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Mentre il Brain Training (l’allenamento del cervello) è diventato solo di recente un tema attuale, l’importanza dell’attività fisica gode già da tempo di una consolidata considerazione nella nostra società.

L’allenamento fisico non è solo un ‘must’ per i più giovani o per gli amanti del corpo palestrato, per chi vuole sfoggiare addominali o muscoli definiti. Lo sportha assunto un ruolo sempre più importante nella vita quotidiana anche di tutti coloro che hanno deciso di abbracciare la filosofia di uno stile di vita corretto e che vogliono unire ad una buona alimentazione anche del sano movimento.

Partendo dai benefici sul funzionamento del cuore e dagli equilibri cardiovascolari, fino ad arrivare ai muscoli tonificati e al miglioramento del funzionamento generale del nostro organismo, l’attività sportiva è diventata uno strumento chiave del quotidiano, per mantenersi attivi e in salute, non solo per chi avanza con l’età. Sull’importanza di praticare sport c’è un gran consenso generale: l’invigorimento fisico porta a vivere una vita più lunga e sana e serena.

Con occhi ancora un po’ pieni di sfiducia viene invece visto il brain training, l’allenamento del cervello. Sulla sua efficienza le opinioni si spaccano in tendenze opposte, anche se lo stesso cerca con le filosofie di nuova generazione di farsi largo tra la folla e raggiungere un posto in prima fila, accanto alla cura e al mantenimento del corpo.

La parola 'brain training' è stata coniata nel 1980 da Siegfried Lehrl, psicologo tedesco che si è occupato nei suoi studi della misurazione e delle variazioni delle prestazioni mentali sia nelle persone sane che in quelle malate. Anche se l’introduzione di una parola apposita risale solo a tempi recentissimi, l’idea in sé risale già a tempi più antichi.

A differenza di un computer che memorizza dati e informazioni e impara una sola volta tutto ciò che deve, il cervello è molto più simile ad un muscolo che obbedisce alla stessa regola di base di tutti gli altri muscoli del nostro corpo: "use it or loseit". L'idea in sé potrebbe sembrare deprimente, ma l'analogia va oltre: comportandosi esattamente come un muscolo, il cervello può essere portato non solo a tornare in forma, ma anche ad avere una prestazione notevolmente migliorata.

Secondo diversi studi, il cervello raggiunge tra i 16 e i 25 anni d’età il suo livello maggiore di intelligenza e capacità di prestazione. Giochi e Rebus come Sudoku o le parole crociate vengono considerati dei passatempi interessanti e utili per le persone che vogliono tenere sveglia la mente.

Copertina_Marchesini_La psicologia e san Tommaso

Una delle tendenze culturali più insidiose degli ultimi decenni è stata senz'altro la formidabile ascesa della psicanalisi freudiana che è entrata a pieno titolo, in un arco di tempo relativamente breve, come magna pars della cultura mainstream. Libri di e su Freud affollano ormai gli scaffali di intere librerie mentre i suoi approcci e i suoi canoni interpretativi sono diventati nel frattempo intellettualmente condivisi sia dalla classe medica che dall'uomo della strada. Cinema, teatro e letteratura, da parte loro, hanno contribuito in modo tutt'altro che marginale a fare da preziosa cassa di risonanza a questa operazione (letteramente esplosa negli anni intorno alla Contestazione del 1968) rinnovando continuamente l'attualità dello studioso austriaco. Duole ammettere che a fronte di questo vero e proprio attacco frontale all'origine e allo scopo della natura e della persona umana che - nell'ottica freudiana - venivano ridotte unilateralmente alla sola dimensione materialistica (peraltro deformata) la risposta della comunità cristiana è stata per tanti, troppi anni un imbarazzato silenzio. Ben venga quindi questo volume di Roberto Marchesini (cfr. La psicologia e san Tommaso d'Aquino. Il contributo di padre Duynstee, Anna Terruwe e Conrad W. Baars, D'Ettoris Editori, Crotone 2013, pp. 88, Euro 9,90) che proseguendo un cammino avviato anni fa con lo studio e la diffusione degli scritti (inediti in Italia) dello psichiatra e psicologo austriaco Rudolf Allers (1883-1963), continua a proporre al grande pubblico, come agli specialisti, possibili voci alternative - scientificamente plausibili - ma decisamente fuori dal coro rispetto alle scuole psicanalitiche tuttora dominanti (e riconducibili non solo a Freud, ma anche allo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961)). Come spiega infatti il Segretario Generale della Federazione Internazionale delle Associazioni Mediche Cattoliche (FIAMC), Ermanno Pavesi, nell'“Invito alla Lettura” (pp. 9-14) che apre l'opera, la 'lezione' di Jung - accolta da numerosi discepoli e feconda di rilevanti conseguenze pratiche - è consistita perlopiù nel sostenere che “solo il distacco dal cristianesimo avrebbe consentito di scoprire la complessità dei dinamismi psichici e la loro conflittualità” (pag. 10), sancendo così l'addio a ogni residua possibilità di accordo tra i dati della Rivelazione e la moderna psicologia del profondo.

