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A che serve a distanza di oltre un secolo conoscere come i Piemontesi hanno “liberato” il Meridione d'Italia? Forse per capire il perchè è nata la cosiddetta “questione meridionale”? Oppure soltanto per conoscere la vera Storia del Sud e del sistema che lo governava, cioè il Regno delle due Sicilie dei Borboni.

Tempo fa un parente, conoscendo la mia predilezione allo studio della storia del Risorgimento e del Brigantaggio, mi diceva che dopo aver letto una recensione dell'ultimo libro di Pino Aprile, si interrogava se le notizie riportate da Aprile erano vere o montature. Pazientemente ho risposto che ormai è da tempo, almeno dalla caduta del Muro di Berlino, che esistono fior fiore di testi, di studi, che hanno raccontato dettagliatamente come è stato conquistato il Sud dopo la cavalcata liberatoria di Garibaldi. Aprile non fa altro che raccontare giornalisticamente come sono andati i fatti.

Per non perdere l'abitudine dei miei studi in queste fredde serate di dicembre ho letto uno dopo l'altro i testi di Giordano Bruno Guerri, “Il sangue del Sud. Antistoria del risorgimento e del brigantaggio”eIl Bosco nel cuore. Lotte e amori delle brigantesse che difesero il Sud”, entrambi pubblicati da Mondadori, il primo nel 2010, il secondo nel 2011, collezione“Le Scie”.

I testi di Guerri si occupano“dei modi e dello spirito con cui fu compiuta l'impresa  (la conquista del sud) e delle sue conseguenze”. Pertanto si pone alcune domande“Quali tragedie e ingiustizie la accompagnarono?”. Si è fatto di tutto per integrare davvero le identità, le culture, le tradizioni, persino le lingue diverse? Oppure si era fatta l'Italia, ma non si sono fatti gli italiani, come diceva Massimo D'Azeglio, che peraltro, temeva la fusione coi napoletani.

Giordano Bruno Guerri sicuramente non è un nostalgico del Regno delle Due Sicilie, è uno storico liberale che coraggiosamente racconta gli avvenimenti con serietà e imparzialità, utilizzando le numerosi fonti e documenti che ormai da tempo sono a disposizione di chiunque voglia fare storia seria. Peraltro nei suoi testi troviamo una bibliografia essenziale che fa riferimento a tanti storici che hanno ben studiato quegli anni tanto tormentati.

Guerri non disdegna di polemizzare con la storia ufficiale raccontata dai vincitori, ironizzando sui “liberatori” piemontesi, che secondo la vulgata, dovrebbero rappresentare “i civilizzatori”, i portatori di giustizia  e legalità, mentre gli altri, i meridionali, sono briganti. Questi ultimi fin dalla Rivoluzione Francese, sono stati  screditati dagli intellettuali, dai politici. La loro opposizione veniva rappresentata come “viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali”, mentre si trattava, “di una resistenza ideologica e politica, oltre che sociale”. Ma per liquidarla gli illuminati giacobini, collegavano la rivolta popolare“al delitto comune”. Così accadde anche in Italia dove per i nostri intellettuali benpensanti“la ribellione di reazionari, contadini e clericali, contro lo Stato appena costituito fu etichettata 'brigantaggio'”. Pertanto Guerri può scrivere che al Sud, tutti erano briganti, banditi, criminali comuni, mentre gli altri che venivano dal Nord erano i liberatori.“Due mondi erano in conflitto tra loro. Perchè l'uno venisse a patti con l'altro occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale. Invece scrive Guerri, “si preferì l'azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele”.

Come quella che si è manifestata in una notte d'agosto del 1861 a Pontelandolfo e Casalduni nel beneventano, l'esercito piemontese per vendicare i suoi uomini, non esitò di massacrare quasi un migliaio di uomini e donne di questi paesi.

I meridionali dagli ufficiali e soldati italiani furono percepiti come una razza inferiore, ma nello stesso tempo, Guerri considera questi soldati che andarono a combattere una sporca guerra, furono forse i meno colpevoli, “furono l'ultimo anello di una catena di errori e orrori[...] furono vittime, come i loro nemici, di una carneficina che poteva essere evitata”. Le colpe maggiori sono di chi dirigeva il Regno sabaudo, con la legge Pica del 1863, il governo di Torino,“in pieno accordo con il Parlamento, impose lo stato d',assedio annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adotta la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri”. Per i Savoia,“i briganti erano l'emblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato”, non solo, secondo Guerri, forse, già a Torino si erano pentiti: “chi ce l'ha fatto fare?”.

Lo storico è convinto che ancora molto bisogna fare per far conoscere la vera storia del Risorgimento italiano, anche per Guerri è necessaria una “profonda opera di revisione storiografica”, specialmente sul brigantaggio. Pertanto scrive Guerri: “come ogni guerra civile, anche quella tra piemontesi e briganti è stata raccontata dal vincitore. Che però, a differenza del solito, non ha potuto vantarsene: si preferì nascondere o addirittura distruggere i documenti, perchè non fossero accessibili neppure agli storici”. Il brigantaggio postunitario, per la nostra storia fu “quasi un incubo da rimuovere o censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione.I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della dannatio memoria. A loro, non spetta l'onore delle armi”. Per i padri della patria rappresenta una specie di zona d'ombra, “una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia”.

