L'analisi del voto negli USA, le ragioni della vittoria di Trump

Sono bastate quattro ore: dall'80% di possibilità di vittoria, Hillary Clinton è crollata a un drammatico 6%. Un declino inesorabile che dalla chiusura dei primi seggi all'una italiana, ha visto Donald Trump avanzare inesorabilmente fino a ribaltare le previsioni: alle 5 del mattino le sue chances di conquistare la Casa Bianca, secondo il New York Times, sono pari al 94%. È sua la decisiva Florida, insieme ad altri due stati chiave come l'Ohio e il North Carolina. Smentiti i sondaggi che alla vigilia del voto davano Hillary in vantaggio sul tycoon, seppur con un margine che non lasciava niente di scontato.

«Speriamo che sia femmina, se fosse Trump il nuovo presidente sarebbe un disastro», aveva detto Renzi ancora lunedì. E adesso che gli americani, a dispetto di ogni previsione e anche del buonsenso, hanno scelto The Donald, il premier italiano è costretto a rivisitare la sua opinione. Anche se lo fa in punta di piedi. Così: «Abbiamo di fronte un mondo che vede dei cambiamenti inattesi. Chi avrebbe mai detto, un anno fa, che la campagna di Donald Trump, non solo per le elezioni ma anche per le primarie, avrebbe potuto ottenere consenso prima all'interno del partito repubblicano e poi nell'America profonda? E invece è accaduto, e noi oggi diciamo che abbiamo rispetto per il voto del popolo americano e che collaboreremo con la nuova presidenza degli Stati Uniti d'America

Per Matteo Renzi è il giorno del Grande Imbarazzo. Fino alla vigilia del voto americano, il premier ha fatto un tifo forsennato a favore di Hillary Clinton.

Bisognerà vedere quanto Trump vorrà collaborare con l'Italia e più in generale con l'Europa. La sua campagna elettorale è stata improntata a slogan isolazionisti e protezionisti. Tipo la minaccia di uscire dalla Nato e il disimpegno da tutti i teatri di crisi internazionali.

Il governo russo è pronto a "un dialogo costruttivo per la cooperazione" con il futuro presidente americano Donald Trump ma non sente "nessuna euforia": lo ha dichiarato il vice ministro degli Esteri russo Serghiei Riabkov.

"Non vorrei - ha detto Riabkov - che il nostro pubblico avesse l'impressione che siamo pieni di rosee speranze. Bisogna dire che le posizioni dichiarate dai rappresentanti della campagna di Trump e dalle persone che lo circondano nei confronti della Russia sono state abbastanza dure e noi non abbiamo visto nessun motivo per rivedere in qualche modo la nostra valutazione che negli Usa durante la campagna elettorale si è formato difatti un consenso dei due partiti su base antirussa". Riferendosi alle relazioni tra Usa e Russia con i vari presidenti americani, il vice ministro ha sottolineato che "ci sono stati dei periodi in cui si partiva bene, con buona comprensione, e poi la situazione si trasformava in crisi".  

Durante la campagna elettorale per le presidenziali americane, "ci sono stati dei contatti" tra la Russia e i membri del team di Donald Trump, ha aggiunto il vice ministro russo, secondo quanto riferisce Interfax. Rispondendo a un giornalista che gli chiedeva se questi contatti si intensificheranno dopo la vittoria di Trump, Riabkov ha risposto: "Si tratta di questioni di lavoro, e la successione delle azioni dipenderà dai temi che affronteremo. Naturalmente continuiamo questo lavoro anche dopo le elezioni".  

Intanto oggi Trump sarà ricevuto alla Casa Bianca da Barack Obama. Un incontro che servirà a cominciare quel passaggio di consegne che in America dura oltre un mese. Sarà un periodo di transizione in cui il nuovo presidente dovrà formare il nuovo governo e scegliere chi mettere nei posti chiave dell'amministrazione. Poi, concluso il processo elettorale con l'insediamento del nuovo Congresso e il voto dei grandi elettori, il giorno dell'ingresso di Donald Trump e della nuova first lady Melania alla Casa Bianca, il 20 gennaio prossimo. Ad attendere Trump ci sarà un Congresso 'amico'. Perché dalle urne dell'Election Day è uscita anche una schiacciante vittoria del Grand Old Party, che mantiene il controllo sia della Camera dei Rappresentanti che del Senato.

