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Leonardo da Vinci, Ritratto di dama (La Belle Ferronnière o “Presunto ritratto di Lucrezia Crivelli”) (1493 -1495 circa), Olio su tavola di noce;

Ancora pochi giorni, fino al 19 luglio, per poter scoprire il genio di Leonardo nella più grande mostra monografica a lui dedicata in Italia. “Leonardo Da Vinci 1452-1519,” dodici sezioni accompagnano il visitatore a scoprire l’attività poliedrica di Leonardo attraverso i suoi codici originali, oltre cento disegni autografi e un cospicuo numero di opere d’arte provenienti dai più celebri Musei e Biblioteche del mondo. La mostra è unica nel suo genere per la quantità e la qualità delle opere, oltre 200 fra manoscritti, disegni, dipinti prestati eccezionalmente da centinaia di istituzioni e grandi musei come Louvre, National Gallery of Art di Washington, Musei vaticani. Una rete diplomatica culturale che ha permesso di raccogliere capolavori come la Belle Ferronière, il San Giovanni Battista, San Girolamo e 38 disegni dal Codice Atlantico.

Da non perdere anche una sala con visori in 3D Samsung (con l'app sviluppata da Applix e Skira Digital) per immergersi nei suoi capolavori e nella sua vita. L'ambizioso intento per i curatori, Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, è far conoscere l'evoluzione non solo del disegno ma del pensiero di Leonardo e il processo di costruzione della conoscenza della sua mente geniale capace di creare un proprio e personale "disegno del mondo".

Si è chiusa ieri a Palazzo Strozzi, Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico la grande rassegna che attraverso 50 capolavori in bronzo, ha raccontato gli straordinari sviluppi artistici dell’età ellenistica (IV-I secolo a.C).  La mostra, realizzata in collaborazione con il J. Paul Getty Museum di Los Angeles e con la National Gallery of Art di Washington è stata apprezzata da 72.000 visitatori, riscuotendo allo stesso tempo un grandissimo successo di critica, che l’ha consacrata come evento culturale da non perdere nel 2015.
Dopo la tappa fiorentina l’esposizione si sposterà al J. Paul Getty Museum di Los Angeles dal 28 luglio al 1° novembre 2015 per poi concludersi alla National Gallery of Art di Washington DC, dal 6 dicembre 2015 al 20 marzo 2016.

Potere e pathos è stata certamente apprezzata dal pubblico per la qualità delle opere esposte, ma anche per il tema trattato, che ha attirato l’attenzione della stampa nazionale e internazionale con recensioni e servizi da parte di testate come Il Sole 24 ore, Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, Avvenire, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Venerdì di Repubblica, Io Donna, il Giornale dell'Arte, La Gazzetta del Sud, Sette, La 7, Rai Due Virus, Rai 5, The Times, The Guardian, Financial Times, The Independent, El Mundo, Apollo Magazine, Connaissance des Arts, The Art Newspaper, The Indipendent, Die Zeikunst, Weltkunst.

Curata da Jens Daehner e Kenneth Lapatin, del J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la mostra ha offerto una panoramica del mondo ellenistico attraverso il contesto storico, geografico e politico.

Le attività legate alla mostra hanno registrato un notevole incremento di partecipazione, rispetto alla media, infatti i gruppi di adulti hanno contribuito con 6.950 presenze, di cui 3.270 persone hanno preso parte alle visite guidate.
Le scuole hanno portato alla mostra oltre 380 classi per un totale di 9.575 studenti di cui 7.225 hanno aderito alle iniziative della Fondazione.

Le attività per le famiglie, giovani e adulti (tra cui l’iniziativa Slow Art Day), sono state condivise da circa 450 persone, mentre le iniziative per visitare la mostra in autonomia (La Valigia della Famiglia, La sacca di bronzo, Il Kit Disegno, il gioco Il mistero della statua scomparsa) hanno visto il coinvolgimento 2.350 persone.