Ironicamente Guerri scrive che per i vincitori,“le pagine luminose, da consegnare agli archivi della memoria, sono altre: con tricolori sventolanti, imprese da trasmettere alle future generazioni nei manuali di scuola[...]”. Tuttavia lo storico senese auspicava che per le imminenti celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità nazionale, si rinunciava al“conformismo retorico e patriottardo”, alle“tentazioni oleografiche”, non tanto per “denigrare il Risorgimento, bensì di metterlo in una luce obiettiva, per recuperarlo – vero e intero – nella coscienza degli italiani di oggi e di domani[...]”. Nello stesso tempo però dall'altra parte si doveva rinunciare alle “ossessioni separatiste o secessionistiche che di tanto in tanto si trasferiscono dal Sud al Nord e ritorno”. Infatti, riferendosi a quest'ultimi, Giordano Bruno Guerri, sottolinea con forza, nell'introduzione al suo libro che “conoscere e rivedere il Risorgimento non significherà rimpiangere Radetzky o Francesco II, a seconda che il nostalgico si trovi a Milano o a Palermo”.

Da quello che ho visto e letto nel 2011, non mi sembra che sia andata così, sia per i risorgimentisti duri e puri, che per i nostalgici dei borboni. Forse gli unici a mantenere un certo equilibrio e non scadere in leggende nere o rosa sono stati quelli di Alleanza Cattolica, che sensibili agli avvenimenti storici del nostro paese, hanno voluto ricordare il 150° dell'unità d'Italia con una serie di conferenze all'insegna dello slogan: “1861-2011”. Unità Si, Risorgimento No”. Sostanzialmente si rifiuta l'ideologia risorgimentale che ha cercato di cancellare l'identità del nostro Paese, ma si accetta l'unità politica.

A questo proposito invito la lettura del “manifesto-appello”, che si può trovare nel sito, www.alleanzacattolica.org”.

“Il Sangue del Sud”, è composto di 17 capitoli. L'autore tratta in particolare la guerra del nuovo Regno d'Italia contro il brigantaggio, anche se troviamo delle pagine che raccontano le vicende della conquista del Regno delle Due Sicilie, come si sono comportati i vari protagonisti di  questa conquista.

Guerri è abbastanza super partes, riconosce per esempio che i giovani sovrani, napoletani, Francesco II e Maria Sofia sono stati derubati del loro legittimo regno. Ricorda tutti i vari tradimenti dei nobili e dei generali borbonici, che hanno fatto a gara per abbandonare la “nave”, il prima possibile. Evidenzia un certo “gattopardismo”, nel sistema politico meridionale. Riconosce inoltre una certa stabilità e prosperità economica del regno napoletano, anche se evidenzia delle deficienze nello Stato meridionale. Certamente lo storico non si presta a una “leggenda aurea”, rappresentando un Regno di Napoli come il bengodi d'Europa.

Guerri, entra nel vivo del brigantaggio a partire dal VI capitolo:“Come nasce una guerra civile”. Anche Guerri come lo studioso cattolico, Francesco Pappalardo, è consapevole che il fenomeno del banditismo è sempre esistito. Ma il brigantaggio  un'altra cosa, anche se ci sono elementi banditeschi. Si contano almeno 216 bande, tra Abruzzo, Molise, Sannio, entroterra irpino, nel salernitano, Puglia e Calabria. Le campagne erano una polveriera, bastava la presenza di qualche brigante, di qualche manutengolo, che iniziava la repressione, con saccheggi e incendi. “A farne le spese furono spesso uomini e donne inermi, messi al muro per aver gridato 'Viva Francesco II' in qualche stamberga dai muri troppo sottili, cafoni che si erano limitati a dare da mangiare ai ribelli, contadini e galantuomini che avevano abbracciato da subito la fede liberale”. Bisogna scrivere che soltanto la regina Maria Sofia, era abbastanza attiva nel sostenere la resistenza del popolo meridionale, mentre Francesco II, chiuso nello sconforto e nel fatalismo, faceva ben poco. Mentre i vertici della Chiesa ufficialmente non appoggiavano il brigantaggio, qualche vescovo e soprattutto i preti e i religiosi si sono resi complici.

L'esercito italiano arrivò ad impiegare al sud, fino a 120 mila uomini, quasi la metà dell'intero esercito unitario. Secondo Franco Molfese, tra il 1861 e il 1865 sarebbero stati uccisi, negli scontri o con le esecuzioni, 5212 briganti. Mentre Carlo Alianello, ne conta quasi il doppio (9860). “In entrambi i casi, si tratta di cifre approssimate per difetto”. Stessa cosa per i caduti da parte dell'esercito, qui spesso si taceva per non allarmare l'opinione pubblica, perchè la gente non doveva scoprire che si stava combattendo una vera e propria guerra. “Morirono più militari che nella somma delle tre guerre di Indipendenza, almeno 8.000”.

Mentre cronisti e storici locali contano oltre 100.000 caduti fra i meridionali. “Cifre a parte, - scrive Guerri - il dato oggettivo non cambia: fu combattuta una guerra civile, con rappresaglie, saccheggi e fucilazioni sommarie. E' il lato terribile di ogni contrapposizione fratricida”. Per Guerri, “quella conquista comportò episodi da sterminio di massa”.

Nei capitoli successivi lo storico toscano si occupa entrando anche nei particolari delle gesta più o meno eroiche dei vari briganti. Tra quelli più conosciuti, Carmine Donatelli, detto Crocco è quello a cui si dedica più spazio, del resto fu definito il re dei briganti. Poi c'è Chiavone, il brigante che voleva essere Garibaldi e marciare su Torino. Il sergente Domenico Romano, che univa il fucile alla preghiera. Un impasto di spirito crociato e di devozione religiosa, come si può leggere nel giuramento, che imponeva ai nuovi adepti. Un capitolo particolare e suggestivo viene dedicato alle brigantesse, tema che sarà poi sviluppato ampiamente nel successivo libro, “Il Bosco nel cuore”. E' un argomento che ha attirato la curiosità di molti studiosi. Alcuni li consideravano delle sanguinarie, delle diaboliche messaline. “Naturalmente si trattava di esagerazioni - con un fondo di verità – a sostegno dell'immaginario collettivo”.