Il cosiddetto 'transition team' del nuovo presidente Usa Donald Trump avrebbe gia' elaborato una 'short list' di 41 nomi per riempire le varie caselle della futura amministrazione. Lo riportano alcuni media. Tra i nomi individuati ci sarebbero l'ex sindaco di New York Rudi Giuliani, in pole, come ministro della giustizia, e il deputato Duncan Hunter come possibile capo del Pentagono.

Decine di migliaia di persone al grido di 'Not My President' sono scese in strada in tutti gli Stati Uniti per protestare contro l'elezione di Trump. Le due manifestazioni piu' imponenti a New York e Chicago. Almeno 30 persone sono state arrestate a Manhattan dove si e' svolta una imponente manifestazione contro Donald Trump. In migliaia, nonostante la pioggia, si sono radunati a Union Square e hannno poi sfilato verso Midtown fino alla blindatissima Trump Tower sulla Fifth Avenue , dove si trova l'abitazione del nuovo presidente Usa. Paralizzato per ore il traffico nella zona. Tensione ed arresti anche a Columbus Circle, all'ingresso Nord di Central Park, dove si trova il grattacielo del Trump Hotel. Tutta l'area dove si trova la residenza del nuovo presidente, uno dei cuori pulsanti dello shopping e del turismo a Manhattan, e' blindatisssima. I voli sopra la zona sono stati vietati. L'isolato della Trump Tower e' circondato da camion 'anti-bomba' pieni di sabbia e da decine di agenti alcuni in tenuta antisommossa. Questi ultimi presidiano anche l'ingresso della residenza della famiglia Trump. 

Ci avevano detto che sarebbe stata l'apocalisse finanziaria. Ma così non è stato...L'agenzia internazionale Standard and Poor's conferma "Aa+" al rating degli Stati Uniti. L'outlook, in più, resta stabile. E l'orizzonte dei mercati si rasserena dopo lo choc per la vittoria di Trump alle elezioni americane. Non è certo un mistero che la finanza mondiale tifasse per Hillary Clinton. In più di un'occasione hanno reso pubblico il proprio endorsement. Tuttavia l' appello all' unità appena e stato eletto e la mano tesa della sua avversaria sembrano aver rassicurato i mercati. Se la vittoria dei "Leave" al referendum sulla Brexit si era risolta in qualche seduta volatile seguita da un ritorno alla normalità, non solo il trionfo di Trump non ha causato alcuna apocalisse sui mercati ma l'indomani le turbolenze hanno addirittura lasciato il passo ai guadagni. Il temuto "Trump Slump" non si è quindi verificato, anzi, è stato seguito da un "Trump Bump", con l'andamento rialzista di Wall Street che ha trainato le borse europee a una chiusura decisamente positiva.

Ci ha visto giusto anche stavolta. Come del resto ad ogni occasione da trentadue anni a questa parte. Nonostante il parere contrario dei sondaggisti e di gran parte dei media, pronti a scommettere sulla vittoria di Hillary Clinton, Allan Lichtman, sessantanovenne storico e docente dell’American University di Washington, aveva infatti  pronosticato il trionfo dell’outsider Donald Trump.

