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12 aprile 1927 è un martedì. Quest'anno l'anniversario della sua morte è stato il giorno della resurrezione. Il medico dei poveri, San Giuseppe Moscati nasce nel 1880,130 anni fa, e muore il martedì santo dell'aprile del 1927. Preludio di quella santità che verrà ufficializzata da San Giovanni Paolo II nel 1987. Il giorno della sua festa, il 12 aprile, si recita la preghiera di guarigione per gli ammalati e mai come in questo momento è più opportuna. 

Moscati si laurea in medicina il 4 agosto 1903 e subito entra negli Ospedali Riuniti degli Incurabili diventandone primario nel 1919 dopo che, per restare tra i suoi malati, aveva rinunciato alla cattedra universitaria e all'insegnamento (1917). La libera docenza arriva ugualmente nel 1922 grazie ai suoi titoli che lo esonerano dalla prova pratica e dalla lezione tale era infatti la sua fama. Muore a soli 46 anni e nel 1930 i suoi resti sono traslati nella chiesa di Gesù Nuovo o della Trinità Maggiore nel centro di Napoli. Chiesa barocca dei Gesuiti con all'interno numerose cappelle, la seconda della navata di destra è dedicata a San Giuseppe Moscati e a sinistra dell'altare si accede all’oratorio del santo dove è possibile vedere libri, foto, rosari, gli arredi della stanza da letto e dello studio che la sorella ha donato ai Gesuiti di Napoli. 

Il medico Moscati sosteneva lo stretto rapporto tra scienza e fede e come ricercatore e scienziato aveva ben presente che l'unica scienza incrollabile era quella rivelata da Dio. Tutto il resto andava indagato e continuamente sottoposto a critica e ricerca. Una particolare attenzione metteva nell'insegnamento pensando alle "qualità dei futuri medici, prendendo anche pubblica posizione affinché non venisse in alcun modo mortificata la loro preparazione e e formazione". Così si esprime San Giovanni Paolo II durante l’omelia del rito di canonizzazione del 25 ottobre 1987. In quell'occasione il Santo Padre evidenzia anche la novità nell'approccio medico-paziente: "Il calore umano con cui il Moscati visitava premurosamente i malati, specie i più poveri e abbandonati (…) era tale che la gente lo cercava; il suo tratto era ricco di quella bontà rispettosa e delicata, che Gesù Cristo diffondeva intorno a sé quando andava per le strade della Palestina facendo del bene e sanando tutti (cf. At 10,38). Fu quindi anticipatore e protagonista di quella umanizzazione della medicina, avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata attenzione e assistenza a chi soffre". Medico, primario ospedaliero, ricercatore, docente universitario di fisiologia umana, e di chimica fisiologica, ma anzitutto il medico dei poveri e dei bisognosi. Vicino al suo cappello su una sedia del suo studio c'era e ancora si può vedere una scritta: "chi ha metta, chi non ha prenda". Questo era lo spirito del servizio di Moscati e questa frase l'abbiamo vista riproposta su un cesto con dei cibi per chi è nella necessità nella sua Napoli al tempo del coronavirus: la sua eredità è viva. 

San Giuseppe Moscati prega per noi.

Francesco è il Papa che più conosce le donne. Le ha frequentate da arcivescovo a Buenos Aires, le ha incoraggiate come nessuno prima in Vaticano. Bergoglio conosce la sofferenza di tante donne che hanno lottato: per ritrovare figli, parenti, per rivendicare i propri diritti, per liberarsi dagli sfruttatori, per guadagnare la dignità.

E conosce anche le donne che, fuori e dentro la Chiesa, operano per un movimento dal basso che conduca a una rivoluzione gentile grazie alla quale le donne non siano più schiave, in nessun ambito, ma consapevoli portatrici di contributi autentici e singolari nella società. A partire dagli interventi più significativi del Papa, il volume ripercorre il particolare legame e l’attenzione di Francesco nei confronti dell’emisfero femminile: da alcune nomine importanti ai vertici della Curia romana al richiamo per cui le suore non siano più confinate nel ruolo di “badanti” dai grandi temi femminili – come il femminicidio, l’aborto, la tratta delle schiave – alle storie che hanno avuto, spesso dietro le quinte, protagonisti proprio Francesco e tante donne battagliere.

Il Papa delle donne Di Nina Fabrizio Prefazione di Alessandra Smerilli Post fazio nefi Giulio Maira In occasione dei 7 anni di pontificato di papa Francesco, è uscito il 21 febbraio in libreria un volume che per la prima volta affronta in modo completo il rapporto di Bergoglio con le donne della chiesa Del resto, Bergoglio è il Papa che non perde occasione di ricordare continuamente che la Chiesa è “donna”.