Il Guerri sottolinea come la presenza femminile “sia molto più numerosa nella storia violenta del brigantaggio che in quella romantica del Risorgimento: dove – oltre alla contessa di Castiglione, per i suoi meriti spionistici e amatori – l'unica eroina è Anita Garibaldi, sposa esemplare”.

Queste donne secondo Guerri,“sono partigiane ante litteram; o, in un salto temporale ancora più lungo, sono le antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli”. E qui emerge lo spirito anarcoide di Giordano Bruno Guerri.

Comunque sia queste donne, “sono certe di trovare tra i boschi la dignità e la considerazione che non avrebbero ottenuto vivendo da schiave o puttane di nobili e galantuomini”. Pertanto, “la loro fuga è al tempo stesso un viaggio verso la libertà e verso la fine”. Sono un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale. Giuseppina Vitale, Chiara Di Nardo, Rosaria Rotunno, Mariannina Corfù, Maria Pelosi, Filomena di Pote, Maria Maddalena De Lellis, Filomena Pennacchio, Michelina De Cesare, Maria Oliverio. Solo alcuni nomi di donne“che capovolgono pregiudizi e luoghi comuni su sesso debole”. Donne che “nascondono le chiome fluenti sotto le larghe falde di cappellacci maschili, occultano ciò che resta della loro femminilità con l'audacia”. Un altro dato che va sottolineato che si tratta per la maggior parte di ragazze abbastanza giovane, pronte a tutto, rispetto alle ragazze di oggi.

Finora era stato dedicato poco spazio al tema delle brigantesse, il lavoro ben documentato di Giordano Bruno Guerri colma questa lacuna. “Il Bosco nel cuore” , è la storia delle donne in guerra contro l'unità; la storia di madri, mogli, ragazze giovanissime, rivendicare il diritto di vivere la propria vita assumendo su di sé il potere e la libertà di decidere.

 

 

Mentre scrivo si concretizza il grande risultato della vittoria del “NO” nel referendum del 4 dicembre sulla riforma della Costituzione, un risultato straordinario per la grande partecipazione popolare, hanno votato circa il 68% degli aventi diritto. Per tutti unanimemente è stata una grande manifestazione di democrazia del popolo italiano. Un voto che probabilmente passerà alla Storia del nostro Paese, come uno “schiaffo” ai poteri forti, alla classe politica “drogata”, al governo Renzi eletto da nessuno, ma anche a una élite culturale che si allontana sempre più dalla realtà e che continua a non capire il popolo. Per questo motivo Luca Telese, su “La Verità”, ha scritto:“Tutto il modello di consenso dell'Occidente è in crisi. Ovunque è popolo contro élite”. Lo ricorderanno a lungo i progressisti radical chic questo 2016:la prima mazzata l'hanno presa con la Brexit, “dopo è venuto il ciclone Trump, che non ha sconfitto solo Hillary Clinton ma anche e soprattutto le forze immense che sostenevano la candidatura della rivale: grande stampa, banche, Hollywood, università”.

Pertanto visto che il popolo vota contro il sistema, qualcuno è arrivato a ipotizzare, a teorizzare la fine del suffragio universale. Il sistema democratico inizia ad essere un problema.

Sicuramente quello che è successo il 4 dicembre è una sorta di insorgenza popolare,  è probabile che sarà studiato e commentato in tanti libri, come gli avvenimenti che hanno ricostruito Gennaro Sangiuliano e Vittorio Feltri, in “Una Repubblica senza Patria. Storie d'Italia dal 1943 ad oggi, pubblicato da Mondadori nel 2013. Un testo chiaro, semplice da leggere, coinvolgente e a volte irritante, una ricostruzione sintetica dove si racconta la storia del nostro dopoguerra a partire dal 1943, dalla firma dell'armistizio e dalla fuga del re fino agli anni del governo Berlusconi, del dopo tangentopoli.

Secondo Sangiuliano, la matrice che unisce tutte le esperienze politiche italiane è “la divisione, la mancanza di una prospettiva condivisa dello Stato e dello sviluppo economico e culturale della nazione”. In pratica il dopoguerra in Italia, per Sangiuliano, è caratterizzato da contrasti politici e ideologici che ad un certo punto addirittura potevano portare a“a Due Italie sullo stesso suolo: la destra democristiana  'filoamericana' e la sinistra comunista filosovietica”. Del resto, l'esito del recente referendum ne è un ulteriore prova. Certamente il “No” ha vinto con un margine schiacciante sul “Si”, ma questo ha un pur sempre racimolato un buon 40% di consensi. Dunque si può dire che anche in questo caso gli italiani si sono divisi. Nell'introduzione, Feltri evidenzia la questione della divisione del nostro Paese che“impedisce all'Italia di diventare una patria”. La divisione dell'Italia è ricorrente nella nostra Storia. Il giornalista fa l'esempio, forse quello più significativo della divisione tra Nord e Sud, nata con la forzata unità d'Italia e alimentata poi negli anni.

Gli argomenti trattati dai due giornalisti, sono tanti, per quanto riguarda la prima parte, ritengo opportuno segnalare alcuni passaggi della politica dei comunisti italiani. Sangiuliano in particolare affronta affronta la questione Gramsci all'interno del Partito comunista, gestita autoritariamente dal “compagno Ercoli”, alias Palmiro Togliatti, anche se nel cuore dei militanti il vero leader del comunismo italiano era rimasto Antonio Gramsci. Infatti,“alcuni compagni della prima ora bisbigliavano che non era stato fatto nulla per ottenere la liberazione di Gramsci”. In pratica, “l'Italia fascista aveva buoni rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica, se Mosca fosse stata investita del caso e il Cremlino avesse voluto prodigarsi, forse si sarebbe potuto organizzare uno scambio con qualche dissidente anticomunista”. Ma non si fece nulla, perchè al Pci, a Togliatti, non interessava avere libero Gramsci, tanto che la moglie dell'intellettuale sardo, Giulia Schucht,“inoltrerà una formale denuncia al Comintern nella quale documenterà le manovre di Togliatti a danno di Gramsci”.