Un metodo denominato Keys to the White House e basato su tredici affermazioni/domande chiave per comprendere le dinamiche delle elezioni presidenziali americane: 

1. Mandato del partito: dopo le elezioni di metà mandato, il partito in carica ha guadagnato seggi alla Camera dei deputati rispetto alle precedenti elezioni di metà mandato 

2. Competizione: non c’è stata competizione per la nomination del partito in carica 

3. Incarico: il candidato del partito è anche il presidente in carica 

4. Terzo partito: non c’è un terzo partito significativo o una campagna elettorale indipendente  5. Economia a breve termine: l’economia non è in recessione durante la campagna elettorale 

6. Economia a lungo termine: la crescita economica pro capite durante l’ultimo mandato è stata uguale o maggiore a quella dei due mandati precedenti 

7. Cambio di linea politica: l’amministrazione in carica ha realizzato importanti cambiamenti nella politica nazionale 

8. Instabilità sociale: non c’è stata una prolungata instabilità sociale durante l’ultimo mandato 

9. Scandali: l’amministrazione in carica è incontaminata da importanti scandali 

10. Fallimenti militari e/o in politica estera: l’amministrazione in carica non ha subito rilevanti fallimenti militari o in politica estera 

11. Successi militari e/o in politica estera: l’amministrazione in carica ha ottenuto considerevoli successi militari o in politica estera 1

2. Carisma del candidato del partito in carica: il candidato del partito in carica è carismatico o è un eroe nazionale 

13. Carisma dello sfidante: il candidato del partito sfidante non è carismatico né un eroe nazionale

 

Le ragioni di questa indovinata predizione? Tanta esperienza e, soprattutto, un metodo matematico a quanto pare infallibile.

 

«Sulla base dei 13 tasti - aveva spiegato a settembre Lichtman in un’intervista al Washington Post - si potrebbe prevedere una vittoria di Donald Trump. In questo momento i democratici sono fuori - sicuro - di cinque. La chiave 1 è il mandato del partito: nelle elezioni di medio termine si sono schiacciati. Chiave 3: il candidato non è il presidente in carica. Chiave 7: nessun grande cambiamento di politica nel secondo mandato di Obama. Chiave 11: nessun grande successo di politica estera. E chiave 12, Hillary Clinton non è un Franklin Roosevelt. Ancora una chiave e i democratici sono in calo, e noi abbiamo Gary Johnson (candidato del Partito Libertariano n.d.r.). Se lui ottenesse il 5 per cento dei voti anche la chiave 4 sarebbe falsa: la sesta per i democratici. Quindi tutto sembra indicare una vittoria di Trump». Aveva proprio ragione lui.

 

Stando a questo sistema/questionario inventato nel 1860 e illustrato da Lichtman, che lo utilizza con successo dalle elezioni del 1984, nel libro Predicting the Next President, se ad almeno sei delle precedenti considerazioni si risponde con un “falso”, a esultare nelle Presidenziali non sarà il partito in carica bensì quello sfidante. Esattamente ciò che è capitato al partito Repubblicano di Donald Trump.

 

La stampa americana, sempre assai snob quando gli conviene, l'ha definita una «C-List», ossia una lista di serie C, nonostante il nome più grande tra i sostenitori Vip di The Donald fosse in realtà il più famoso oltre che il più blasonato di tutti: Clint Eastwood, che oltretutto ha incontrato più volte Trump nel corso del 2016. Tra gli altri supporter si contano Puff Diddy (vero nome Sean Combs), ex di Jennifer Lopez che invece ha tifato per Hillary, poi Mike Tyson, Chuck Norris, il leader dei Kiss Gene Simmons, il giocatore di football Tom Brady, l'eroe della chitarra rock Ted Nugent, la Tila Tequila famosa per il suo decollète, e uno dei personaggi cult della tv anni Settanta e Ottanta: Lou Ferrigno, celebre per L'incredibile Hulk nonché due volte Mister Universo. Due metri e 137 chilogrammi di peso che sono arrivati a dire: «Donald è il migliore». 

 

Naturalmente una frase accolta tra i sorrisi di sufficienza della grande stampa. Dopotutto, la «C-List» non spostava voti. Ma solo ieri si è confermato che non ne ha spostato neanche la roboante «A-List». E ora che Clinton ha perso e Clint ha vinto, si fanno i conti. Ovviamente è iniziato il cosiddetto «band wagoning», ossia quel fenomeno tipicamente italiano di salire sul carro del vincitore. 

