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Due elementi mi hanno spinto a comprare l'ultimo libro di Alfio Caruso: il titolo,  “Con l'Italia mai!”, e l'argomento. Ancor più affascinante è il sottotitolo:La storia mai raccontata dei Mille del Papa!”. Il merito di Caruso è di aver raccontato soprattutto i fatti, gli episodi che hanno visto protagonisti i cosiddetti zuavi, i soldati del Papa, chiamati così per via dei pantaloni larghi e poi stretti alle caviglie. Anche se a tratti si lascia andare ai soliti luoghi comuni, soprattutto riguardo il potere temporale della Chiesa, i ritardi culturali del Mezzogiorno borbonico, l'endemica arretratezza economica rispetto al florido Nord, il libro di Caruso resta un'opera importante che cerca almeno di rendere onore all'ultimo esercito del Papa. Peraltro, non sono molti i libri che affrontano questo tema, anzi sono abbastanza rari.

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Ancora oggi non si comprende perchè c'è più letteratura relativa al fascismo che all'esperienza del totalitarismo sovietico comunista. Basta frequentare una qualsiasi libreria per constatare l'evidente disparità. L'ottimo studio di Richard Pipes, “Il regime bolscevico”, Mondadori (1999) cerca di rispondere anche a questo quesito. Intanto perchè per gli storici di sinistra e poi all'interno dell'Urss, il fascismo è stato considerato l'antitesi del socialismo e del comunismo. Un altro motivo per Pipes è perchè per molto tempo agli occidentali rimase nascosta la vera natura del regime comunista e peraltro è stato studiato poco, almeno durante le due guerre. Un terzo fattore che impedì di analizzare l'influenza del bolscevismo su fascismo e nazionalsocialismo,“fu la determinazione con cui Mosca riuscì a bandire dal vocabolario del pensiero “progressista” l'aggettivo “totalitario”, in favore di “fascista”, per descrivere tutti i movimenti e i regimi anticomunisti”.

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Bombardeigs-1938

Giusto ottanta anni fa, tra il 17 e il 19 luglio 1936, si consumava in Spagna l’alzamiento nacional: l’esercito e le formazioni paramilitari inquadrate nel Requeté carlista insorsero contro il Fronte Popolare che governava la Seconda Repubblica spagnola.

Con il pronunciamento della guarnigione militante del Marocco spagnolo, alla cui testa si pone Francisco Franco Bahamonde (1892-1975), inizia quella che passerà alla storia come la «Guerra di Spagna». A Franco, il più giovane generale con alto comando dell’esercito di Spagna, si uniscono gli alti comandi delle regioni militari di circa la metà del territorio metropolitano.

È un evento di straordinaria importanza. I suoi effetti storici e simbolici andranno ben oltre i confini spazio-temporali dell’accadimento, eppure, nonostante l’anniversario a cifra tonda, nessuno sembra intenzionato a occuparsene più di tanto. Nessuna autentica novità editoriale sull’argomento, assenza sostanziale di convegni ed incontri di studio, nessuna rievocazione: perché?

Forse perché in epoca post-ideologica, in cui con l’acqua sporca delle ideologie si vuol buttare anche il bambino delle idee e degli ideali, una guerra a forte caratterizzazione ideale come quella di Spagna appare come un ingombrante reperto archeologico, di cui disfarsi prima che riattizzi odi e inimicizie. In ogni caso, poiché è falsa la tesi secondo cui non interessano a nessuno le questioni legate alla storia del secolo scorso, non sarà, piuttosto, che si preferisce concedere spazio solo a quelle che una certa intellighentsia non ritiene scomode?

Di sicuro, la Guerra di Spagna è argomento scomodo.

È scomodo per gli esponenti di una certa sinistra; neo, post o ex-comunisti che siano. L’esperienza spagnola, infatti, mette radicalmente in questione una delle più frequentate «categorie di comodo» – secondo l’espressione di Aleksandr Solzenicyn (1918-2008) – con le quali si spiega e si giustifica l’esito sanguinario e tirannico del socialismo realizzato: l’anima slava e orientale, oppure l’arretratezza culturale dei popoli che lo hanno sperimentato. Ebbene, in Spagna – terra né slava né orientale e nemmeno abitata da un popolo culturalmente arretrato –, nei pochi mesi di governo del Fronte Popolare e nei primi della guerra civile, la quantità e la qualità delle violenze perpetrate nei modi più barbari contro uomini e cose che fossero identificati come cristiani, «fascisti» o «reazionari» costituisce un unicum che neanche gli storici più faziosi riescono a negare.

