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Recentemente, nell’ambito di una serata musicale “revival” in un noto locale milanese, ho avuto occasione di conoscere il musicista Pasquale Canzi, meglio noto con il nome di Paki, del complesso “I Nuovi Angeli”.

La sua solarità mi porta istintivamente a chiedergli un’intervista per “Il Corriere del Sud” e lui, persona dai modi estremamente garbati, mi spiazza subito rispondendo: “Quando, ora? Andiamo…”

Ci spostiamo, quindi, in una zona più tranquilla, al riparo dai rumori e fra noi si crea subito l’atmosfera giusta, che poi mi consentirà di entrare nella sua anima, tanto innamorata della Musica, al punto di essere riuscito a mantenere sempre viva questa sua innata passione, con coerenza ed un impegno mai venuto meno.

Già dai suoi primi racconti, intuisco che Paki sia stato colpito dal cosiddetto “germe della creatività” sin dalla tenera età. Grazie alla sua precoce ispirazione creativa, a soli quattro anni riusciva ad imitare le note che ascoltava alla Radio, suonando il pianoforte a coda presente nella sua casa. All’età di sei anni i genitori, ben consapevoli del suo talento, lo iscrissero al Conservatorio di Milano, tracciando quello che poi sarà il suo futuro artistico.

D) Se non ti seguissi fin da quando ero bambina, stenterei a credere che sei presente nel panorama musicale italiano da mezzo secolo. Hai conservato un aspetto estremamente giovanile e l’accattivante sorriso di quando eri un ragazzino che, appena sedicenne, già frequentava con disinvoltura e talento le sale d’incisione. Appena uscito dal Conservatorio,dove conseguisti brillantemente il diploma in pianoforte, insieme ad un tuo amico, (che si chiama proprio come te!), fondasti il duo “Paki & Paki. Vorresti raccontarmi come e quando nacque in voi questa idea?

R) Tutto cominciò la mattina in cui decisi di marinare la scuola, insieme al mio amico Pasquale, con il quale condividevo la passione per la musica. Entrambi eravamo venuti a conoscenza di un bando di concorso per “voci nuove” indetto dal clan di Adriano Celentano e ci presentammo al provino con il brano “Un soldino per il juke box” di Gene Pitney. Dopo una ventina di giorni, con nostro sommo stupore, unito a quello dei rispettivi familiari, venne recapitata a mia madre una raccomandata, dove venivo convocato per l’audizione, cui seguì la formalizzazione del contratto discografico con la produzione del Clan Celentano. In seguito, passammo alla casa discografica La Voce del Padrone, con la quale incidemmo il nostro primo singolo nel gennaio del ’64, dal titolo “Lascia stare Susy”. Ancora sotto l’egida di Celentano, incidemmo la sigla del programma di Mike Bongiorno “La fiera dei sogni”. Il brano si chiamava “Allegria”, traendo spunto dalla storica frase del famoso presentatore. Seguì la partecipazione ad un programma con Giorgio Gaber che si chiamava “Questo e Quello” e andava in onda il sabato sera. Ma, nel frattempo, iniziavano ad arrivare richieste per concerti, quindi si presentò la necessità di un accompagnamento strumentale; pertanto, scegliemmo un gruppo di musicisti per accompagnarci, decidendo per noi il nome di “ Paki & Paki e i Nuovi Angeli”, proprio come un film ad episodi di Ugo Gregoretti del 1961.

Nel 1966 l’altro Paki, per incompatibilità professionali, uscì dal gruppo e rimasi l’unico cantante. Nacquero così “I Nuovi Angeli” non più come duo, bensì come complesso musicale, in linea con il genere “beat” allora tanto in voga, riscuotendo un successo sempre più crescente.

