiunzione fra la terra e il cielo o provenienti da lidi lontani, si mischiavano tra loro o si alternavano, falcidiate dalle carestie. Il loro idioma era un miscuglio di lingue, aveva suoni arcaici con predominanza del latino o greco. I loro canti erano eseguiti con suoni gutturali, barbariche erano le danze ritmate da strumenti a percussione in un clima sacrale”.
Quindi, un viaggio itinerante storico-culturale, all’interno del quale l’autore riesce efficacemente a rappresentare le umane fragilità, nel rispetto di una verità fatta di memoria intrisa di significativi spunti storici, fino ad arrivare al presente, dove la contingenza offre indicazioni sugli eventi che apparterranno possibilmente al futuro.
I protagonisti, persone assolutamente reali, si rapportano con la tangibilità e le amare concretezze della vita quotidiana, fra difficoltà, troppe delusioni e scarse, improbabili gratificazioni.
Solo i loro sogni di scoperte, da comunicare alle Autorità ed ai cittadini, concedono attimi di respiro e speranza a Otto e Miky, i quali intraprendono questo intrigante viaggio nella storia, affrontando mille ostacoli nel rapportarsi ad amministratori avulsi da qualsiasi interessi verso la ricerca delle nostre radici culturali ed, al contrario , propensi a cancellare i simboli, le tracce del passato nelle varie zone di Roma, pur di favorire, senza troppe esitazioni, altre esigenze urbane.
Interessante l’approccio dei due protagonisti con i reperti e quant’altro riescano a portare alla luce, nel comune impegno di dare la corretta valorizzazione all’intrinseco significato in essi racchiuso.
In un passaggio del romanzo, profonde riflessioni sull’elaborazione del pensiero: “Ci sono momenti in cui rimango in silenzio ad ascoltarmi… E’ in quei momenti che fabbrico i miei pensieri più veri, le congetture della storia… fantastico sul mondo di un tempo, salgo in un sogno e s’incendia la memoria”.
Attraverso questo libro, Giuseppe Lorin riesce a svelare l’uomo e i suoi inganni, gli amori, i rapporti a volte conflittuali con i propri simili, gli insospettabili segreti, nell’esercizio del libero arbitrio, foriero di piccole e grandi decisioni, in un quotidiano che ci unisce, nella sua unicità.
Questi sono i motivi che rendono il romanzo “Tra le argille del tempo” originale, di forte impatto e notevole spessore culturale, fra episodi di esistenze e di verità, che nel tempo di consumano come argilla, correndo il rischio di essere cancellati, se non interviene l’opportuno ingegno umano, incontrovertibile responsabile e depositario della conservazione della “memoria storica”.
BIOGRAFIA:
Giuseppe Lorin ha conseguito il diploma presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, e si è specializzato presso l’International Film Institute of London con Richard Attemborough.
Laureato in Psicologia presso “La Sapienza” di Roma, è giornalista iscritto alla “Free lance International Press”e collabora con diverse testate giornalistiche.
Vicepresidente dell’A.P.S. “Le Ragunanze”, è specializzato in Marketing & Pubblicità presso l’Università “Bocconi” di Milano, è docente di dizione e recitazione ed ha vinto vari premi e riconoscimenti.
E’ presente nel sito ufficiale di Pier Paolo Pasolini con sue poesie, articoli, interviste ed il testo teatrale “Scartafaccio, liturgie pasoliniane”.
Infine, oltre al libro “FRA LE ARGILLE DEL TEMPO”, prossimo alla sua presentazione, egli è autore di “MANUALE DI DIZIONE”, con prefazione di Corrado Calabrò e Dacia Maraini e “DA MONTEVERDE AL MARE, IL VALORE CULTURALE E ARTISTICO IN UN’AREA STORICA DI ROMA”, con prefazione del Principe Jonathan Doria Panphili.
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