Le attività per pubblici speciali (A più voci per persone con Alzheimer e i loro caregiver, visite per ragazzi affetti da disturbi dello spettro autistico e le attività per persone con disabilità) hanno visto la partecipazione di 430 persone.Intanto :

Dal 24 settembre 2015 al 24 gennaio 2016 Palazzo Strozzi a Firenze ospita Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana, un’eccezionale mostra dedicata alla riflessione sul rapporto tra arte e sacro tra metà Ottocento e metà Novecento attraverso oltre novanta opere di celebri artisti italiani, tra cui Gaetano Previati, Felice Casorati, Renato Guttuso, Lucio Fontana, Emilio Vedova, e internazionali come Vincent van Gogh, Jean-François Millet, Edvard Munch, Pablo Picasso, Max Ernst, Georges Rouault, Henri Matisse. Dalla pittura realista di Morelli all’informale di Vedova, dal divisionismo di Previati al simbolismo di Redon, fino all’espressionismo di Munch o le sperimentazioni del futurismo, la mostra analizza e contestualizza quasi un secolo di arte sacra moderna, dagli anni cinquanta dell’Ottocento fino agli anni cinquanta del Novecento, sottolineando attualizzazioni, tendenze diverse e talvolta conflitti nel rapporto fra arte e sentimento del sacro.

Oppenheim

Martina Corgnati, Storica d’arte e Curatrice, docente di Storia dell’arte presso la famosa Accademia di Brera (Milano) ha recentemente pubblicato il suo libro “MERET OPPENHEIM Afferrare la vita per la coda” edito da Johan & Levi. Un’interessante biografia, risultato di un intenso lavoro di capillare ricerca sull’archivio epistolare di Meret Oppenheim, artista dall’irrefrenabile creatività, considerata una fra le più eclettiche del novecento, nata a Charlottenburg - Berlino il 6 ottobre 1913 e scomparsa a Basilea il 15 novembre 1985.

Una donna straordinariamente bella, dal profilo perfetto, paragonabile a quello delle statue classiche, che divenne ben presto l’icona del fotografo Man Ray. Giovanissima, esordisce con l’opera “Colazione in pelliccia”, che le apre le porte del Moma di New York. Seguiranno incontri determinanti con alcuni fra i maggiori esponenti dell’arte e della cultura dell’epoca, che imprimeranno un segno indelebile sul suo percorso umano ed artistico.

Questo bellissimo libro, fitto di citazioni e rimandi, ripercorre i momenti salienti della sua vita, sia privata che artistica, come mai nessun autore aveva finora pensato di fare. Attraverso la corrispondenza di Meret si entra in un crescendo sempre più avvolgente ed intimo con l’artista ed affiorano vicende private, relazioni affettive e il suo originale modo di interpretare l’arte, fino a scorgere i lati ascosi della sua forte personalità, che si contrappongono ad un’animo fragile ed estremamente sensibile.

Le immagini tratte dall’album di famiglia e le fotografie di alcune sue più rappresentative opere, accompagnano il lettore in un viaggio alla scoperta di una donna dalla grande vocazione artistica ed esistenziale che, per affermare le proprie idee, dovette affrontare non pochi ostacoli.

In questi giorni ho avuto il piacere di intervistare Martina Corgnati, alla quale ho rivolto alcune domande in merito a questa sua splendida opera letteraria.

Recentemente lei ha presentato alla stampa il libro “MERET OPPENHEIM Afferrare la vita per la coda” (Johan & Levi Editore), un’accurata ed avvincente biografia di un’artista poliedrica, che ha saputo interpretare l’arte, nelle sue policrome espressioni, con grande talento ed originalità. Cosa l’ha spinta ad entrare nell’animo di Meret Oppenheim?

La biografia è stata pubblicata nel 2014 – lavoro sulla Oppenheim dagli anni novanta; nel 1998 ho curato l’ultima grande retrospettiva italiana, al palazzo delle stelline di Milano; poi ne ho scritto più volte e nel 2013 ho co-curato, insieme a Lisa Wenger, l’edizione della corrispondenza (Scheidegerr & Spiess Zurigo). La Oppenheim è una delle artiste donne più importanti del novecento, protagonista del surrealismo e interprete di un linguaggio che dal moderno scivola nel contemporaneo. Non so se sono entrata nel suo animo ma certo lei è entrata nel mio.

All’artista tedesca, ma svizzera d’adozione, considerata una fra le più significative del Novecento, negli anni sono stati dedicati vari cataloghi d’arte, anche se finora nessuna pubblicazione si era mai addentrata nel suo privato, dal quale emergono sensibilità, umane fragilità ed un raro afflato poetico di una donna con una forte connotazione caratteriale. Quanto le sono stati di ausilio, nella realizzazione della sua singolare ed affascinante opera, i contenuti epistolari della Oppenheim?