Comunque sia, scriveva Mussolini:“Gramsci è morto di malattia, non di piombo”, come accade a tanti gerarchi comunisti, “che dissentono anche un poco da Stalin e probabilmente sarebbe accaduto anche a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca”.

Inoltre, Sangiuliano si occupa dell'egemonia rossa nella cultura italiana, raccontando alcuni particolari, a partire dalla vita di Benedetto Croce, uno dei pochi che ha rifiutato di incensare il fascismo di Mussolini. Diverso fu invece“l'atteggiamento di quei tanti intellettuali che scrissero lettere deferenti al duce e poi sarebbero diventati comunisti”.

Togliatti dopo la svolta di Salerno si dedicò a costruire il “partito nuovo”, per fare questo aveva bisogno di conquistare l'egemonia culturale che doveva assicurare al Pci “il dominio delle idee non solo nella cultura politica ma in tutte le manifestazioni della vita sociale: la scuola, l'arte, il cinema, la letteratura, l'università, i giornali, le case editrici”. Erano “le casematte” da conquistare che aveva teorizzato lo stesso Gramsci. Togliatti, per questo progetto, recluta i nuovi alfieri dell'egemonia culturale “fra i giovani fascisti, fra coloro che si sono alimentati alla cultura gentiliana, agli estetismi del regime, ai miti e alla dottrina del regime”.

Secondo la storica Mirella Serri, si tratta “di una vera e propria 'operazione politica' di recupero dei giovani 'ex'”. Sostanzialmente avviene, “un vero e proprio passaggio dal fascismo militante all'antifascismo militante,, che portò nel Pci neofiti pieni di zelo perchè avevano qualcosa da farsi perdonare”. E' un argomento questo per lungo tempo negato, ma poi la forza dei documenti, fa crollare la “verità” comunista, peraltro lo stesso Giorgio Amendola ammette che questi giovani intellettuali, avevano aderito in massa al fascismo.

Il libro fa i nomi di questi intellettuali a cominciare di Carlo Muscetta e Norberto Bobbio, ma c'è Massimo Caprara e Giorgio Napolitano, i “signurini” con il loro tratto borghese, usciti dal Guf napoletano. Usciti dall'ombra di numerose riviste fasciste, numerosi intellettuali sono destinati ad assumere un ruolo di rilievo nel dopoguerra: Corrado Alvaro, Giulio Carlo Argan, Renato Guttuso, salvatore Quasimodo, Giorgio Spini Dario Fò ed altri. Nessuno di questi si è scagliato contro le ignobili leggi razziali. Bobbio, futuro senatore a vita della Repubblica, in una intervista al giornalista Pietrangelo Buttafuoco, novantenne riconoscerà: “Ero immerso nella doppiezza, perchè era comodo fare così. Fare il fascista tra i fascisti e l'antifascismo con gli antifascisti”.

Poi Sangiuliano affronta la querelle sulla revisione storica della cosiddetta resistenza comunista. Nata soprattutto dopo la pubblicazione dei diversi libri di Giampaolo Pansa, e quelli del professore Renzo De Felice, che hanno spazzato via tutte le bugie comuniste intorno al resistenza.

Sangiuliano ripercorre tanti altri fatti, come l'attentato a Togliati, e qui l'Italia era sull'orlo della guerra civile, poi arrivò Gino Bartali con la vittoria al Tour e mise tutto a posto. Naturalmente non posso evidenziare tutti i fatti politici affrontatti dal libro, per forza maggiore bisogna scegliere.

Un momento particolare fu l'anno 1956, quello della rivolta popolare in Ungheria. I ragazzi di Buda e Pest scendono nelle strade e il 23 ottobre sotto il monumento a Petofi, fanno la rivoluzione, ma dura poco, il 4 novembre 4.000 carri armati sovietici schiacciano e reprimono la resistenza degli studenti e operai ungheresi. Imre Nagy e altri membri del suo governo verranno impiccati dopo un processo farsa. Il Pci italiano si lacera di fronte ai fatti ungheresi, ci sono quelli che vogliono aprire una discussione, ma i dirigenti comunisti la stroncano sul nascere, si urla: “viva i carri armati sovietici”. Ma nonostante la stroncatura, nasce “il manifesto dei 101”, e subito si dà la caccia agli eretici. In pratica per i firmatari ha inizio un vero e proprio processo stalinista interno. Tra il '55 e il '57, il Pci perde quattrocentomila iscritti e tra essi importanti intellettuali come Italo Calvino ed Elio Vittorini. Vi risparmio a questo punto le dichiarazioni del nostro capo dello stato Napolitano a proposito dei fatti ungheresi.

La prima parte curata da Sangiuliano si conclude con la descrizione del sessantotto italiano che durerà ben dieci e lunghi anni. Si ripercorrono i fatti intorno alle università di Trento, di Milano, i tanti autunni caldi, che porteranno alle violenze e all'odio diffuso soprattutto tra i giovani.