La vicenda della Seconda Repubblica spagnola inizia con la dichiarazione «La Spagna ha smesso di essere cattolica» di uno dei suoi fondatori, Manuel Azaña (1880-1940), e si conclude idealmente con il memorandum presentato da un ministro repubblicano al Governo presieduto dal socialista Francisco Largo Caballero (1869-1946), il «Lenin spagnolo», come lo chiamavano i suoi. In tale memorandum, del gennaio del 1937, si afferma testualmente che nella zona controllata dai repubblicani il culto cattolico «è totalmente sospeso».

Se poi si considera il massacro in campo repubblicano dei trotzskisti del POUM, degli anarchici della FAI, degli autonomisti e dei comunisti catalani del PSUC, voluto nel maggio 1937 dai comunisti della III Internazionale diretti da Palmiro Togliatti (1893-1964) – il «Migliore» –, dal sindacalista «buono» Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), oltre che da Luigi Longo (1900-1980), per acquistare il pieno controllo del Fronte Popolare, allora capiamo, senza dilungarci oltre con la indicazione analitica delle atrocità perpetrate, perché una certa parte politica preferisca non parlare della «Guerra di Spagna».

Ma l’argomento è scomodo anche per certo mondo cattolico, che mal sopporta dover rievocare un episodio nel quale credenti hanno difeso la propria libertà religiosa ricorrendo alle armi, non avendo altri mezzi per farlo, e in questa scelta sono stati benedetti dal loro episcopato (cfr. la lettera pastorale dell’1-3-1937). È il mondo cattolico che ha reagito con (neanche troppo malcelata) irritazione alla beatificazione e alla canonizzazione da parte dei Papi san Giovanni Paolo II (1978-2005) e Benedetto XVI delle molte centinaia di sacerdoti, religiosi e laici cattolici uccisi a causa della loro fede nel triennio della guerra civile spagnola; beatificazioni avvenute all’esito di processi che, in passato, come disse a Otranto il santo Papa Wojtyła nel 1980, erano stati paralizzati «per certi pretesti politici».

Non parlare della Guerra di Spagna, infine, fa comodo a certi «duri e puri», quei pochi che ancora esistono, delusi dal regime franchista, che non sanno e non vogliono distinguere tra l’alzamiento, la guerra vissuta come nuova reconquista, come cruzada in difesa della fede e del diritto di praticarla, e, appunto, il regime.

Abbiamo provato a ipotizzare alcuni motivi per i quali, pur ricorrendone l’ottantesimo anniversario dell’inizio, non si parla della Guerra di Spagna. Proprio quelli, a nostro parere, sono i motivi per cui, al contrario, vale la pena se ne parli ancora.

Nell'introduzione al libro “I conti con la storia”, Paolo Mieli, tra i tanti episodi riporta la decisione dell'intellettuale ebreo Alain Finkielkraut di schierarsi a favore della beatificazione del cardinale Alojzije Viktor Stepinac, primate di Croazia. La decisione di san Giovanni Paolo II di beatificare Stepinac fu molto criticata, il progressistume diceva perchè innalzare agli onori dell'altare una persona accusata di aver sostenuto durante la Seconda guerra mondiale il regime Ustascia a cui si imputava di essere responsabile di crimini e persecuzioni contro ebrei, serbi e zingari. Poi si scopre studiando i documenti che è tutto falso, monsignor Stepinac si è sempre battuto per la Chiesa e ha preso le distanze sia dal regime fascista che da quello comunista.