Contro questa interpretazione, però, si sono ammirevolmente battuti, fin dalla seconda metà del Novecento, due psichiatri cattolici olandesi, Anna Terruwe (1911-2004) e Conrad Baars (1919-1981) che hanno invece “riconosciuto la validità dell'antropologia di Tommaso d'Aquino” e hanno cercato, conseguentemente, “di conciliarla con le teorie della psicologia del profondo moderna” (pag. 14) arrivando a inquadrarne anche i principali disturbi clinici. Si tratta quindi di un lavoro pionieristico, ancora troppo poco noto in Italia e invece decisamente da rivalutare come scrive – a seguire – lo studioso argentino Martin F. Echavarrìa nella successiva “Presentazione” (pp.15-22). Ancora oggi, in effetti, “le filosofie, e in particolare le antropologie sulle quali si fondano la maggior parte delle scuole di psicoterapia, sono non soltanto lacunose, ma in generale apertamente contrarie alla sana ragione e a quello che sull'uomo ci insegna la Rivelazione” (pag. 16). Il dato fondamentale della centralità del libero arbitrio nelle azioni umane, ad esempio, o la dimensione costitutiva dell'essere umano quale “animale familiare” (pag. 20) che nasce e cresce all'interno di una famiglia, per citare solo due punti tra i tanti, vengono regolarmente oscurati dai 'professionisti' della psiche odierna secondo cui, tendenzialmente, la colpa o il male non derivano mai (o quasi mai) dal singolo che agisce contro ragione (e contro natura) ma dall'ambiente che lo circonda e lo plagia, dalla 'società', dalla 'scuola', dalle 'strutture', dallo 'Stato' eccetera. La famiglia quale prima cellula della società, nonché luogo essenziale di apprendimento del reale, poi, rappresenterebbe uno di quegli ostacoli da rimuovere per il 'libero' sviluppo del singolo e quindi qualcosa (comunque di 'culturale' e di costruito, non di biologico e preesistente) da combattere in ogni modo.

Ripercorrendone la biografia e la produzione bibliografica l'Autore spiega che i due studiosi olandesi si sono formati alla scuola del padre redentorista Willem Jacobus Antonius Joseph Duynstee (1886-1968), teologo morale di vaglia (fu docente e poi rettore dell'Università Cattolica di Nijmegen) che tenne coraggiosamente le posizioni dottrinali in anni certo non facilissimi per il cattolicesimo olandese. Fu grazie ai suoi iniziali studi critici, d'impostazione tomista, sulla teoria della repressione freudiana che Terruwe e Baars poterono in seguito elaborare dei solidi modelli clinici che, riprendendo la dottrina delle passioni dell'Aquinate, riuscivano a dare comunque conto dei risultati della più recente esperienza clinica mostrando come delle riflessioni più tardi confluite anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato da Giovanni Paolo II (1992) potessero essere suffragate anche da un punto di vista strettamente psicanalitico. Il bello è che, come spiega ancora Marchesini approfondendo la categoria ermeneuticamente-chiave, da un punto di vista terapeutico, degli 'atti liberi' - ovvero quelli determinati direttamente dalla volontà - “il concetto di peccato originale é fondamentale sia dal punto di vista antropologico e psicologico che da quello morale e penale” (pag. 66) nonostante la società contemporanea – come noto – si fondi in larga parte sull'assunto opposto, seguace com'è, in questo ma non solo in questo, dell'idea giustificazionista del pensatore ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) “secondo la quale l'uomo sarebbe buono per natura e senza peccato originale”. Anche qui, però, ricordando l'indimenticabile, e ancora di san Tommaso, “contra factum non valet argomentum”, le evidenze della realtà sembrano essere decisamente diverse rispetto all'ideologia di comodo. Chiudono l'opera una sintetica “Postfazione” del teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli e un'utile “Appendice” con la descrizione schematica di alcuni princìpi aristotelico-tomisti e della loro applicazione clinica. Il risultato finale è un riuscito 'antidoto' al pensiero unico e una salutare, c'è da sperare che sia solo agli inizi, inversione di tendenza nei nebulosi sentieri della psicanalisi dei giorni nostri.

Breve-storia-della-bioetica-b

 

È il 1927 quando un pastore protestante tedesco, Fritz Jahr, pubblica uno scritto dove compare, per la prima volta, il termine bioetica. Ma i tempi non erano ancora maturi e questo termine scompare rapidamente per riaffiorare nel 1970 grazie all’oncologo statunitense Van Resselaer Potter al quale viene attribuita la paternità del neologismo. Con questa notizia, che ribalta le conoscenze sull’origine del termine bioetica, si apre il volume di Fabrizio Turoldo, Breve storia della bioetica (ed. Lindau, 2014) che si affianca ad altre pubblicazioni sul tema ma con un taglio che lega la storia all’attualità e ne fanno un testo utile in un momento in cui le tematiche che vanno dalla fecondazione assistita all’eutanasia, dall’aborto chimico all’ingegneria genetica, arrivano tutti i giorni sui media.

Sono proprio gli avvenimenti più eclatanti della nostra storia che portano l’attenzione, all’inizio sull’etica medica, già alla fine degli anni ’40. Durante il Processo di Norimberga entra prepotentemente in campo il discorso sulla liceità di certe pratiche mediche e poi il tema dell’aborto e via via fino ad oggi. Gli anni ’60 risultano essere quelli decisivi per la nascita della bioetica che supera i confini dell’etica medica e si pone in parallelo con i movimenti per i diritti civili. Infatti, sono proprio attivisti di questi movimenti che iniziano ad occuparsene attaccando il paternalismo medico e facendosi promotori della rivendicazione del principio di autonomia del paziente. Alcuni scandali (abusi nella ricerca farmacologica e in campo sperimentale) provocano una grave crisi di fiducia nei confronti della classe medica che porta alla nascita di commissioni ad hoc, la prima delle quali viene istituita dal presidente Nixon il 12 luglio 1974.