Mentre nella seconda parte Vittorio Feltri, affronta la storia dal 1960 ad oggi. E visto che tra qualche giorno ricorre l'anniversario della strage di piazza Fontana a Milano, ritengo interessante commentare il V capitolo, dal titolo:“conformismo intellettuale: il caso Calabresi”. Qui Feltri, racconta una delle più brutte pagine della storia politica italiana, l'uccisione del povero commissario Luigi Calabresi. Tutto parte dal 12 dicembre 1969, l'eccidio di piazza Fontana. All'indomani dei fermi di Valpreda e Pinelli, si crea immediatamente un esercito di innocentisti, capace di creare proseliti e creare una mentalità contro cui scagliarsi. Alla fine si crea un capro espiatorio per attribuire tutti i mali del mondo, lo si trova nel commissario Calabresi, a cui è stata affidata l'inchiesta sulla strage. Durante l'interrogazione l'anarchico Pinelli cade dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi, apriti cielo, tutto l'esercito di sinistra non fa altro che accusare il commissario di omicidio.“Scoppia il finimondo”, scrive Feltri, “Pinelli diventa il caso di un uomo assassinato dalla polizia”. Naturalmente “si passa in fretta al teorema classico della polizia fascista che sta dalla parte del potere conservatore”.

Un esercito, guidato da “Lotta Continua”, sostenuto dai mezzi di informazione assai influenti e agguerriti, come il settimanale “L'Espresso” e “Panorama”, i quotidiani “L'Unità” e “Paese Sera”. Praticamente il commissario Calabresi dopo la morte di Pinelli,“smette di vivere”. Contro di lui la sinistra,“partorisce feroci e violentissime campagne di stampa e di odio”. A queste campagne si accodano soprattutto gli intellettuali: Calabresi, diventa il demonio da linciare pubblicamente.“Si arriva al punto che dagli intellettuali viene fuori un appello, uno dei tanti. Ma questo, pubblicato dall'”Espresso” nel giugno 1971, diventa una specie di condanna a morte per Calabresi, perché nell'appello si accusa esplicitamente il commissario di aver ammazzato Pinelli, e si sostiene che per questo Calabresi va allontanato, professionalmente eliminato”.

Dal linciaggio si passa direttamente all'omicidio che avviene nel maggio 1972. Nella lista dei firmatari ci sono tutti, tra i 757 ci sono giornalisti, scrittori, registi, politici etc. I loro nomi si possono trovare tranquillamente su tutti i libri e giornali. E' evidente che questi signori hanno sottoscritto la condanna del commissario, alcuni di loro hanno ammesso, scrive Feltri,“l'esistenza di un rapporto di causalità tra l'appello sottoscritto dall'”Espresso” e l'omicidio”. Almeno in due hanno fatto mea culpa, Paolo Mieli e l'ex ministro Carlo Ripa di Meana.

Il conformismo culturale “è una diffusa malattia italiana, una paranoia radicata, continuamente nobilitata dai mezzi di comunicazione, in cui anche la letteratura e cinema si buttano a capofitto”. Ma forse non è una malattia solo italiana, abbiamo visto recentemente con le elezioni presidenziali americane, come i mezzi di informazione hanno dipinto il candidato Trump.

Questo conformismo culturale pieno di odio, ha colpito Calabresi, ha colpito il presidente Giovanni Leone, in seguito ha colpito Bettino Craxi, accade la stessa cosa con Enzo Tortora, poi ha colpito Berlusconi e chissà quanti altri ancora.

In questi giorni i media italiani dopo la morte di Fidel Castro, invece di ricordare la carriera del despota caraibico, responsabile dell'uccisione di almeno 15 mila oppositori a Cuba,“paiono ritrarre la figura di un grande statista del Novecento, - scrive la NuovaBQ.it - enfatizzandone i pregi, nascondendone i crimini. Un tema ricorrente: a Cuba si viveva peggio sotto Fulgencio Batista e la rivoluzione di Castro servì a migliorare le condizioni dei cubani. I maggiori vanti del sessantennio comunista? La sanità e l’istruzione. E una certa soddisfazione per aver tenuto testa a decenni di embargo americano, fino al disgelo avvenuto con il presidente (ora uscente) Barack Obama”.

Tuttavia a fronte dei continui panegirici del dittatore, il nostro pensiero dovrebbe andare ai tanti dissidenti che hanno pagato con la loro vita o che sono stati costretti ad abbandonare il loro paese.

 L’esodo verso la Florida fu una realtà che il mondo scoprì solo negli anni Ottanta. E che ha coinvolto più del 20% (sono quelli che sono riusciti a scappare) della popolazione. Si scappava in tutti i modi, anche sulle zattere. Era meglio morire in mare che restare un giorno di più sull’isola. Lo si comprende dalla gioia di chi nella mattinata di sabato ha invaso le strade di Miami per festeggiare la scomparsa del dittatore. Non è qualcosa di macabro o irriguardoso. A quegli uomini, quelle donne, quei ragazzi che sventolavano le bandiere di Cuba, Castro ha distrutto la vita per sempre, decimando le loro famiglie e costringendoli ad una fuga disperata dalla propria terra. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha ricordato che “purtroppo la morte del dittatore sanguinario non significa libertà per i cubani: il dittatore è morto, ma non la dittatura”.(Lorenza Formicola, Breve storia della guerra di Castro alle chiese di Cuba, 27.11.16).

Tra i tanti dissidenti, vittima del “paradiso cubano”, forse quello più noto è  Armando Valladares, incarcerato per non aver abiurato il cristianesimo e aver amato il comunismo.