D) Quindi, i “Nuovi Angeli”, dei quali tu sei sempre stato leader e vero punto di forza, si costituirono proprio negli anni migliori del boom economico, quando tutto o quasi sembrava realizzabile, la gente sapeva ancora divertirsi e la diffusa positività lasciava ben sperare per il futuro. Numerosi furono i vostri successi, in vetta alla classifiche discografiche anche per mesi. Qual è il tuo personale ricordo di quegli anni?

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R)Un ricordo di successi inarrestabili, che percorre un periodo di circa dieci anni, dove immancabilmente ogni anno era presente un nostro brano in classifica. In quel periodo, vendemmo circa otto milioni di dischi, cifre da capogiro, numeri fantascientifici se riferiti al mercato odierno.

D) Con il tuo complesso sei stato contemporaneo dei Beatles e dei Rolling Stones ed altri gruppi, generalmente di provenienza anglosassone. Ci sono state opportunità od eventi in cui hai conosciuti alcuni di questi artisti?

R) Durante quegli anni viaggiammo molto, quindi ci furono mille possibilità di incontrare e condividere bei momenti con molti di loro; fra l’altro, con Joe Cocker e Ringo Star avevamo la stessa casa discografica. Ricordo l’incontro con Burt Bacharach, un grande nome della musica internazionale, come quelli con Wilson Picket, Dionne Warwick e tanti altri musicisti o complessi di allora. A proposito del Festival di Sanremo, per alcuni anni,al termine della serata di gara canora, la gente veniva a proseguire la serata in un famoso locale del centro, dove noi suonavamo fino all’alba ed in quelle particolari occasioni sono passati numerosi musicisti di fama.

D) Un domanda apparentemente banale: qual è la tua opinione nei confronti della musica straniera?

R) Innanzitutto, trovo che la musica straniera, in particolare quella di oltre oceano, sia molto più avanti rispetto alla nostra. Quindi, ritengo che sarebbe opportuno portare in giro per il mondo il “bel canto”, come da tempo fanno nostri bravissimi artisti, da Andrea Bocelli e Laura Pausini, utilizzando lo stile musicale che appartiene alla nostra migliore tradizione, anzichè controbatterla, come hanno scelto di fare altri, che scimmiottano i vari bluesman e rockers stranieri. Le fondamenta della musica italiana hanno basi completamente distanti dalle altre, partendo dal melodramma, fino ad arrivare all’opera lirica. I nostri compositori del passato, con le loro opere hanno reso famosa ed apprezzata nel mondo la qualità della nostra musica classica ed anche nell’ambito della musica cosiddetta leggera, i nostri cantanti hanno saputo farsi distinguere. Inoltre, dobbiamo tener presente che la fonetica della lingua italiana non si presta assolutamente alla trasformazione dei testi dall’inglese e questo rappresenta un ostacolo non facilmente superabile, quando il suono delle parole deve trovare un punto d’incontro con la “grammatica musicale”.

D) Sei un musicista con una preparazione accademica di tutto rispetto che conta collaborazioni di una certa caratura, come quella con Roberto Vecchioni. Vorresti parlarmene?

R) La collaborazione con Vecchioni è nata con “Donna Felicità”, scritta insieme a Renato Pareti e Andrea Lo Vecchio. Con questo brano partecipammo al “Disco per l’Estate 1971” ed arrivammo secondi al famoso “Festivalbar”, con vendite superiori ad un milione e mezzo di dischi. “Donna Felicità” fu tradotta anche in lingua spagnola e fece letteralmente il giro del mondo, diventando un successo non sono in Europa ma anche in Messico e in Argentina. Con il mio amico Roberto Vecchioni,ho avuto il piacere di arrangiare i brani di suoi tre album: “Elisir”, “Ipertensione” e “Samarcanda”. Conservo di questa esperienza un bellissimo ricordo, poiché l’arrangiatore deve decidere l’utilizzo di uno strumento al posto di altri ed è un po’ come un sarto, quando sceglie le sue stoffe. La decisione dell’arrangiamento è uno degli aspetti più importanti in un brano e rappresenta la fase essenziale per la sua buona riuscita. Un buon arrangiamento ha la capacità di trasformare, quasi magicamente, un banalissimo frammento melodico in un brano di eccelsa fattura. Allo stesso tempo, un arrangiamento sbagliato ha il potere di rovinare una canzone, penalizzandone i pregi e le qualità intrinseche. Se non mi fermi, potrei proseguire nei miei discorsi accademici, parlarti anche di solfeggio, se vuoi…

