Tom Waits in jazz

Tom Waits strumentale. E in jazz. E’ l’impresa realizzata dal pianista Glauco Venier nell’ultimo cd realizzato per i tipi di Artesuono. E senza scalare cime improvvisative tempestose né invalicate vette armoniche. Il tutto fatto in raffinata scioltezza, come se il mitico cantore della strada e degli ultimi, che ha reso la raucedine immaginifica poesia sonora, fosse di casa nella musica afroamericana con waltz (San Diego Serenade), 2/4 (Tango till they are sore), ballad (Lonely), swing (Just the right bulletts) e a quant’altro i songwriter più accreditati ci hanno abituato nel tempo ad apprezzare.

Millesimale, nel 4et a nome del jazzista, il contrabbasso di Alessandro Turchet in sinergia con la batteria di Luca Colussi. Alla tromba e al flicorno di Flavio Davanzo è affidato il ruolo dell’alter ego del pianoforte in un affiancamento dosato, mai prevaricante, quasi a restituire alla musica una sorta di parlato che la scelta stilistica effettuata a monte aveva giocoforza messo da parte puntando essenzialmente, il progetto, a riscoprire il Waits compositore.

Parallelo e distinto l’album Dodicilune di Serena Spredicato, una vocalist da tenere d’occhio e a tiro … d’orecchio fra le novità che la Puglia va sfornando a getto quasi continuo.

C’è il testo, cambia il contesto in My Waits. Tom Waits Songbook, disco che rispetta l’unità voce-suono della produzione artistica waitsiana ma ne offre una rilettura inedita data anzitutto dalla voce femminile tutta jazzy della Spredicato; fanno il resto i pregnanti colori timbrici del bandoneon di Gianni Iorio, la naturale percussività del drummer Pierluigi Villani, i giochi melodici della chitarra di Antonio Tosques a dar concretezza agli arrangiamenti “affrescati” con nitore dal bassista Pierluigi Balducci. Nel selezionato Songbook, al di là del dato musicale in senso stretto, ciò che rimarca è il rimando di quelle note al microuniverso di Waits. Un tributo, questo, dopo quelli di Scarlett Johansson e Vinicio Capossela, che non ne stravolge la visionarietà, né appanna la marginalità di quel mondo di figli di un dio minore cantato dall’autore californiano.

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