Ho conosciuto Valladares in un affollato incontro organizzato da Alleanza Cattolica l’8 maggio 1987, nella sala del Centro Missionario Pime a Milano, quella sera il poeta esule cubano, presentava il suo libro “Contro ogni speranza. Dal fondo delle carceri di Castro”, edito da Sugarco editore di Milano nel 1985, raccontava, la vita terribile dei prigionieri politici nelle carceri di Castro e rompeva il muro di silenzio e di menzogna che, difeso dalla cultura ufficiale, circondava la verità del regime castrista a Cuba. Valladares viene liberato nel 1982 e mandato in esilio a Madrid, dopo ventidue anni di dura prigionia, dopo una lunga campagna internazionale a suo favore e su un intervento personale del presidente francese Francoise Mitterand. Successivamente trasferitosi negli Stati Uniti, il presidente Ronald Reagan, lo nomina ambasciatore americano alla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre a L’Avana continuano a considerarlo una «spia della Cia», a New York il Fondo Becket per la libertà religiosa gli ha appena conferito la Medaglia Canterbury 2016 per “il coraggio dimostrato nella difesa della libertà religiosa”. Dal palco, il dissidente 79enne ha denunciato quei governi occidentali che, al pari del regime cubano, cercano di violare la libertà di coscienza dei cittadini, chiedendo loro di «collaborare con gravi mali». Il premio l’ha ritirato con queste parole: “Lo accetto nel nome delle migliaia di cubani che hanno usato il loro ultimo respiro per esprimere la loro libertà religiosa, gridando, davanti all’esecuzione: “Lunga vita a Cristo re””.

Ricordo ancora oggi l'appassionata conferenza di quella sera a Milano, ho ancora le foto di quella manifestazione ben preparata da Alleanza Cattolica, tra l'altro  pubblicizzata da decine di manifesti affissi per le vie principali di Milano. Alla fine della conferenza con pazienza e cura Valladares ha autografato con dedica le tante copie del suo libro (io ne possiedo una che tengo gelosamente).

Nelle 400 pagine delle sue memorie di prigionia, Valladares descrive minuziosamente il bestiale trattamento riservato ai nemici del regime comunista cubano. Contro ogni speranza, racconta l'inferno in cui egli ha vissuto e la storia di come un uomo sia riuscito a sopravvivere alle peggiori sevizie senza mai perdere la speranza, per quanto infondata potesse apparirgli. I detenuti che rifiutavano la “riabilitazione politica” erano costretti a vivere nel caldo più soffocante e nel freddo più intenso senza abiti (un particolare mi ha colpito, quando Valladares ha dovuto vedere sua mamma completamente nudo, proprio per farlo sentire un verme) venivano percorsi e presi a calci regolarmente dalle guardie; gettati nelle celle di punizione dove non filtrava mai un raggio di luce e dove non era possibile abbandonarsi al sonno perché le guardie lo impedivano lanciando secchi di urina e feci sui detenuti o stuzzicandoli con lunghe aste (ma erano anche i topi a tenere svegli: una notte, in una scena che richiama alla mente 1984 di Orwell, Valladares narra che si svegliò allorché un topo cercò di dilaniargli le dita).

Raccapriccianti sono le “celle cassetto”, gabbie di un metro, un metro e mezzo di altezza, dove il prigioniero non può stare in piedi, lunghe e strette. Si veniva rinchiusi lì per mesi, costretti a vivere in mezzo ai propri escrementi. 
Peraltro nei gulag di Fidel, in particolare, nel carcere di Boniato, i detenuti sono ridotti al livello di cavie per 'esperimenti' biologici che reggono il paragone con quelli eseguiti dai nazisti.

Recentemente intervistato dal settimanale Tempi, Armando Valladares, ricorda a noi italiani, che ancora pendiamo dalla labbra dei vari gazzettieri che ci raccontano la favola castrista, la sua terribile prigionia nelle carceri di Fidel.

“Castro mi ha tolto tutto, tranne la coscienza”.“Per otto anni Armando Valladares ha conosciuto solo una lunga notte, rinchiuso in una cella senza finestre né luce artificiale. Poi due anni di luce violenta e accecante, senza poter dormire né riposare gli occhi. In mezzo, altri 144 mesi di umiliazioni, pestaggi e torture disumane di ogni tipo”. (Nudi ma liberi. Intervista ad Armando Valladares, il più celebre dissidente cubano, di Leone Grotti, in Tempi 6.6.16)
Il più celebre dissidente cubano, piccola luce nel buio del regime castrista, avrebbe potuto risparmiarsi tutto questo. I suoi carcerieri gli avevano offerto la possibilità di scegliere: se rinneghi ciò in cui credi, abiuri Dio e affermi di amare il comunismo e Fidel Castro sarai libero. Valladares non ha compiuto questo «suicidio spirituale», diventando uno dei prigionieri di coscienza più famosi al mondo. È sopravvissuto a 22 anni di prigione grazie alla fede e all’arte, le sue «armi», dipingendo e scrivendo poesie, usando anche il suo stesso sangue quando gli è stato tolto ogni altro mezzo”.

Illuminanti le risposte di Valladares sulla libertà religiosa a Cuba.“Bastava essere cristiani, come nel mio caso, per finire in carcere. Lo stesso vale per i Testimoni di Geova: con loro le torture hanno davvero superato ogni limite.
Il sacerdote cattolico Miguel Angel Loredo è stato picchiato selvaggiamente per aver celebrato Messa dentro il carcere. Se un prigioniero veniva scoperto con una Bibbia o con qualunque altro materiale religioso veniva picchiato e portato in isolamento”.

Valladares è abbastanza critico nei confronti dei cosiddetti intellettuali europei e in particolare, italiani.“Abbiamo avuto tanti Gabriel García Márquez”.

Infatti,“García Márquez ha messo la sua penna al servizio della tirannia di Fidel Castro. È stato complice delle torture e dei crimini di un regime che ha sostenuto e difeso in tutto il mondo. Ha detto che Cuba era l’unico paese dove si rispettavano i diritti umani! Questa canaglia è stato delatore del dissidente Ricardo Bofill, che lo accusò portando le prove della delazione fatta alla polizia politica. A Cuba aveva un’amante, Blanquita, che poteva essere sua nipote, e Castro gli regalò una casa perché potesse fare le sue porcherie. Quando un intellettuale utilizza i mezzi che gli sono stati donati per mentire sulla realtà politica e mette la sua penna al servizio di una dittatura, anche se ha grandi doti intellettuali, diventa una minaccia per la società”.