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D) Resto incantata dinanzi alle tue dettagliate spiegazioni e starei ad ascoltarti per ore…Mentre parlavi, mi si è posto dinanzi l’attuale mercato discografico, che sta attraversando una grave crisi. Questo anche a causa della pirateria, della quale tanto si parla ma nessuno fa nulla di concreto per contrastarla. Anche il web gioca un ruolo determinante, che abbatte ulteriormente le vendite dei dischi. A volte, ho nostalgia del vinile, sei d’accordo?

R) D’accordissimo! Anzi, aggiungerei una terza cosa: la crisi ha determinato anche un crollo della qualità, poiché i grandi autori non scrivono più e, quindi, ci si ripiega troppo spesso all’improvvisazione dei dilettanti, con risultati ben visibili.

D) Cosa ne pensi dei “Talent Show”, importati dagli Stati Uniti e grossolanamente copiati dalle nostre produzioni televisive?

R) Tempo fa il grande Elton John, a proposito di questo genere di programma ora tanto di moda, ha pronunciato una frase che, con molta umiltà, mi sento di condividere pienamente: “I Talent Show sono una fabbrica di illusioni prima e di delusioni dopo”. Non credo di dover aggiungere altro a tale illuminata affermazione, che mi trova totalmente in linea con l’intramontabile artista inglese.

D) In ogni percorso intergenerazionale dobbiamo fare i conti con le tendenze della moda e questo vale anche per la musica. Oggi ho l’impressione che si punti più sul “carpe diem” che sulla professionalità, così come veniva intesa fino alla fine degli anni ’90. Qual è il tuo pensiero al riguardo?

R) Oggi il prodotto discografico ha vita breve e ciò è determinato anche da un altro fattore molto importante, ovvero la cattiva educazione allo studio dai parte dei giovani. Un volta, sin da piccoli si doveva studiare, io ricordo che a sei anni facevo almeno due ore di solfeggio al giorno; adesso è cambiato il modo di ragionare, non si studia abbastanza, quindi, è pressoché assente la preparazione di base nello studio della musica, che consente di saper suonare e leggere. Questo determina la ricerca di scorciatoie inutili, madri dell’improvvisazione.

La gente, soprattutto nel nostro Paese, cerca di apparire per ciò che in realtà non è, in una sorta di downgrade culturale da parte di chi propone che, inevitabilmente, viene ereditato da chi ascolta. Nel 1987 andai in Corea come direttore d’orchestra e scrissi una partitura per ottanta elementi. Durante la stesura, cercai di semplificarla, nel timore che questi ragazzi potessero incontrare difficoltà, poiché il livello musicale era molto articolato e complesso. Ebbene, rimasi piacevolmente ammirato dalle loro straordinarie capacità, frutto di anni di studio. Questa è la dimostrazione evidente di quanto affermavo prima!

D) Sei una persona in continuo fermento, sempre motivata a fare progetti futuri. Quali sono i tuoi programmi a breve?

R) Da sempre,durante l’inverno si lavora per la programmazione degli eventi estivi, che mi vedranno in giro per tutte le piazze italiane e non solo insieme ai “Nuovi Angeli”, sempre all’insegna della buona musica. Il rapporto con il mio pubblico è talmente empatico e consolidato, che dopo tanti anni è entrato a far parte della mia famiglia.

D) Se un giovane artista oggi si rivolgesse a te per chiederti qualche consiglio, cosa ti sentiresti di suggerirgli?