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La crisi economica e ora la forte pressione degli immigrati rischiano di mandare a pezzi la casa Europa. L'importante discorso di Papa Francesco in occasione del conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno, rende attuale la mia lettura guidata dell'ottima raccolta di scritti storici e filosofici di Gonzague de Reynold, “La Casa Europa”, curati da Giovanni Cantoni per la D'Ettoriseditori di Crotone. Il discorso del Papa alla presenza dei principali rappresentanti delle istituzioni europee, rappresenta un programma sintetico per“rifondare l'Europa”, un'esigenza sentita da molti. Il papa apre con il riferimento all’Europa come Casa comune che rinasce dalle“ceneri delle macerie” di ben due guerre mondiali. Dopo aver “strigliato” l'Europa che è come una “nonna stanca e invecchiata”, incapace di integrare, di dialogare e generare, fa riferimento alla memoria storica.“Le radici dei nostri popoli – ha detto -, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale”.

Questo è ciò che il Papa immagina debba essere il metodo anche oggi che è in atto quella che egli stesso ha recentemente definito «un’invasione». L’Europa sarebbe dunque chiamata a una sintesi tra la cultura dei popoli che attualmente la abitano e quanti stanno arrivando. Inoltre,“E' necessario fare memoria, - dice papa Francesco - prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati”.

Le lezioni di Gonzague de Reynold per rifondare l'Europa.

E un buon sussidio per fare memoria della nostra storia, è certamente il testo dello storico delle civiltà Gonzague de Reynold,che sto proponendo in questi giorni.

Papa Francesco nel suo discorso accenna al ruolo che deve avere la Chiesa per la “rinascita di un'Europa affaticata”: “l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. (…) Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa”. Mi sembra che è quello che ha fatto la Chiesa dopo la scomparsa dell'impero romano, con i tanti santi, religiosi, monaci, grandi testimoni del Risorto.

Allora la Chiesa per entrare in contatto con i popoli, capì che era“necessario parlare a ogni popolo con la sua lingua, utilizzare per fini religiosi la poesia popolare e le antiche tradizioni, anche se pagane”. In buona sostanza, l'opera civilizzatrice della Chiesa è alla base della civiltà europea, è una tesi abbondantemente sostenuta da Gonzague de Reynold.

“Da sola, a causa della diversità dei suoi popoli, l'Europa era incapace di produrre una civiltà uscita naturalmente dal suo stesso suolo, come fa un albero che ha radici profonde. Gli mancava il comune denominatore di un genio europeo[...] Il comune denominatore fu il cristianesimo. La civiltà europea è un dono del cielo, - scrive Reynold – come la rugiada che cade su un campo ben preparato. La prova sta nel fatto che l'Europa ha cominciato a disfarsi nel momento in cui ha cessato di essere la cristianità.

La Chiesa salva la società e l'impero.

L'opera politica della Chiesa fu precisamente la cristianità. “Salvare la civiltà non bastava: bisognava salvare l'impero. Salvarlo, o restaurarlo”. Per quale motivo? “Perchè rappresentava l'ordine e la pace, perchè era il grande precedente, perché era ancora così vicino che era impossibile vederlo sparire, perchè la sua conversione al cristianesimo gli aveva assegnato una missione cristiana”.

I barbari non erano tutti uomini di cattiva volontà, o distruttori, non avevano esperienza, si sentivano spaesati, “per quanto forti militarmente, erano soltanto una minoranza barbara in mezzo a una maggioranza civilizzata”. Pertanto, “molto rapidamente furono obbligati a interfacciarsi con la sola potenza che restasse in mezzo alle rovine: la Chiesa”.

Pertanto la Chiesa, i vescovi, senza confonderli con i funzionari politici, diventano i defensores civitatis, i defensores populi. Fu la Chiesa e la pur fragile cristianità che ha permesso la fusione fra Germani e Romani, una necessità interna. Poi occorreva risolvere quella esterna: la difesa contro l'Asia nomade, quella della steppa, degli Unni, Avari, Ungari, Mongoli, Tartari e Turchi, ma anche quelli del deserto, gli Arabi. Tutti premevano sulla nascente Europa. Cosa sarebbe successo se queste forze avessero prevalso? Per Reynold, avrebbero “riportato l'Europa all'erba e alla foresta, costretto gli europei a rifugiarsi nelle caverne del paleolitico”. Siamo ai tempi di Carlo Magno, il nuovo Costantino, quando in pratica fu realizzata la restaurazione del nuovo imperium e infine la realizzazione della stessa Europa.