Infine nell'intervista Valladares, risponde sulle elezioni presidenziali. Tra Trump e Clinton, naturalmente si schiera con Trump, nonostante viene presentato dalla stampa liberal come se fosse un criminale, un boss della droga, uno stupratore. Del resto per Valladares, non bisogna meravigliarsi,“si tratta degli stessi giornali che hanno creato il mito dei “risultati della Rivoluzione cubana” e di Che Guevara, un assassino trasformato in “santo”. Queste elezioni non sono come le altre. Bisogna senza dubbio votare Trump. Credo che sarà un buon presidente”. E' stato un ottimo profeta.

 

Il cosiddetto “schiaffo”, o incidente di Anagni, dunque, può essere considerato come la fase di avvio di una nuova era; un’era caratterizzata da un papato progressivamente meno prestigioso ed influente. Si aprì un’epoca nella quale un certo spirito laico ‒ oggi diremmo laicista ‒, già intravisto ai tempi di Federico II di Svevia, assieme ai nascenti nazionalismi ‒ vere e proprie fasi embrionali del moderno stato nazionale ‒, iniziarono ad affacciarsi alla ribalta della storia e a reclamare un ruolo sempre maggiore. La Chiesa non poteva far finta di nulla. Il successore di Bonifacio VIII, Benedetto XI (1303-1304) fu eletto, non senza fatica, grazie  alla grande opera di mediazione del cardinale Matteo Rosso Orsini (1230-1305). Il nuovo papa fu costretto, per ragioni politiche, ad annullare le sanzioni canoniche nei confronti di Filippo Il Bello e dei due cardinali appartenenti alla famiglia Colonna, suoi complici; tuttavia, tenne duro nel confermare le medesime pene a Nogaret e a quanti si erano resi protagonisti dell’oltraggio nei confronti del Papa, rifiutandosi pure di convocare un concilio postumo che lo condannasse. Per questi ed altri motivi, non ritenne più  Roma una città sicura per sé, pertanto, si trasferì a Perugia, dove, dopo solo otto mesi, morì avvelenato, secondo alcuni storici. Le circostanze, ancor più avverse rispetto a quanto accaduto alla morte di Bonifacio VIII, indussero i cardinali, sempre guidati da Orsini, a riunire il Conclave a Perugia. Nonostante fossero solo quindici, non riuscivano a mettersi d’accordo; così, dopo diversi mesi di sede apostolica vacante, si accordarono su un nome di compromesso: il cardinale Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, città all’epoca sotto il dominio inglese, ma non inviso alla Francia, maggior potenza di allora. Era il mese di giugno del 1305 ed assunse il nome di Clemente V (1305-1314). Probabilmente, sotto le pressioni di Filippo il Bello, senza neppure passare da Roma, stabilì ad Avignone, in Francia, a partire dal 1309,la sua sede definitiva, iniziando così, quel periodo che gli storici – ispirati dal sonetto 114 del canzoniere di Francesco  Petrarca (1304-1374), che paragonava l’esilio degli ebrei a Babilonia, con quello della Chiesa ad Avignone ‒ hanno battezzato come cattività avignonese, richiamo evidente alla cattività babilonese, di biblica memoria. Situazione che si protrarrà per quasi un settantennio, fino al 13 gennaio 1377, allorquando papa Gregorio XI (1370-1378), finalmente, riportò il papato nella sua sede naturale, a Roma, col sollievo di quasi tutta la Cristianità. Vari elementi avevano determinato questa decisione, non ultime le mutate condizioni storiche: Filippo il Bello, ormai, era morto da oltre sessant’anni, la Francia era impegnata, quasi sempre soccombendo, con la guerra dei cent’anni contro l’Inghilterra e, infine, la grande e appassionata opera di convincimento svolta da santa Caterina da Siena (1347-1380), che si recò addirittura ad Avignone, per parlare personalmente col papa, rassicurandolo sulla volontà di Dio, circa quel ritorno. Purtroppo, questo ritorno ebbe il suo rovescio di medaglia: Gregorio XI, morì l’anno dopo e il suo successore Urbano VI  (1318-1389), si trovò, suo malgrado, al centro dello Scisma d’Occidente (1378-1417), perché i cardinali francesi rifiutarono di accettare la sua elezione. Furono trentanove anni di gran confusione, tra papi ed antipapi, ad un certo momento, se ne ebbero addirittura tre: naturalmente, l’unico risultato ottenuto fu una decadenza ancor più accentuata nella coscienza europea del prestigio del papato e della sua capacità di porsi come guida spirituale e culturale dell’Europa. Nel 1417, finalmente, con l’elezione di Martino V (1417-1431) e con la fine Concilio di Costanza, si pose fine al grave scandalo dello Scisma. Tuttavia, le insidie per l’unità e la tranquillità della Chiesa, non erano certo finite: proprio in quegli anni, emerge una nuova corrente, che vorrebbe limitare il potere del sommo Pontefice:  il conciliarismo, che contempla la sottomissione dell’autorità pontificia a quella del Concilio. Il conciliarismo paralizzò l’azione dei pontefici subito dopo lo Scisma d’Oriente: idee conciliariste, infatti, erano state espresse già dal cardinale Umberto di Silva Candida (1000?-1061), che a sua volta le aveva riprese da monaci del VII secolo. Poi, i primi vagiti della Riforma, l’umanesimo e il Rinascimento penetrati nella Chiesa sotto il pontificato di Niccolò V (1477-1455), uniti ad avvenimenti storici di portata epocale, come la caduta di Costantinopoli, provocarono un grave ritardo nella riforma della Chiesa, che perse così, un’altra occasione per continuare a salvaguardare il suo ruolo come guida della cultura europea. A tutti questi eventi, non erano estranee le idee di pensatori come Marsilio da Padova (1275-1342) e Guglielmo da Occam (1285-1347), veri e propri antesignani della modernità, che vedremo meglio la prossima volta.