R) Sarò estremamente conciso, solo tre parole: ascoltare, studiare, suonare.

 

A livello di arpa, modernamente intesa, un primo nome che balza in mente a chi scrive e' quello di Andreas  Vollenweider. Ma si è nel vasto campo ricompreso fra New Age e World Music. Nei combo's italiani un possibile riferimento e' quello di Genni Tommasi degli Etnoclassic, nei quali peraltro la componente classica ed etnica ispanica paiono in varie situazioni sovrastare quella jazz.
La novità della proposta discografica racchiusa nel cd Still Chime (Abeat ) sta intanto nell'approccio anzitutto jazzistico, anche se non solo tale, della musicista sarda Marcella Carboni. La sua arpa e' poi affiancata da una formazione che vede, oltre alla sinuosa voce di Francesca Corrias e alla batteria nervosamente compatta di Francesco D'Auria, il morbido contrabbasso del russo Yuri Goloubev e l'armonica eterea dell'ospite Max De Aloe: tutti protesi a fare il paio, in termini di melodia e flessuosità, col pizzicato delle corde, deputate a "risuonare ancora" come e con gli altri strumenti. Una musica di echi, dunque, di linee sonore invisibili appese fra Wonder e Carmichael, Ellington e Baden Powell, e brani degli stessi interpreti, che creano effetti di delicata suggestione. Per un progetto in cui sono equalizzati interventi e ruoli dei musicisti che partecipano all'album, i quali paiono professare il verbo di un jazz sussurrato, intimo, di scavo interiore, e di estese latitudini. Anche di genere: dove l'arpa, approdata a nuovi mondi ed atmosfere, conferisce un proprio proficuo contributo in tal senso.

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Un libro con due compact allegati, per il lavoro di un poeta calabrese messo in musica. La Nuova Santelli ha sfoggiato un'edizione di pregio per dare adeguata cornice alla nuova fatica di Gregorio Viglialoro, poeta, antropologo, critico d'arte, artista di estrema sensibilità: un FolkBook relativo al periodo 1958-1990. Dimostrando, in tal modo, come l'anima popolare non sia anticaglia culturale che per vivere anzi rivivere deve essere trapiantata su corpi nuovi od anche estranei dando luogo a coacervi non sempre riusciti. Certo la contaminazione non la si può evitare perché fa parte del nostro vivere quotidiano. Ed in tal senso recita il sottotitolo del volume, Dalla tradizione alla contaminazione. Ma è possibile ancora oggi che l'espressione poetica, in uno con quella musicale, venga fuori in modo naturale e naturalmente trasmetta il proprio messaggio senza necessariamente indulgere in nostalgie o attardarsi in vagheggiamenti di un passato bucolico ormai scomparso.
Viglialoro ha questa dote, conservativa e innovativa, di riprendere la tradizione e di ritrasmettere, con voce propria, in versi, storie usi idee impressioni attinenti aspetti sociali, familiari, socio politici, affettivi, domestici. Poetici, in una parola. Che con la collaborazione di musicisti accreditati fra cui il pianista Francesco Perri e la Serrensemble, divengono canti popolari, con tanto di partitura, da servire anche all'ascolto in una forma classicheggiante che nulla ha a che vedere con certe esecuzioni grezzamente rese che in molti casi banalizzano i contenuti, testuali e musicali, folkloristici. Il tutto è nobilmente adattato si' da dare il giusto risalto ai vari componimenti che, pur rifacendosi alla invenzione collettiva o anonima del popolo, vanno ascritti ad un Autore che vi ha trasfuso in pieno il proprio spirito poetico e la propria anima musicale. Con un'inflessione reggina che, fra Laureana e le terre grecaniche, ha un sapore d'antico.