Il progresso tecnologico (dialisi, nuove tecniche rianimatorie, nuovi farmaci, trapianti) impone di rivedere e discutere tematiche quali la ridefinizione del concetto di morte e la nuova crisi economica degli anni settanta complica ulteriormente le cose. La scarsità di risorse riduce notevolmente l’intervento dello Stato anche nel campo medico portando a riflettere sul fatto che ci dovessero essere dei limiti alle richieste di cure. Sono gli anni nei quali arriva sul mercato la contraccezione chimica e si diffonde la liberalizzazione dell’aborto, sin arriva anche alla chiusura dei manicomi, tutte questioni che vedono i bioeticisti in campo con l’inizio di contrapposizioni interne.

Infatti non tutti vedono con favore queste novità e, in questo periodo si ha anche l’uscita dei teologi che vengono sostituiti dai filosofi con l’ingresso nel dibattito dei concetti di persona, di diritto alla vita, ecc. con categorie tipicamente filosofiche.

L’uscita dei teologi, che avevano riempito uno spazio lasciato vuoto accanto ai medici, e l’arrivo dei filosofi orienta il dibattito in una direzione laica e secolare fino ad una vera e propria politicizzazione della bioetica quando scoppiano delle vere e proprie «culture wars».

Arriviamo così all’attualità quando i casi Terry Schiavo negli Usa e Eluana Englaro in Italia portano a contrapposizioni politiche nette con interventi della magistratura in opposizione a leggi dello Stato.

A questo si aggiunge che, dopo la fine delle ideologie conseguenti al crollo del Muro di Berlino, lo scontro politico ed elettorale si gioca anche su questioni bioetiche (fintanto che era presente un partito cattolico al potere erano passate leggi come quella sul divorzio e l’aborto senza problemi a livello parlamentare ) e dagli anni 90 il dibattito si fa più libero e acceso. Culmina con la Legge 40 e il referendum successivo, vanificati entrambi dagli interventi della magistratura (è storia di questi giorni).

Sempre in questi anni si sono avute, fino alle recenti discussioni sul metodo Stamina, accese contrapposizioni su trattamenti discutibili (Siero Bonifacio, metodo Di Bella) e strumentalizzati dai partiti politici col pessimo risultato di una politicizzazione della ricerca a detrimento di quest’ultima.

Da ultimo il discorso sulle biotecnologie e la nuova eugenetica positiva. È qui che si gioca il futuro dell’umanità con la possibilità di modificare (qui sta la distinzione con l’eugenetica classica) le caratteristiche dell’uomo apportando miglioramenti, selezionando caratteristiche che modificano l’individuo scegliendo quella che sarà la “vita migliore”. Qui i bioeticisti dovrebbero intervenire perché è in gioco molto di più della salute fisica è in campo la volontà dei genitori di modificare a loro piacere le caratteristiche dei figlio tenendo conto solamente delle loro aspettative: si perde così il senso dell’accoglienza di un dono, di una sorpresa, con la pretesa arrogante di programmare il futuro e il destino dei propri figli.

Il volume di Turoldo, docente di bioetica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, non si dilinga in commenti, ma descrive con rigore scientifico la storia, il presente e il futuro della bioetica legata al presente e al futuro dell’umanità. Un volume indispensabile per capire dove stiamo andando e perché ci stiamo incamminando su questa pericolosa strada.

index

 

Fra i tre padri principali del Big Bang, Georgij Antonovich Gamow (1904-1968), sicuramente, è stato il più eccentrico, il più stravagante, una specie di istrione dedito al gioco ed anche, un po’, all’alcool. La sua vita è piena d’avventura; la sua insaziabile curiosità intellettuale, lo portò, nel corso della sua carriera, a interessarsi anche in campi molto lontani dalla cosmologia, quali gli studi sul Dna. Inoltre, fu un eccellente divulgatore; pagò questa sua versatilità, con una considerazione non sempre altissima, da parte del mondo accademico, dei suoi effettivi meriti scientifici: tuttavia, come vedremo, ai suoi valentissimi collaboratori, Ralph Alpher (1921-2007) e Robert Hermann (1914-1997), andò anche peggio…