Le lettere sono state fondamentali. Senza lo studio approfondito della corrispondenza che ho avuto occasione di fare, non avrei mai potuto scrivere la prima biografia analitica, approvata dalla famiglia e dalla fondazione “Meret Oppenheim”. In vita, infatti, l’artista non aveva voluto che una ricognizione così approfondita sul suo privato venisse effettuata; l’aveva permessa solo dopo 20 anni dalla sua morte e quel momento è arrivato…

Sempre in merito alla sua corrispondenza lei nel 2013, in collaborazione con Lisa Wenger, nipote della grande artista, ha realizzato la minuziosa raccolta di lettere e documenti privati “Meret Oppenheim. Worte nicht in giftige Buchstaben einwickeln”, che tradotto letteralmente significa: “Parole non avvolte in lettere velenose”. Come è nata in lei questa idea?

Lisa Wenger, a cui sono legata da uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione, ha trascorso anni a trascrivere lettere e materiali inerenti al lascito testamentario di Meret Oppenheim, che era rimasto inedito. Mi ha chiesto di aiutarla a dare forma scientifica e ad organizzare, anche cronologicamente, queste migliaia di fogli. Lavorandoci sopra abbiamo fatto innumerevoli scoperte, grandi e piccole, ma comunque tali da dare nuove sfumature a non pochi passaggi della storia dell’arte del Novecento. Era un dovere storico dare alle stampe questi materiali preziosissimi e straordinari, cosa che l’editore ha perfettamente e generosamente capito.

Secondo lei, fu determinante per la carriera dell’artista l’incontro a Parigi con Alberto Giacometti, grazie al quale si unì ai surrealisti ed espose le sue opere, veri oggetti di culto per gli appartenenti al movimento, al “Salon des superindépendants”?

Sì, fu decisivo; intanto perché Giacometti fu il primo grandissimo artista che Meret incontrò a Parigi in un’età ancora molto acerba; grazie a lui, potè sentirsi libera di sperimentare su vari materiali e attraverso diverse forme le valenze eclettiche, metamorfiche e in fondo fragili della sua “Bildung”. Ci sono opere, come Testa di annegato; terzo stato, oppure il più tardo Sole, luna e stelle che testimoniano di un dialogo interno fra i due, fervido e fittissimo. Credo che insieme a Marcel Duchamp, Giacometti sia stato l’artista e l’amico in assoluto più importante per Meret.

Come può definire il rapporto della Oppenheim con il poeta, saggista e critico d’arte francese André Breton, autore del “Manifeste du surréalisme” (Primo Manifesto del Surrealismo), che trovò in lei un’amica intelligente, ricca di fascino e profondamente libera?

Breton all’inizio intimoriva Meret, come tutte le altre donne che avevano e avrebbero fatto parte del gruppo; però, contrariamente ad altre, lei non se ne fece né influenzare né dominare. A tratti, più tardi, non esitò a manifestargli apertamente il suo dissenso su questioni anche spinose, come l’espulsione di Max Ernst dal movimento. Ma è sicuro che la stima di Breton fu importante per Meret: Colazione in pelliccia fu apprezzata e valorizzata da lui prima che da ogni altro.

L’avvicinamento alle teorie psicoanalitiche di Carl Gustav Jung influirono sul suo modo di pensare?

Assolutamente sì; e di fare arte. Meret soffrì lungamente di una depressione a tratti molto acuta e paralizzante. La lettura e l’approfondimento dei lavori di Jung l’aiutarono moltissimo a uscirne e a trovare una sua personalissima strada, nell’arte e anche nella vita.

Meret, notoriamente desiderosa di affermare la sua creatività in totale libertà, al di fuori di schemi omologati, con quali e quante difficoltà ha affrontato il suo percorso artistico, in un’epoca ancora fortemente dominata dai pregiudizi di un tessuto sociale benpensante, ai limiti dell’ipocrisia e da evidenti discriminazioni, che persino gli artisti d’avanguardia riservavano alle donne?

Moltissime difficoltà, soprattutto da giovane, negli anni trenta – lei stessa ne ha parlato tanto, riservando all’argomento lo splendido discorso tenuto in occasione del conferimento dell’importante “Premio d’arte della città di Basilea” nel 1975.