Skelters, due dischi all'attivo, un cd e un e.t., un singolo in uscita "Siamo" assieme al relativo videoclip, dal 6 di novembre su Youtube e su varie piattaforme digitali.
Ma chi sono questi ragazzi di Calabria, che musica fanno, cosa si aspettano dal mondo dello spettacolo? Lo chiediamo a Domenico Martinis, chitarrista solista della band.
D.  Il termine Skelters, al di la' del significato letterale, sta esattamente per ... ?
R. E' il senso delle cose che scivolano via. Come nel brano omonimo dei Beatles. E' anche un tributo a loro, da parte nostra che siamo nati come formazione brit pop.
D. Come si riflette, il titolo, nella vostra musica?
R. Nei testi, anzitutto. Noi siamo un missione per conto di Dio, dicevano i Blues Brothers. Da parte nostra vorremmo dare dei messaggi alla gente, una comunicazione positiva, trasmettere i valori dell'amore. all you need is love, tanto per citare ancora i miti pop di Liverpool. In questo mondo frenetico, dove non ci si ferma, ci distraggono dal lato spirituale della vita, tentiamo di dare un peso alle
cose, piccole e grandi, che ti scivolano via tutto attorno attraverso la nostra musica.
D. Parliamo della esperienza sul palco con i Subsonica.
R. Molto positiva. Dal punto di vista musicale abbiamo assunto sonorità più elettroniche, suoni più curati, di tipo pop-rock.
D. E con Mogol, il Cet?
R. Si, l'ha avuta Giuseppe, il cantante, che in gran parte produce i testi, ama Beatles e Oasis, e fino a un certo punto scriveva in inglese. E' lui che, grazie a una borsa di studio presso la struttura di Mogol, ha maturato l'idea di scrivere in italiano.
Avendo deciso di stare qui in Italia meglio una lingua consona per il nostro target.
D. Siamo, il singolo in uscita, e' un brano che nell'epoca dei selfie pare di grande attualità ...
R. Un'idea del regista Paolo Ranzani; nonostante l'omologazione, i selfies dimostrano come si sia differenti, a partire da ognuno di noi. Il video e' molto eloquente, noi ci visualizziamo, in quanto artisti, in quanto giovani, in quanto persone.
D. Un mese di novembre pieno di impegni come concerti, fra cui Cosenza il 20 e Catanzaro il 22 poi altre tappe nel centro nord per il batterista Emanuele Russo, Luigi Longo, il basso, il frontman Giuseppe Russo, che completano la formazione. Tutti calabresi, di Catanzaro, ma milanesi d'adozione. Ma quanta Calabria vi è rimasta dentro?
R. Dal punto di vista caratteriale tutta, sul palco abbiamo grinta, siamo accesi, vivaci. Di certo dispiace esser dovuti andar via. Purtroppo la regione non offre molto come scena live tranne che per qualche locale. Spesso si preferiscono gruppi di cover band e non gruppi che propongono propri inediti, sia musica che testi. E noi Siamo e vogliamo essere musicisti. E questa la vita che abbiamo scelto. La musica e' la nostra vita.

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Cammina con le stampelle perché è stato colpito dalla poliomelite quando aveva solo un anno. Ma con lui c'è sempre una chitarra. Roberto Bignoli si siede, poi sorride. Lo fa non solo coi denti, lo fa con gli occhi. E quello è il sorriso che entra dentro chi gli sta davanti. Stringe le mani a chi lo saluta, poi stringe con affetto la chitarra. E inizia a cantare. La sua voce è roca, graffiante: scava l'anima ma è proprio questo il suo obiettivo. Perché le canzoni di Bignoli sono bellissime preghiere.

<<Annuncio il Vangelo nel modo più semplice del mondo>>, dice. <<Cantando. Uso la musica, la mia voce, il mio talento per parlare di Dio. Il sistema più spontaneo per raccontare la mia fede.>>

Roberto Bignoli, 58 anni, è una delle personalità più straordinarie del moderno panorama musicale. E' il maggiore esponente italiano della "christian music", nella sua carriera ha vinto cinque "UCMVA Unity Award", cioè i Grammy americani per la musica cristiana cattolica, ed è anche autore della sigla mondiale di Radio Maria, quella "Ballata per Maria" che un milione e mezzo di ascoltatori giornalieri ha imparato a conoscere così bene.