Nato a Odessa, sul mar Nero, da genitori insegnanti, a soli nove anni, rimase orfano di madre: da allora, il padre ne curò la formazione scientifica. Nel 1922, si iscrisse alla locale Università, intraprendendo studi di matematica, fisica e astronomia. L’anno seguente, 1923, si trasferì a Leningrado, ove rimase fino al 1929: lì, ebbe la fortuna di avere come maestro proprio Alexander Friedmann (1888-1925), lo scopritore dell’espansione dell’universo. Dal 1926, spiega il fenomeno della radioattività naturale. Per meriti scientifici, vince una borsa di studio a Copenaghen, con Niels Bohr (1885-1962). Qui pose le basi teoriche della fissione nucleare, sviluppata in seguito dallo stesso Bohr con John Wheeler (1911-2008). Per l’anno accademico 29-30, grazie all’interessamento di Bohr, ottiene una borsa di studio all’università di Cambridge, dove elaborò una formula sulle trasformazioni nucleari interne alle stelle, che ancora oggi è usata, per la fabbricazione della potentissima bomba (H), a idrogeno. Per tutti questi meriti scientifici, fu osannato e richiamato in patria nel 1931; la Pravda gli dedicò una poesia e un altro giornale arrivò a scrivere: ” Un compagno sovietico ha mostrato all’Occidente che il suolo russo può generare i suoi Platone e i suoi Newton di mente acuta”. Tuttavia, Gamow, come abbiamo visto, per carattere e temperamento, non era certo il tipo che potesse trovarsi bene nelle compassate università sovietiche. Nella Mosca dell’epoca, contrariamente a quanto era propagandato in Occidente, non vi era alcuna libertà scientifica; qualsiasi “fatto”accertato doveva essere filtrato e inquadrato attraverso le categorie del materialismo dialettico, ispirate dalla dottrina marxista-leninista, pena l?insignificanza sociale, accademica o il carcere e addirittura la morte. Piegare la verità scientifica alle esigenze previe della politica, per uno scienziato libero come Gamow, era semplicemente intollerabile: decise di fuggire dalla “patria”sovietica. D’altronde, occorre ricordare, che stiamo parlando degli anni trenta, quelli delle grandi purghe staliniane. Solerti e occhiuti funzionari di stato vigilavano attentamente, affinché il dogma marx-leninista fosse rispettato. Il modello del Big Bang era visto con il fumo negli occhi; quel suo postulare un “inizio”, sapeva troppo di Genesi, di creazione, dunque di Creatore. Il che era assurdo per una dottrina ateista, che aveva postulato l’eternità della materia e l’infinità dell’Universo per “sfuggire”all’idea di una creazione. Uno dei funzionari più zelanti, Andrej Zdanov, aveva così riassunto la posizione ufficiale dell’unione sovietica, nei confronti del Big Bang: ”I falsificatori della scienza vogliono riproporre la favola dell’origine del mondo dal nulla”. Ebbe il compito di trovare e punire chi appoggiava questa teoria e che definiva, sprezzantemente, “agenti di Lemaitre”. Perseguitò e condannò a morte il valente astrofisico Nikolaj Kozyrev (1908-1983), per essere un aperto sostenitore del modello del Big Bang, pena poi commutata nella prigionia in un campo di lavoro, a seguito delle forti pressioni internazionali. Tragica, invece, fu la sorte toccata ad altri due sostenitori del Big Bang: il matematico Vsevolod Frederiks (1885-1944) e il fisico Matvei Bronstein (1906-1938), il primo a intuire che la gravità quantistica richiedeva una revisione totale dei concetti di spazio-tempo. Il primo morì di stenti, dopo sei anni di lavori forzati, il secondo fu fucilato direttamente con l’accusa di spionaggio, nel 1938, a soli trentadue anni Quanto appaiono “risibili”, al confronto, le accuse che il marxista Bertolt Brecht (1898-1956), lanciò al pensiero cattolico nella sua celebre Vita di Galileo, redatta, nella sua prima stesura, proprio nel 38-39: un’opera nella quale ogni battuta crede di evidenziare la luce della ragione che lotta per uscire dal buio della superstizione. Dove, naturalmente, la superstizione è incarnata dal pensiero cattolico e la luce da quel marxismo, che negli stessi giorni, e non tre secoli prima, condannava a morte, chi, seguendo i fatti, ne contraddiceva i postulati. Ovviamente, la cultura dominante è riuscita quasi a cancellare la memoria della tragica fine di Frederiks e Bronstein, - un sondaggio condotto in tal senso, sicuramente produrrebbe risultati interessanti…- in pieno novecento. Diversamente, è riuscita a convincere l’uomo della strada, che è stata la Chiesa del seicento, con la “condanna”- a vivere in una villa chiamata, non a caso, il Gioello e a recitare, ogni giorno, i sette salmi penitenziali…- di Galileo- il quale, nello specifico, non addusse nessuna prova cruciale a favore delle sue tesi copernicane-, il prototipo e il baluardo di ogni oscurantismo! Noi cattolici, sempre pronti ad auto flagellarci, accettando supinamente, ogni accusa proveniente dal mondo laico, autorelegandoci, così, all’insignificanza culturale, dovremmo riflettere con attenzione su queste cose. Comprenderemmo, come spesso siamo ingannati dalla maggior parte della storiografia attuale… Per chi avesse dei dubbi, basta leggere la dichiarazione di un astronomo allineato alle posizioni del partito Comunista sovietico, V.E.Lov, che riferendosi al Big Bang lo descrisse come un cancro che corrode la moderna teoria astronomica e il principale nemico ideologico della scienza materialistica. Chiaramente, rebus sic stantibus, Gamow progettò la sua fuga dall’Unione Sovietica. Assieme alla moglie, Lyubov Vokhminzeva (1909-1985), anche lei fisico, tentò di attraversare, su di un minuscolo kayak, i 250 km di mare che separavano Odessa dalla Turchia: ma dopo un giorno e mezzo tranquillo, il maltempo li costrinse a tornare indietro. Tentò nuovamente di fuggire attraverso le acque gelate della Norvegia, ma fallì ancora. Così cambiò strategia. Dato il suo prestigio internazionale, fu invitato alla conferenza annuale di Solvay, per i fisici, a Bruxelles; riuscì a portarci, sfruttando un cavillo burocratico, anche la moglie e le porte dell’Occidente si aprirono per lui. Non tornò più in Unione Sovietica e si stabilì all’Università di Washington, dove poté studiare con calma i problemi concernenti, l’ipotesi del Big Bang. Naturalmente, Gamow operò nell’ambito dei modelli cosmologici di Friedmann-Lemaitre. Tuttavia, seppe, essere originale, andando a completare il lavoro dei suoi illustri predecessori; del primo, era stato addirittura allievo, al secondo rese omaggio, con un’ampia citazione, in quella che è forse la sua opera divulgativa più celebre, La creazione dell’Universo. L’approccio di Friedmann era stato prevalentemente matematico, Lemaitre, invece, aveva costruito il grosso dell’edificio, intuendo, per primo, il collegamento tra fisica delle particelle e cosmologia, postulando, anche, un Universo primordiale molto denso. Lo specifico di Gamow, diversamente, fu quello di aggiungervi il concetto di temperatura. Sviluppò un modello di Universo, sempre nell’ambito del Big Bang, radiativo caldo. Partendo, correttamente, da un’evidenza osservativa, cioè la composizione chimica dell’attuale Universo, si chiese, se l’abbondanza osservata degli elementi, sia leggeri sia pesanti, potesse essere spiegata dall’ipotesi del Big Bang.