La Cristianità la più alta concezione politica e sociale realizzata dall'uomo. Reynold qui partendo dalla dottrina teologica, delinea i vari passaggi della cristianità medievale: la Chiesa militante, visibile; le due guide per l'uomo che deve incamminarsi verso la sua fine ultima attraverso la strada della salvezza. Il Papa, e l'imperatore. “Alla Chiesa visibile deve corrispondere l'impero visibile, alla Chiesa militante, l'impero militante”. Entrambi formano una unità organica, come le due nature formano l'unità organica dell'uomo. Per Reynold, l'unità evangelica, deve realizzarsi anche nella società. “Il medioevo era permeato di cristianesimo fino alle radici della sua vita e del suo pensiero. Il cristianesimo era tutto per esso: la civiltà, il diritto, la pace,, lo svago, la bellezza, la gioia e la speranza. Ecco perchè ho chiamato quest'epoca quella della cristianità, preferendola all'etichetta di medioevo[...]”. Per Reynold, la cristianità, nonostante tutti i suoi limiti, rappresenta, “la più alta concezione politica e sociale cui lo spirito umano si sia mai elevato: per la prima volta nella storia ha stabilito la supremazia dello spirituale sul temporale. E' anche la più coerente”.

La cristianità secondo lo storico svizzero doveva essere, l'età della ricostruzione, ma anche età di sintesi. “I due grandi secoli: XI e XII, hanno visto il fiorire una civiltà uguale e persino superiore a quella greca. Rinascita dell'arte, rinascita della filosofia, rinascita della poesia; rinascita del latino e nascita delle letterature in lingue nazionali; rinascita del diritto:nascita delle città, del commercio, della navigazione, della prosperità. Ci fu allora una vita internazionale; ci fu allora un'Europa”. Dopo queste parole come non ricordare la grande studiosa francese Regine Pernoud, che ha dedicato la sua vita allo studio del medioevo.

Tuttavia scrive Reynold, il germe della decomposizione compare addirittura anche durante l'epoca della cristianità. La realtà degli Stati, delle nazioni si scontrava con la necessità dell'impero.“L'idea entrò in conflitto con i fatti”.

La disfatta dell'Europa.

A questo punto il nostro pensatore si dedica alla disfatta dell'Europa e al suo destino.

Dopo il XIV secolo si entra nel periodo vuoto, si cade nel pessimismo, nella disperazione. Si rompe l'unità sociale,“durante l'epoca della cristianità le classi non erano affatto chiuse ma comunicanti; si riunivano in una sincera fraternità cristiana. Ora esse si chiudono e si oppongono”.Pertanto si entra in un'età di disordini sociali, di rivolte contadine, di rivoluzioni urbane. Si arriva alla rottura dell'unità politica e della pace cristiana. “Le restrizioni che la Chiesa aveva imposto al diritto di fare la guerra sono violate; la guerra si estende, diventa cruenta, perpetua; le divisioni tra principi cristiani non cessano più”.Si giunge alla rottura dell'unità intellettuale, dell'unità artistica. “Come sempre - scrive Reynold – quando una società, una civiltà si decompone, da un materialismo stagnante si libera un idealismo evanescente: come i fuochi fatui della palude; ci sono, in effetti, decomposizioni, putrefazioni luminose: ce ne sono molte anche oggi”.

Continuando nell'esposizione delle rotture, Gonzague de Reynold descrive quella più grave: la rottura dell'unità religiosa. Infine come se non bastassero le rotture interne, altre disgrazie si abbattono sull'Europa, si tratta sempre dell'Asia nomade, rappresentata dagli Ottomani, che minacciano di invadere l'Europa. Sembra il nostro quadro che stiamo vivendo oggi.

A questo punto le considerazioni di Reynold si soffermano sull'epoca nuova che si sta affermando, quella dell'uomo, “la più febbrile della storia. Il suo dinamismo la trasforma in una rivoluzione continua. Il suo ritmo, che accelera continuamente, la trascina inesorabilmente, attraverso una serie di catastrofi, verso il periodo vuoto nel quale giaciamo oggi”.

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