I gulag sovietici? Li ricorda il film Transsiberian

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Ricordate il titolo di un film che abbia trattato il tema della deportazione nei famigerati Lager nazionalsocialisti? Scommetto di sì. Vi viene in mente, invece, un film nel quale sia presente un sia pur minimo riferimento all’arcipelago concentrazionario dei GuLag sovietici? Non crediate di avere una scarsa cultura cinematografica se, per non fare scena muta, vi sentite costretti a consultare un motore di ricerca: l’unico film relativamente recente ad avere avuto un minimo di visibilità in Italia, tra i pochissimi che abbiano lambito la realtà dei GuLag, è stato The way back (2010) dell’australiano Peter Weir.

Stando così le cose, è naturale che attiri la nostra attenzione ogni rara avis che, al cinema, abbia osato evocare un fenomeno che, sebbene al riparo di una cortina d’oblio ancora toppo spessa (a quanti la parola «GuLag» non ricorda altro se non, per assonanza, la nota pietanza ungherese?), rimane tra i più raccapriccianti incubi realizzati del secolo XX.

Poco importa, quindi, che si tratti di un film girato nel 2008 e distribuito in Italia solo in DVD nel 2013. Vale la pena di parlare di Transsiberian, anche perché si tratta di un thriller di solido impianto, di quelli che non hanno bisogno di ricorrere a espedienti narrativi cervellotici per ritagliarsi un minimo di originalità ed essere accattivanti.

Ecco la trama: Roy (Woody Harrelson) e Jessie (Emily Mortimer), una coppia di coniugi con qualche problemino di relazione, decidono, dopo aver trascorso in Cina un periodo di volontariato spinti da motivazioni religiose, di raggiungere Mosca in treno, utilizzando la mitica linea transcontinentale transiberiana che in sei giorni percorre più di novemila chilometri passando per Vladivostok, Irkutsk e Novosibirsk. Sul treno incontrano Carlos, al cui fascino latino Jessie prova a resistere – ma con crescente difficoltà –, e la sua compagna Abby, finendo implicati in una storia di traffico di droga che li porterà ben presto a rimpiangere di non aver scelto l’aereo per tornare a casa.

Il regista Brad Anderson dà ai personaggi intensità e spessore psicologico. Il più noto dei volti è quello di Ben Kingsley, che interpreta il ruolo di uno scafato agente della narcoticie del quale – se vedrete il film nell’edizione doppiata in italiano – non potrete apprezzare la convincente inflessione russa del suo inglese.

L’unico altro dettaglio della trama che possiamo riportare senza correre il rischio di spoiler è la suggestiva ambientazione di uno degli snodi narrativi: una solitaria chiesa ortodossa diroccata nel bel mezzo della taiga siberiana, simbolo di bellezza violata e segno visibile di ferite non ancora rimarginate inferte alla terra russa dal totalitarismo comunista.

E i GuLag di cui si diceva in esordio?

Durante il viaggio, in un momento di convivialità sul treno, alcuni russi, un po’ divertiti dall’ingenuità dei compagni di viaggio americani, fanno a gara nel mostrare le loro cicatrici. A un certo punto, una persona anziana mostra il marchio della matricola da detenuto che ha sul braccio.

«Il GuLag?» chiede Roy. Il vecchio annuisce silenzioso.

«Che ti hanno fatto?» chiede Jessie.

«Scriveva poesie» le risponde uno dei russi. «In Siberia c’erano parecchi GuLag. Se vuoi documentarti sull’America basta comprare un libro. Se vuoi sapere della Russia, compra una pala. Sono in tanti a essere sepolti qui. Scienziati, preti, poeti…».

C’è bisogno di aggiungere altro? Buona visione!

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