Ricordiamo brevemente, che ogni diecimila atomi di idrogeno, ne osserviamo mille di elio, sei di ossigeno, uno di carbonio e il resto degli elementi della Tavola periodica che, messi assieme, non arrivano al carbonio. Pertanto, ipotizzò che le condizioni iniziali, molto dense e calde, del Big Bang fossero indispensabili, per innescare processi di trasformazione dell’idrogeno in elio e, progressivamente, negli atomi più pesanti. Giunse a questa conclusione, studiando con profondità il lavoro pionieristico sulla fusione stellare di Hans Bethe (1906-2005) e Fritz Houtermans (1903-1966): si accorse, infatti, che le stelle sarebbero state troppo lente nel “cuocere”, anche soltanto l’elio. Concluse, così, che l’idrogeno e l’elio dovevano essere già presenti al momento del Big Bang. Inoltre, le stelle non potevano spiegare nemmeno l’esistenza degli elementi più pesanti: questi limiti intrinseci ai processi di fusione stellare, spinsero Gamow a cercare un legame tra la nucleo sintesi degli elementi pesanti e il Big bang. L’intuizione fu semplice, ma non banale. Partì dalla concentrazione di materia osservata dagli astronomi; poi, considerò il tasso di espansione dell’universo, misurato da Hubble, e “riavviò” il film cosmico all’indietro, “osservando”, con l’ausilio di una matematica semplice, cosa accadeva all’universo man mano, che ci si spostava verso il suo istante iniziale. In questo modo, era in grado di calcolare la densità media del cosmo, qualunque fosse l'età dell’universo. Risultato: l’universo iniziale era molto più caldo e denso di quello attuale. L’immagine usata, fu quella di una pompa di bicicletta, che si riscalda man mano che insuffla aria nella ruota. Correttamente, date le temperature in gioco, suppose che la miscela iniziale dell’universo, dovette essere formata da protoni, neutroni ed elettroni: questi ultimi, infatti, a causa delle enormi energie in gioco non riuscivano a combinarsi con neutroni e protoni, per formare nuclei stabili. D’altra parte, aveva capito che l’universo non poteva “raffreddarsi” troppo, altrimenti le energie disponibili sarebbero state troppo basse per permettere la fusione dei nuclei. Stabilì, dunque, un primo importante limite: la nucleosintesi, poteva avvenire solo quando l’universo si sarebbe “raffreddato”da temperature di alcuni miliardi di miliardi di gradi, ma rimanendo, comunque, sopra alcuni milioni di gradi. L’altro limite, da lui individuato, riguarda la vita media dei neutroni, che al di fuori di un nucleo atomico, ES l’elio, è di soli dieci minuti; questo significava, che entro un’ora dalla creazione, quasi tutti i neutroni si sarebbero trasformati in protoni, se non avessero trovato una “sistemazione” con altri protoni, per formare nuclei stabili. I neutroni, ricordiamolo, sono elementi fondamentali per la nucleo sintesi, ma per essere prodotti, a loro volta, richiedono una reazione nucleare strettamente correlata a una data temperatura. La situazione si complicava ulteriormente, dunque; Gamow aveva già fatto molto, era un grande fisico, ma non altrettanto valente matematico. Per dirimere la questione della nucleo sintesi, occorrevano calcoli nucleari che richiedevano strumenti matematici ben più complicati, di là della portata di Gamow: stava per scoccare l’ora di Ralph Alpher e Robert Hermann. (fine prima parte)

Lemaitre

 

