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La psicologia e san Tommaso d'Aquino

Copertina_Marchesini_La psicologia e san Tommaso

Una delle tendenze culturali più insidiose degli ultimi decenni è stata senz'altro la formidabile ascesa della psicanalisi freudiana che è entrata a pieno titolo, in un arco di tempo relativamente breve, come magna pars della cultura mainstream. Libri di e su Freud affollano ormai gli scaffali di intere librerie mentre i suoi approcci e i suoi canoni interpretativi sono diventati nel frattempo intellettualmente condivisi sia dalla classe medica che dall'uomo della strada. Cinema, teatro e letteratura, da parte loro, hanno contribuito in modo tutt'altro che marginale a fare da preziosa cassa di risonanza a questa operazione (letteramente esplosa negli anni intorno alla Contestazione del 1968) rinnovando continuamente l'attualità dello studioso austriaco. Duole ammettere che a fronte di questo vero e proprio attacco frontale all'origine e allo scopo della natura e della persona umana che - nell'ottica freudiana - venivano ridotte unilateralmente alla sola dimensione materialistica (peraltro deformata) la risposta della comunità cristiana è stata per tanti, troppi anni un imbarazzato silenzio. Ben venga quindi questo volume di Roberto Marchesini (cfr. La psicologia e san Tommaso d'Aquino. Il contributo di padre Duynstee, Anna Terruwe e Conrad W. Baars, D'Ettoris Editori, Crotone 2013, pp. 88, Euro 9,90) che proseguendo un cammino avviato anni fa con lo studio e la diffusione degli scritti (inediti in Italia) dello psichiatra e psicologo austriaco Rudolf Allers (1883-1963), continua a proporre al grande pubblico, come agli specialisti, possibili voci alternative - scientificamente plausibili - ma decisamente fuori dal coro rispetto alle scuole psicanalitiche tuttora dominanti (e riconducibili non solo a Freud, ma anche allo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961)). Come spiega infatti il Segretario Generale della Federazione Internazionale delle Associazioni Mediche Cattoliche (FIAMC), Ermanno Pavesi, nell'“Invito alla Lettura” (pp. 9-14) che apre l'opera, la 'lezione' di Jung - accolta da numerosi discepoli e feconda di rilevanti conseguenze pratiche - è consistita perlopiù nel sostenere che “solo il distacco dal cristianesimo avrebbe consentito di scoprire la complessità dei dinamismi psichici e la loro conflittualità” (pag. 10), sancendo così l'addio a ogni residua possibilità di accordo tra i dati della Rivelazione e la moderna psicologia del profondo.

Contro questa interpretazione, però, si sono ammirevolmente battuti, fin dalla seconda metà del Novecento, due psichiatri cattolici olandesi, Anna Terruwe (1911-2004) e Conrad Baars (1919-1981) che hanno invece “riconosciuto la validità dell'antropologia di Tommaso d'Aquino” e hanno cercato, conseguentemente, “di conciliarla con le teorie della psicologia del profondo moderna” (pag. 14) arrivando a inquadrarne anche i principali disturbi clinici. Si tratta quindi di un lavoro pionieristico, ancora troppo poco noto in Italia e invece decisamente da rivalutare come scrive – a seguire – lo studioso argentino Martin F. Echavarrìa nella successiva “Presentazione” (pp.15-22). Ancora oggi, in effetti, “le filosofie, e in particolare le antropologie sulle quali si fondano la maggior parte delle scuole di psicoterapia, sono non soltanto lacunose, ma in generale apertamente contrarie alla sana ragione e a quello che sull'uomo ci insegna la Rivelazione” (pag. 16). Il dato fondamentale della centralità del libero arbitrio nelle azioni umane, ad esempio, o la dimensione costitutiva dell'essere umano quale “animale familiare” (pag. 20) che nasce e cresce all'interno di una famiglia, per citare solo due punti tra i tanti, vengono regolarmente oscurati dai 'professionisti' della psiche odierna secondo cui, tendenzialmente, la colpa o il male non derivano mai (o quasi mai) dal singolo che agisce contro ragione (e contro natura) ma dall'ambiente che lo circonda e lo plagia, dalla 'società', dalla 'scuola', dalle 'strutture', dallo 'Stato' eccetera. La famiglia quale prima cellula della società, nonché luogo essenziale di apprendimento del reale, poi, rappresenterebbe uno di quegli ostacoli da rimuovere per il 'libero' sviluppo del singolo e quindi qualcosa (comunque di 'culturale' e di costruito, non di biologico e preesistente) da combattere in ogni modo.

Ripercorrendone la biografia e la produzione bibliografica l'Autore spiega che i due studiosi olandesi si sono formati alla scuola del padre redentorista Willem Jacobus Antonius Joseph Duynstee (1886-1968), teologo morale di vaglia (fu docente e poi rettore dell'Università Cattolica di Nijmegen) che tenne coraggiosamente le posizioni dottrinali in anni certo non facilissimi per il cattolicesimo olandese. Fu grazie ai suoi iniziali studi critici, d'impostazione tomista, sulla teoria della repressione freudiana che Terruwe e Baars poterono in seguito elaborare dei solidi modelli clinici che, riprendendo la dottrina delle passioni dell'Aquinate, riuscivano a dare comunque conto dei risultati della più recente esperienza clinica mostrando come delle riflessioni più tardi confluite anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato da Giovanni Paolo II (1992) potessero essere suffragate anche da un punto di vista strettamente psicanalitico. Il bello è che, come spiega ancora Marchesini approfondendo la categoria ermeneuticamente-chiave, da un punto di vista terapeutico, degli 'atti liberi' - ovvero quelli determinati direttamente dalla volontà - “il concetto di peccato originale é fondamentale sia dal punto di vista antropologico e psicologico che da quello morale e penale” (pag. 66) nonostante la società contemporanea – come noto – si fondi in larga parte sull'assunto opposto, seguace com'è, in questo ma non solo in questo, dell'idea giustificazionista del pensatore ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) “secondo la quale l'uomo sarebbe buono per natura e senza peccato originale”. Anche qui, però, ricordando l'indimenticabile, e ancora di san Tommaso, “contra factum non valet argomentum”, le evidenze della realtà sembrano essere decisamente diverse rispetto all'ideologia di comodo. Chiudono l'opera una sintetica “Postfazione” del teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli e un'utile “Appendice” con la descrizione schematica di alcuni princìpi aristotelico-tomisti e della loro applicazione clinica. Il risultato finale è un riuscito 'antidoto' al pensiero unico e una salutare, c'è da sperare che sia solo agli inizi, inversione di tendenza nei nebulosi sentieri della psicanalisi dei giorni nostri.

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