L’artista, da molti considerata un’icona del movimento surrealista, per affermare la sua originalità stilistica, secondo alcune fonti, nel 1937 uscì dal movimento. Nonostante la necessità di esporre le sue opere, lei non rinunciò mai alle sue idee, operando ardue scelte, anche a costo di suscitare inevitabili polemiche. Questo generò alcune difficoltà economiche. Come le affrontò?

Non è uscita dal movimento, non solo nel 1937, ma mai formalmente. Semplicemente, è tornata in Svizzera poichè non aveva più i soldi per restare a Parigi, per colpa dei pregiudizi razziali che avevano colpito la sua famiglia. Suo padre Erich Alphons Oppenheim non era ebreo, ma portava un nome ebraico e questo per i nazisti era sufficiente; in Svizzera non poteva più esercitare la sua professione di medico e quindi supportare la figlia a Parigi. Non si è ritirata per un dissenso con i surrealisti, ma per questa ragione economica ed anche perché era diventata insicura a causa della depressione e sentiva l’esigenza di tornare ad approfondire le basi tecniche del mestiere d’artista alla Gewerbeschule di Basilea (scuola d’arti e mestieri).

Meret Oppenheim concepiva la vita come un’opera d’arte, al punto da sostenere che l’arte è inseparabile dalla vita quotidiana. Come esprimeva questa sua personale visione della vita, secondo lei sospesa in una commistione tra forza e dolcezza?

L’ha espressa attraverso le sue opere e i suoi atti, le sue scelte sempre libere e la sua resistenza ai compromessi. È moltissimo, secondo me.

Qual è stata la sua posizione nei confronti dell’allora nascente movimento femminista, che si rapportò a lei come al precursore dell’emancipazione femminile, sia nell’arte, che nella vita?

È stata molto difficile. Meret non era femminista nel senso classico, in quanto riteneva che la creatività fosse androgina e che in ogni essere vivente ci fosse una componente dominante (femminile nella donna) e una recessiva (maschile nella donna). Questo concetto è profondamente junghiano. Le femministe esaltavano l’arte delle donne in quanto tale, mentre per Meret questo finiva per tradursi in un insopportabile, fuorviante ghetto.

Le sue opere rimandano a forti richiami simbolici, molto spesso riconducibili all’aspetto onirico della vita, che si riflette anche sulla sua esperienza personale. A tal proposito mi viene in mente il sogno che lei fece in occasione del suo trentaseiesimo compleanno, al quale attribuì un significato profetico, al punto di redigere nel 1984 un testamento curato nei minimi particolari. Vorrebbe parlarmi di questa visione onirica che, in qualche modo, influenzò metà della sua vita?

Meret guardava ai sogni come a fari che illuminano la notte, sentinelle sensibili protese tanto sul mondo interiore, quanto su quello esteriore. Spesso si era lasciata guidare dai suoi sogni e ne aveva fatto il presupposto di molte sue opere d’arte, per esempio Sogno a Barcellona ma anche il fondamentale Segreto della vegetazione. Il sogno del santo con la clessidra è uno dei molti. Peraltro, non solo Meret ha redatto il testamento, ma è morta proprio quando aveva previsto di morire. Resta il mistero affascinante della cosa….

 

BIOGRAFIA DI MARTINA CORGNATI:

Martina Corgnati è nata a Torino; ha due lauree, in Lettere moderne e in Storia all’Università Statale di Milano.

Storica dell’Arte e Curatrice, è docente di Storia dell’arte presso l’Accademia di Brera di Milano.

Si è occupata di arte femminile e arte moderna e contemporanea del Mediterraneo e Vicino Oriente. Tra le sue pubblicazioni “Artiste. Dall’Impressionismo al nuovo millennio” (2004), “L’opera replicante. La strategia dei simulacri nell’arte contemporanea (2009), “I quadri che ci guardano. Opere in dialogo” (2011).

Prima di scriverne la biografia, ha lavorato intensamente sulla figura di Meret Oppenheim, della quale ha curato la prima retrospettiva italiana, dopo la morte dell’artista, al Palazzo delle Stelline di Milano (1998-99) e, assieme a Lisa Wenger, nipote dell’artista, la raccolta di lettere e documenti privati “Meret Oppenheim. Worte nicht in giftige Buchstaben einwickeln” (2013).

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