Georges Edouard Lemaitre (1894-1966), nacque il 17 luglio 1894 a Charleroi, una città belga. Appartenente a una famiglia medio - borghese, compì studi classici nel collegio gesuitico della città natale. Inizialmente, orientò la sua formazione universitaria verso l’ingegneria; a seguito dell’invasione tedesca del Belgio, si arruolò volontario, dal 1914, nell’artiglieria. Ritornò a casa, nel 1919, profondamente cambiato; l’esperienza della guerra ne aveva segnata l’anima e decise di farsi sacerdote cattolico. Anni dopo, in un’intervista rilasciata al New York Times, a proposito della sua vocazione religiosa, disse: «C’erano due vie per giungere alla verità, e ho deciso di percorrerle entrambe (.) La scienza non ha cambiato la mia fede nella religione e la religione non ha mai contrastato le conclusioni ottenute dai metodi scientifici». Decise di mutare anche indirizzo di studi, passando alle scienze fisico-matematiche dove dimostrò un talento superiore. Contemporaneamente, perfezionò la sua preparazione filosofica sotto la guida del celebre card. Desireè Mercier (1851-1926), conseguendo il baccalaureato in filosofia tomista all’Istituto Superiore di Filosofia, a Lovanio. Seguendo le indicazioni del padre, antepose gli studi accademici al seminario, dove entrò nel 1920; dopo soli tre anni, fu ordinato sacerdote. Durante quel triennio, i superiori gli permisero di occuparsi di scienza: lesse tutto quanto era disponibile sulla Relatività di Albert Einstein (1879-1955). Partecipò e vinse, con un’opera sugli scritti del grande fisico tedesco, a un concorso internazionale che metteva in palio una borsa di studio all’estero: fu la sua fortuna. Partì verso Cambridge, in Inghilterra, nell’anno accademico 23-24, per studiarvi astronomia, col grande sir Arthur Stanley Eddington (1882-1944), che giocherà, come vedremo, nel bene e nel male, un ruolo cruciale nella sua carriera scientifica. Dopo aver seguito anche i corsi del fisico Ernest Rutherford (1871-1937), l’anno seguente andò in America, dove studiò le stelle variabili al collegio di Harvard, diretto da Harlow Shapley (1885-1972) e contemporaneamente si iscrisse al celebre M.I.T., per conseguirvi un dottorato in fisica. La permanenza negli Stati Uniti sarà decisiva nella formazione di Lemaitre; infatti, fra le altre cose, riesce ad assistere, sul finire del 24 e prima di far ritorno a Lovanio, nel 25, alla celebre conferenza di Washington. A quell'assise, il più grande astronomo dell’epoca, Edwin Hubble (1889-1953), inviando una lettera con le sue scoperte, metteva fine al cosiddetto “Grande Dibattito”. Annunciò, che in seguito alla scoperta di Cefeidi- un particolare tipo di stelle variabili, nelle quali il periodo, cioè l’intervallo tra due picchi di luminosità, è proporzionale alla magnitudine assoluta, che confrontata con quella apparente, ci dà la sua distanza -, nella nebulosa NGC6822, era stato dimostrato che queste, erano sistemi stellari analoghi alla nostra Via Lattea e, a essa, ovviamente, esterni. Celebre è rimasta la sua conclusione, scritta in un articolo, sempre nel 25, per l’Astrofisical Journal, intitolato, NGC 6822, a Remote stellar system, nel quale parlando di questa nebulosa e riferendosi alle accurate misurazioni, in essa eseguite, dice: «The first system definitely assigned to the regions outside the galactic system», cioè, il primo oggetto definitivamente assegnato a una regione esterna al sistema galattico. La scoperta di galassie esterne alla nostra, in una mente fertile come quella di Lemaitre, capace di integrare alla perfezione i dati sperimentali, con gli aspetti teorici di una disciplina, fece scoccare, in lui, la scintilla creativa: comprese immediatamente che una simile scoperta avrebbe avuto delle conseguenze per la cosmologia relativistica. Questo risultato, combinato con quanto, sin dal 1912, andavano studiando gli astronomi Vesto Slipher (1875-1969) e Shapley, che misurarono su ben 36 nebulose uno spostamento verso il rosso delle righe spettrali, interpretabile- alla luce dell’effetto Doppler-Fizeau-, come una fuga, un allontanamento di queste nebulose. In pratica, la luce emessa da una sorgente a una determinata frequenza, varia, e si sposta verso il rosso, se la stessa sorgente si allontana rispetto all’osservatore. Nel 1922, ne parlò Eddington nel suo fondamentale volume Teoria matematica della relatività, limitandosi, però, a parlare del fenomeno senza azzardare alcuna interpretazione cosmologica. Qui abbiamo una prima prova del grande genio di Lemaitre; a differenza di Alexander Friedmann (1888-1925) - interessato, per lo più, agli aspetti matematici delle teorie-, decise di combinare assieme la globalità dei dati osservativi disponibili all’epoca, in ciò favorito dalla sua presenza al M.I.T., con l’enorme predisposizione per gli aspetti teoretici, traendone, così, il suo primo articolo, pietra miliare della moderna cosmologia: «Un Universo costante e di raggio crescente, che giustifica la velocità radiale delle nebulose extragalattiche». Era il 1927 e Lemaitre, non solo aveva ri-scoperto, in maniera del tutto indipendente, le soluzioni non statiche delle equazioni di Einstein, come Friedmann ma, primo al mondo, le aveva, giustamente, collegate alle “apparenti” velocità di fuga delle nebulose, misurate sperimentalmente; velocità di fuga che, nessuno prima di lui, aveva avuto il coraggio di interpretare cosmologicamente: il “paradigma” di un universo eterno e statico, paralizzava, filosoficamente, anche le menti migliori. In questo modo, preparò un modello di universo nel quale il raggio cresceva in funzione del tempo; inoltre, fu capace di derivare per primo la famosissima relazione tra spostamento verso il rosso delle righe spettrali e distanza delle galassie, che due anni più tardi sarà pubblicata e, da allora universalmente conosciuta, come “legge di Hubble”. Qui la vicenda si tinge di “giallo” e merita di essere raccontata per intero, seppur per sommi capi. Lemaitre aveva raggiunto un risultato eccezionale, interpretando, correttamente, l’osservata e misurata velocità di fuga delle nebulose extragalattiche, in funzione dell’espansione generale del cosmo, nel quadro teorico della Relatività generale. Anziché vincere il premio Nobel per la fisica, l’accoglienza del suo articolo, complice il fatto di averlo pubblicato in francese, su una rivista scientifica del suo paese, quasi sconosciuta, ”Annales de la Societè Scientifique de Bruxelles”, fu simile a quella riservata cinque anni prima all’articolo di Friedmann: quasi nulla. Lui stesso, non citò i precedenti risultati del matematico russo, perché non li conosceva: fu Einstein a parlargliene per primo. L’occasione fu il V Congresso Solvay di fisica, tenutosi a Bruxelles tra il 24 e il 29 Ottobre 1927, dunque lo stesso anno della pubblicazione di Lemaitre; chiese e ottenne di parlare con Einstein, il quale lo liquidò dopo poche battute. Stavolta, però, il padre della Relatività non commise l’errore di correggere la matematica “in bocca” a un altro gran talento, come fece con Friedmann; tuttavia, in mancanza di prove sperimentali e dopo aver segnalato a Lemaitre di aver già sentito questa idea dal collega russo, disse: «I suoi calcoli sono corretti, ma la sua fisica è abominevole». Il pregiudizio filosofico, ancora una volta, predominava: nulla, come il movimento, indica transitorietà, spinge verso un “oltre”, un inizio, una fine e questo, non solo Einstein ma tutto il mondo scientifico coevo, e per la verità anche odierno, dopo decenni di positivismo, non era pronto ad accettarlo. Lemaitre amareggiato, - racconterà anche, che Einstein non sembrava al corrente delle ultime scoperte sulla recessione delle galassie-, decise di soprassedere sul modello di universo in espansione, almeno fino a che non fossero giunte nuove prove o occasioni. Tanto più, che sempre nel 27, aveva mandato una copia del suo articolo all’antico maestro, Eddington, il quale l’aveva archiviato senza neppure leggerlo, nè, tanto meno, dargli una risposta. Prima si è accennato al fatto che, il grande astronomo inglese, è stato croce e delizia per Lemaitre. Vediamo il perché. In uno dei passaggi salienti del suo articolo, Lemaitre facendo uso delle velocità misurate sulle 42 nebulose extragalattiche contenute nel catalogo di Hubble e Stromberg, enunciò, anche da un punto di vista analitico, quella che in seguito diverrà nota come legge di Hubble: la velocità di recessione di una galassia è legata, proporzionalmente, alla sua distanza. Tuttavia, come abbiamo visto, l’articolo di Lemaitre passò inosservato e nel 1929 Hubble ricavò sperimentalmente, quanto Lemaitre aveva previsto teoricamente, legando il suo nome alla legge. L’occasione per un parziale riscatto di Lemaitre, arrivò nel gennaio 1930; quell’anno si tenne a Londra un importante convegno della Royal Astronnomical Society, cui parteciparono, fra gli altri, Eddington e De Sitter. Il tema principale di quella riunione era come interpretare, da un punto di vista cosmologico, i dati sulle velocità di fuga delle galassie, ormai accumulatisi in una quantità tale da rendere ineludibile il problema: ricordiamo, che solo 3 anni prima Einstein non ne era informato… Eddington, propose di iniziare a considerare il caso di modelli cosmologici dinamici. Lemaitre leggendo i resoconti di quella riunione impallidì; si rese conto che discutevano, rimanendo ancora in alto mare, di una questione da lui brillantemente risolta 3 anni prima: era evidente, che l’antico maestro, Eddigton, non aveva letto il suo manoscritto. Prese, prontamente, carta e penna e scrisse al suo mentore, che ciò che lo angustiava era già stato risolto. Bastava leggersi il manoscritto che gli aveva inviato nel 1927. Questa volta Eddington lo lesse e con una punta d’imbarazzo ne inviò una copia anche a De Sitter, come richiesto da Lemaitre. La sua amarezza fu grande, perché sperava di risolvere lui quel problema: tuttavia, la delusione fu attenuata dal fatto che Lemaitre era stato un suo allievo. Da quel momento, le cose, almeno in parte, cambiarono; Eddington fece tradurre in inglese- rendendolo, dunque fungibile da tutta la comunità scientifica internazionale-, l’articolo di Lemaitre, tuttavia dando luogo a un “piccolo”giallo ancora irrisolto. Infatti, se la legge di Hubble, oggi, non è conosciuta come legge Hubble-Lemaitre, è un po’ colpa sua. Ascoltiamo come racconta l’episodio, l’astrofisico Jean-Pierre Luminet: «Qui entra in gioco un piccolo enigma storico. Nella versione inglese tradotta da Eddington, l’unica letta dagli storici della scienza non francofoni, il paragrafo chiave riportato da Lemaitre riportato sopra“Utilizzando le 42 nebulose extragalattiche…”viene sostituito semplicemente da “From a discussion of available data, we adopt R’/R= (…) Così vi compare solo il valore numerico di R’/R e non l’espressione analitica R’/R= v/rc, quella, precisamente, che sarà chiamata legge di Hubble! Caso sfortunato della storia o omissione intenzionale di Eddington? La questione è a tutt’oggi irrisolta». Quel che è certo e che l’opera di Lemaitre, in questo senso, è largamente misconosciuta. Ad acuire una sorta di ingiustizia storica nei confronti di Lemaitre, c’è il fatto, che lo stesso Hubble, ancora nel 1936, nell’opera divulgativa Il regno delle nebulose, dopo essersi definito più un osservatore che un teorico, era ancora molto dubbioso nell’ammettere che la recessione delle galassie, da lui stesso misurata, potesse essere una conseguenza dell’espansione del cosmo. In più, dimostrando di non conoscere o di non aver capito a fondo il lavoro di Lemaitre, commise anche l’errore teorico, da allora ripetuto in molti articoli divulgativi e non solo, di