Alle spalle, Bignoli ha una storia che sembra uscita da un romanzo di Dennis Lehane. Nella sua vita, il cantautore ha sperimentato l'intera gamma delle emozioni umane: l'abbandono, la disperazione, la rabbia e la ribellione, la droga, il carcere e poi la speranza, la gioia, l'amore. Quello con la A maiuscola, quello di Maria. <<Ad un certo punto, la Madonna ha illuminato la mia vita e sono diventato un uomo sereno>>, dice.

Bignoli ha raccontato la sua storia in un libro appena uscito, intitolato "Il mio cuore canta", scritto con Andrea Pagnini, edito da Piemme. Un concentrato di fede, dramma, sorrisi e lacrime, musica e quella felicità cristallina che solamente chi sa affidarsi completamente alla Provvidenza del Cielo può manifestare. <<A volte mi sento come il brutto anatroccolo della fiaba>>, dice ancora Bignoli. <<Come una di quelle persone che la vita mette ai margini, sepolte dalla sofferenza, ma che poi scoprono l'Amore di Dio e si sentono rinascere, piene di una forza mai sperimentata prima.>>

<<Avevo un anno quando mi sono ammalato>>, continua Bignoli, <<Ma i miei non erano in grado di occuparsi di me e così fino a quindici anni sono vissuto in vari istituti. Crescevo senza il calore dell'amore di una famiglia e questo mi aveva incattivito. Ero ribelle, irrequieto, ringhioso come un lupo ferito. Solo nella musica trovavo un attimo di sollievo. A vent'anni facevo parte di vari gruppi contestatori, ragazzi che erano chiamati "freak". Girava la droga, e nello "sballo" tentavo di scappare via dalla solitudine che sempre era al mio fianco. La polizia mi arrestò perché avevo della "roba" in tasca e mi feci quasi un mese di galera. Ma non servì a farmi cambiare strada: ero terribilmente infelice e reagivo con aggressività. Cercavo risposte nell'hascisc, nell'LSD, nella violenza. Tutte strade senza meta. Non lo sapevo, ma Dio mi stava aspettando.

<<Suonavo in una band, le mie canzoni avevano successo e avevano colpito anche alcuni ragazzi del movimento carismatico “Rinnovamento nello Spirito”. Vennero a trovarmi e mi dissero "Gesù ti ama". Fu come se mi avessero dato un pugno in pieno volto. Vivevo sulle stampelle, ero stato in prigione, mi drogavo, ero arrabbiato con il mondo intero eppure, a quanto dicevano quei ragazzi, Gesù mi amava. Era incredibile ma nello stesso tempo irresistibile. Cominciai a frequentarli e qualche mese dopo andai con loro in pellegrinaggio a Medjugorje. Fu un'esperienza straordinaria. Ogni giorno mi trovavo di fronte gentilezza, disponibilità, generosità: cose alle quali non ero abituato. Un francescano, padre Slavko Barbaric, mi portò ad assistere all'apparizione e mentre i veggenti cadevano in ginocchio all'unisono, io mi sentii cambiare. Per la prima volta avvertii un senso di pace, di serenità. Era come un balsamo. Nel mio cuore, sentii che ero amato davvero, di un amore infinito e materno. Pregai come mai avevo fatto prima e chiesi alla Madonna la grazia di trovare una strada che finalmente desse un senso alla mia vita. E così è stato.

<<Da quel momento ho messo la mia musica al servizio di Dio>>, ha detto Bignoli. <<E il mio cuore non ha più smesso di cantare.>>

Foto Roberto Bignoli

 

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