 

Sulla poltrona che è stata di Obama si siederà il magnate colorato d'arancione e il Presidente emerito della Repubblica mastica amaro. Giorgio Napolitano non riesce a capacitarsene, ma la realtà è lì sotto gli occhi di tutti: Donald Trump è stato eletto 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America. In un intervento pubblicato oggi sul quotidiano torinese La Stampa Napolitano prova ad analizzare "l'impensabile" trionfo del tycoon nella corsa per la Casa Bianca, contro "gli equilibri sociali ed elettorali, le basi di convivenza civile, la dialettica partitica" tradizionali della galassia a stelle e strisce.

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Il predecessore di Sergio Mattarella scrive di "un rigetto di istituzioni e regole tradizionali", intriso di "demagogia, irragionevolezza, carica distruttiva e disgregativa". In definitiva dal suo ragionmento emerge il ritratto della vittoria di chi è insoddisfatto di ogni tipo di establishment e colpito dalla globalizzazione. Dopo un rapido mea culpa per le politiche europee di austerity che "non sono valse dinnanzi alla crisi" (sic), Napolitano invita i democratici sconfitti a fare autocritica.

E conclude augurandosi che il moderato discorso della vittoria rifletta, "ci auguriamo", qualche consapevolezza delle responsabilità di un presidente

Negli Stati Uniti, Lady Gaga a parte, si mette in pratica per lo più con il silenzio, a meno di non essere come Susan Sarandon che, odiando pubblicamente Hillary Clinton, ha subito espresso il suo favore per l'altro candidato democratico Bernie Sanders e poi ha evitato altre dichiarazioni. Una situazione più o meno simile a quella verificatisi dopo l'elezione di George W. Bush, quando alcune rockstar (tra le altre anche Pearl Jam, Neil Young e REM) avevano addirittura organizzato un tour musicale negli Stati Uniti contro il candidato repubblicano. Centinaia di migliaia di biglietti venduti ma zero influenza alle urne. Idem adesso. Con una differenza. 

 

Si è creata una «Zero-List», ossia la lista delle celebrità come Madonna o Bruce Springsteen o Robert De Niro che risultano ininfluenti ai fini elettorali. Per loro probabilmente è stato l'ultimo endorsement presidenziale e, senza dubbio, l'ultimo apertamente invocato dai candidati. A conferma che, per restare credibile, il pop deve essere popular e trasversale. Se smette di esserlo e si schiera apertamente, dimostra di non avere più alcun peso specifico.

 

Nessuno, compresa la generosa Madonna che aveva promesso più sesso orale per tutti gli elettori di Clinton, fino a ieri sera ora italiana ha fiatato dopo lo sberlone elettorale della loro protegèe. E dire che in questi ultimi dodici mesi erano scesi in campagna elettorale manco fossero candidati. Molti in modo garbato, come negli ultimi giorni Beyoncé o Rihanna o Meryl Streep o Katy Perry. 

 

Altri in maniera molto meno civile come un insolitamente arrabbiato Robert De Niro che non ha usato giri di parole: «Trump è un maiale, lo prenderei a pugni, mi fa arrabbiare che questo paese sia al punto di consentire a quest'idiota di arrivare sin qui». Noblesse oblige. Nel complesso, la lista dei clintoniani è lunghissima: da Leonardo Di Caprio, Richard Gere, Jessica Alba, Ben Affleck fino a Jennifer Aniston, Justin Timberlake, Bruce Springsteen, Jon Bon Jovi e via dicendo. Uno spiegamento di grandi nomi che, secondo gli analisti, non ha spostato gli equilibri di voto. Né stavolta né nelle altre campagne elettorali. 

L'unica eccezione (e sono sempre gli analisti a confermarlo) è stato l'endorsement di Oprah Winfrey nel 2007 a Barack Obama. E lo conferma anche la schiera di vip che nel corso di questi ultimi mesi si è espressa a favore di Donald Trump

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