confondere l’effetto Doppler –Fizeau con l’espansione dello spazio, il cui raggio aumenta nel corso del tempo. Per Hubble, infatti, quella delle galassie è una vera e propria velocità di fuga, interpretabile come effetto Doppler, e non, come correttamente sostenuto da Lemaitre, una “fuga”indiretta, dovuta al mutare continuo del raggio cosmico. Un’altra sua grande intuizione fu di analizzare l’inizio dell’universo da un punto di vista quantitativo, cioè scientifico. Fino al 1931, non si era posto il problema dell’inizio dell’universo; il suo modello in espansione, che cominciava, ad avere successo, dal punto di vista fisico non aveva né inizio, né fine. Da qualche tempo, Lemaitre rifletteva sul possibile, e inevitabile, ruolo giocato dalla termodinamica e dalla meccanica quantistica nella nascita dell’universo. Sviluppando un’idea di Friedmann, teorizzò- con oltre quaranta anni d’anticipo, sui teoremi della singolarità, di Hawking e Penrose-, la possibilità che l’universo fosse scaturito da uno stato iniziale singolare, da lui battezzato “atomo primitivo”: prima pensava, che l’universo statico di Einstein fosse la base di partenza del modello in espansione. L’occasione per mostrare tale legame fu data, da una risposta, indiretta, che volle dare a Eddington, il quale in un articolo apparso sulla rivista Nature nel marzo 31, pur lodando il suo ex allievo, affermava- in ciò, in linea con Einstein, sì, di accettare l’espansione dell’universo, ma a differenza di Lemaitre, rifiutava, però, di risalire indietro nel tempo, sino a raggiungere la singolarità iniziale: «Filosoficamente, il concetto di inizio dell’ordine presente della Natura mi ripugna». Ancora una volta, dunque, precomprensioni filosofiche erano opposte ai dati sperimentali: in genere, a essere accusato, perché sacerdote, di pregiudizi dogmatici, era proprio Lemaitre, il quale, invece, per tutta la vita, mantenne sempre rigorosamente distinti- per qualcuno anche troppo…- la nozione di Creazione secondo la filosofia e la teologia, da quella di inizio del tempo secondo la scienza. Il successivo 9 maggio 31, sempre Nature, pubblicò una sarcastica risposta di Lemaitre a Eddington, L’origine del mondo dal punto di vista della teoria quantistica, uno degli articoli, seppur breve, più importanti nella storia della scienza. Dopo aver nominato esplicitamente Eddington all’inizio, ne confuta la tesi, avversa all’inizio del cosmo, combinando termodinamica e meccanica quantistica. Espresse il primo principio della termodinamica, come energia esistente sotto forma di quanti, discreti, e di valore costante e il secondo, come un aumento incessante del numero dei quanti, quindi concluse: «Risalendo il corso del tempo, dobbiamo trovare un numero sempre minore di quanti, fino a trovare tutta l’energia dell’universo concentrata in un piccolo numero di quanti, o addirittura in un solo quanto». Quest’unico quanto poi, in un articolo pubblicato nel novembre dello stesso 31 e intitolato L’espansione dello spazio, diverrà l’idea basilare della nascita dell’universo dall’“atomo primitivo”. Sintetizzando, per l’astronomo abate il cosmo si era formato per disintegrazione successiva da quell’unico quanto. Lemaitre, giustamente, comprese che prima della singolarità iniziale, i concetti di spazio e tempo non esistevano, perdevano di significato. Queste le sue parole: «Possiamo immaginare che lo spazio abbia avuto inizio con l’atomo primitivo e che l’inizio dello spazio abbia segnato anche l’inizio del tempo». Comprese, in ciò andando nettamente oltre Friedmann, che il macro-Universo, -stelle e galassie-, era inscindibilmente collegato col micro-Universo, atomi e particelle. Fu il primo, dunque, a concepire il limite, invalicabile, - Era di Planck-, della fisica nello studio dell’universo; una limitazione sulla quale, come dice l’astrofisico Luminet, non esiste nessuna indicazione che possa essere oltrepassata. L’abate Lemaitre, ci ha lasciato una profonda riflessione sul possibile significato teologico dell’era di Planck; abbiamo già visto, che era molto discreto, circa la sua Fede, pertanto amava particolarmente un passo del profeta Isaia, laddove dice: «Vere tu es Deus absconditus Deus Israhel salvator». (Is 45,15). Pensando al Dio nascosto di Isaia, così commentò le sue scoperte: «Penso che chiunque creda in un Essere supremo che sostiene ogni essere e ogni azione, creda anche che Dio sia sostanzialmente nascosto e si possa rallegrare nel vedere che la fisica attuale offre un velo che nasconde la creazione». Poco prima della sua morte, avvenuta il 20 giugno 1966, ebbe la fortuna di vedere premiate le “fatiche”di una vita; la sua teoria dell’atomo primitivo- già allora, più conosciuta come Big Bang-, con la scoperta della radiazione fossile di fondo, si accreditava definitivamente come la più completa, per spiegare l’universo in cui viviamo. A informarlo, provvide l’amico e collaboratore Odon Godart (1913-1996), astronomo e meteorologo- celebre per aver previsto, a differenza dei meteorologi tedeschi, che fecero abbassare la guardia ai loro comandi militari, una pausa di bel tempo, per la mattina del 6 giugno 44, che convinse gli Alleati allo sbarco in Normandia -: era stato ritrovato «Il bagliore perduto della formazione dei mondi», come lo aveva, poeticamente, descritto mons. Lemaitre. Il suo commento fu: «Sono contento Ora, almeno, è dimostrato». Termino riportando un’acuta riflessione dell’astronomo William MCcrea (1904-1999), sull’importanza dell’opera di Lemaitre: «Einstein, Eddington e Milne sono forse stati scienziati più importanti di Lemaitre, in ogni caso più celebri alla loro epoca. Ma, per quanto riguarda la cosmologia e la sua importanza per l’astronomia, Lemaitre ha dato un contributo maggiore. Ciò che ha detto era più sensato».

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