"La benna della ruspa vibra, poi scatta in avanti e la terra inizia a tremare, franando sotto i colpi che ne mangiano le zolle. A manovrare il bestione giallo è un tecnico turco-cipriota dall’aspetto di giannizzero, che sonda delicatamente il terreno centimetro dopo centimetro".

Questo e per intero l articolo di Giovanni Masini che ha scritto in esclusiva per il quotidiano il Giornale perche ve lo porto al mio quotidiano ?

Perche dal 1974, la stampa Ellenica ha lavorato e ha scritto tantissimi articoli sul argomento nella totale indifferenza del resto del Europa 

"Sotto la supervisione attenta di due archeologi scava alla ricerca dei cadaveri di sei persone uccise durante la guerra del 1974 e mai ritrovate. Dopo quarant’anni un testimone ne ha indicato in questo campo il luogo di sepoltura. Se i cadaveri verranno trovati, si procederà all’identificazione e alla restituzione alle famiglie d’origine

Quella delle persone disperse è una delle ferite più brucianti nella storia recente dell’isola di Afrodite. Una vicenda che ricorda per tanti aspetti quella dei desaparecidos sudamericani. Fra gli anni Sessanta e Settanta, oltre duemila persone andarono disperse in seguito alla pulizia etnica scatenatasi fra le comunità greca e turca e soprattutto in conseguenza dell’invasione turca del 1974.

Mezzo secolo dopo, milletrecento salme attendono ancora una sepoltura degna, occultate sotto un albero o gettate in un pozzo. Nascoste agli occhi del mondo.

A ricucire questo strappo doloroso lavora, dal 2006, la Committee for missing persons, con l’obiettivo di ritrovare quante più persone possibile per poterne stabilire l’identità e riconsegnarne i resti alle famiglie. In dieci anni, oltre settecento ciprioti delle varie etnie sono stati riesumati e riuniti, sia pur nella morte, con i propri cari.

“Prima raccogliamo le informazioni dai testimoni – ci spiega l’antropologa turco-cipriota Istenc Engin – Poi gli archeologi procedono agli scavi. Con i resti trovati nel terreno si procede alla composizione del corpo, quindi all’esame del Dna. Poi non resta che avvisare le famiglie che il loro caro è stato trovato”.

Nei laboratori vengono raccolti anche gli oggetti personali trovati addosso ai cadaveri: bottoni, orologi, occhiali e denti d’oro. Altrettanti macabri indizi nel tentativo di dare un nome ai vari mucchi di ossa. Alcuni casi richiedono alcuni mesi, altre possono durare anche cinque o sei anni. Per evitare complicazioni politiche, la Commissione si limita a identificare i corpi, senza stabilire le cause della morte.

Quelle, spesso, vengono ipotizzate dai parenti di questi desaparecidos mediterranei, vittime di una guerra fratricida scoppiata fra comunità che fino a pochi anni prima di combattersi convivevano pacificamente.

Quelle, spesso, vengono ipotizzate dai parenti di questi desaparecidos mediterranei, vittime di una guerra fratricida scoppiata fra comunità che fino a pochi anni prima di combattersi convivevano pacificamente.

“Nel 1974 avevo vent’anni – ricorda George Iconomides, vicesegretario dell’Associazione pancipriota per le persone scomparse – I turchi sbarcarono proprio sulla spiaggia davanti a casa nostra. Quella sera ero andato al villaggio vicino con mio fratello. Quando tornammo a casa non trovammo più i nostri genitori né mai sorella: erano spariti. Da allora non li ho più visti. Ho chiesto alla Croce Rossa, al governo turco, alle Nazioni Unite ma non c’è stato niente da fare.”

Quindi fa una lunga pausa silenziosa, poi riprende a parlare. “Dopo la riapertura dei confini nel 2004 siamo ritornati a vedere la vecchia casa – racconta – Non ho riconosciuto il posto, poi l’ho trovata. Vi si era installata una famiglia di turchi, ma non ci hanno lasciati entrare.”

La storia di Iconomides è solo una delle tante che perseguitano la memoria di migliaia di ciprioti. Qualcuno lavora anche agli scavi.

È il caso di Andri, archeologa impiegata nelle ricerche alle fosse comuni: “Sono figlia di rifugiati, i miei genitori abitavano a nord ma a causa della guerra dovettero scappare – mormora mentre ci conduce alla sede delle Commissioni – È un lavoro molto duro: quando sognavo di fare l’archeologa non avrei mai immaginato di dover cercare le ossa dei miei parenti.”

Con il passare degli anni, però, i cadaveri riesumati sono stati quasi tutti identificati e il lavoro di scavo rischia di bloccarsi. La Turchia rifiuta di rivelare i luoghi delle sepolture, spiega a Gli Occhi della Guerra il commissario presidenziale cipriota per le persone scomparse, Fotis Fotiou. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha certificato i crimini di guerra, ma l’esercito di Ankara insiste a non comunicare le modalità delle esecuzioni sommarie.

Gli archeologi e i genetisti, sia turchi che greci, continuano a lavorare agli scheletri ancora da identificare. La ruspa gialla seguita a scavare. Ma quando avrà riesumato anche i sei cadaveri sepolti nel campo lungo l’autostrada, bisognerà convincere la Turchia ad aprire gli archivi militari. Gli ultimi testimoni ormai stanno morendo: la corsa contro il tempo è aperta."

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