Nina Fabrizio, Francesco. Il Papa delle donne, Edizioni San Paolo 2020, pp. 208, euro 18,00 NINA FABRIZIO (Napoli, 1979) è giornalista professionista, lavora dal 2008 per la redazione Cronache italiane dell’Ansa, dove segue in particolare l’informazione religiosa e vaticana. Dal 2013 segue le vicende d’Oltretevere anche per il Qn-Il Giorno-Il Resto del Carlino-La Nazione e per la Radiotelevisione svizzera italiana. Collabora con la rivista della Mondadori Il Mio Papa. Ha scritto, con il collega Fausto Gasparroni, Intrighi in Vaticano. Misteri e segreti all’ombra di San Pietro. Dai Borgia al Corvo (2013) e I Papi della Pace. L’eredità dei santi Roncalli e Wojtyla per papa Francesco (2014), entrambi editi nella Bur. Ciò che ama di più è insegnare il lunedì pomeriggio in un doposcuola di una media statale della Capitale. 


 
 
 
 

Stuart Mill ci ha insegnato che la libertà va limitata (solo) nella misura in cui può diventare una minaccia alla libertà degli altri. Ma questo limite alla compressione della libertà è venuto molte volte meno nei periodi d’emergenza, nei quali il dubbio (l’essenza della libertà) è proibito e il confronto zittito a furor di popolo. Sono momenti nei quali lo Stato di diritto viene presentato come un intralcio a provvedere e ad agire. Nei quali l’iperstatalismo la fa da padrone, a tempo indeterminato. Ed una volta che questi provvedimenti siano assunti, anche in buonafede, bisogna stare attenti che non si radichino nell’ordinamento – come, appunto, è già avvenuto – e non divengano definitivi.

Questo momento storico che viviamo è proprio un momento emergenziale. Abbiamo visto disporre regolamentazioni con provvedimenti limitativi della libertà impropri (come i dpcm, ovvero: decreti Presidente Consiglio ministri), che si è poi legittimato sanando espressamente anche gli effetti dagli stessi già esercitati, e ciò con provvedimenti d’urgenza quantomeno – questi – corretti (e costituzionali) nella forma. Il più  importante di questi provvedimenti (il decreto legge n. 18/’20) consta di 126 articoli, per oltre 500 commi, che a loro volta contengono 67 deroghe espresse a leggi di vario genere (le deroghe tacite, o espresse con diversa formula, non così esplicita, non si contano). È un provvedimento che contiene norme di ogni tipo, riguardanti ogni settore (finanziamenti, assunzioni di un migliaio di persone circa, norme di regolamentazione). Le persone che verranno assunte saranno scelte “utilizzando graduatorie proprie o approvate da altre amministrazioni per concorsi pubblici”. I trattenimenti in servizio ed i reclutamenti “temporanei” (che poi “temporanei” non sono mai: l’esperienza insegna che una volta messo piede in un’amministrazione pubblica non se ne esce che con la pensione o la morte) non si contano. Altrettanto, il provvedimento reca inedite forme di requisizioni in uso, o in proprietà, di beni sia mobili che immobili, di proprietà sia pubblica che privata. L’esecutorietà di queste requisizioni forzate non può essere sospesa – addirittura –  neppure in sede giurisdizionale.

Attenzione, a questo punto, a non lasciarsi distrarre dalla considerazione di fondo che deve fare da guida al nostro pensiero conclusivo.  A parte infatti l’osservazione preliminare che se per fare un provvedimento ben fatto e farlo celermente ci vogliono decine e decine di deroghe, evidentemente qualcosa (indotto dalla burocrazia) non va, a parte questo – dicevo – è un fatto che siamo in presenza nel decreto legge, perlomeno per la gran parte, di disposizioni in sé condivisibili, ad una ad una considerate. Ma la concentrazione di potere nelle mani dell’attuale Governo è enorme, credo non abbia precedenti nel ‘900 se non nell’epoca fascista. Sono misure molte delle quali (abbiamo fatto l’esempio delle assunzioni temporanee)  destinate a protrarsi anche finita l’emergenza. Molte sono destinate – per volontà determinata o, comunque, di fatto – a creare, o a consolidare, centri di potere destinati anch’essi a durare ben oltre l’emergenza.

Se consideriamo che molte disposizioni sono state assunte a Camere chiuse e che saranno sottoposte ad un controllo parlamentare che (sulla base dei soliti, convenienti pregiudizi, per cui non è patriota chi – in certi momenti – disturba il manovratore) sarà più che altro formale, e comunque affrettato, se consideriamo – dunque – tutto questo, ce n’è a sufficienza per dire che occorre alzare la guardia. L’autoritarismo non è sempre evidente, e tantomeno proclamato. A volte, neanche espressamente voluto. Lo si costruisce pezzo per pezzo, perlopiù, anche per il tramite di strumenti varati democraticamente o correttamente parlamentari. L’iperstatalismo  (verso il quale fatalmente si vorrà andare dopo la pandemia, se non vi sarà il dovuto, attento controllo da parte dell’opinione pubblica) è uno dei mezzi più potenti per il controllo dell’elettorato. Così – se non s’imparerà nulla dalla pandemia – quel pachiderma che è lo Stato ingrasserà ancor più, diventerà ancor più opprimente e più invasivo. Lo diventerà anche se proprio la pandemia sta vieppiù dimostrando che troppe risorse sono andate spese per mantenere l’apparato pubblico in genere (Stato, Regioni, Comuni, Enti vari), per poi non averne più alla bisogna, proprio in una situazione come quella in cui ci troviamo.

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