Napolitano e i raid in Libia: silenzio totale

Nella biografia del Cavaliere scritta da Alan Friedman è lo stesso Berlusconi a evidenziare che Napolitano «continuava a insistere che dovessimo allinearci con gli altri in Europa», e che quindi la decisione era già presa, facendo pesare il suo ruolo di capo delle Forze armate. Interpretazione confermata al quotidiano Il Giornale dall'ex presidente del Senato, Renato Schifani, che sottolineò come a marzo 2011, Napolitano convocò un vertice riservato durante l'intervallo del Nabucco all'Opera di Roma, in cui rappresentò l'ultimatum di Sarkozy sulla partecipazione all'intervento in Libia sotto l'egida della Nato. «L'Italia non può rimanere fuori», disse Napolitano secondo Schifani.

Secondo il Giornale Il riluttante Berlusconi, che aveva firmato un trattato di amicizia con la Libia con il quale si poneva un argine all'immigrazione clandestina, fu costretto a venir meno alla parola e a concedere le basi per i bombardamenti. Napolitano ancor oggi non spiega. Eppure la crisi libica rappresentò il secondo tassello decisivo per completare il puzzle della demolizione del Cavaliere. Il primo fu la scissione di Gianfranco Fini, «sponsorizzata» dal Quirinale per indebolire l'ampia maggioranza del Pdl. 

Il secondo riferisce il Giornale fu l'utilizzo del ruolo di capo supremo delle Forze armate per costringere il presidente del Consiglio a cambiare, su pressione di Sarkozy, la politica estera sulla Libia danneggiando anche gli interessi delle aziende italiane lì impegnate. Il terzo e decisivo è noto: durante la speculazione anti-italiana sullo spread, l'allora capo dello Stato si accordò all'asse Sarkozy-Merkel per defenestrare il premier e insediare il governo Monti, cioè il «maresciallo Petain» targato Bruxelles. È notorio, infatti, che il Cav fosse restio ad assecondare i diktat di Berlino e di Parigi. Il silenzio di oggi, forse, vale più di tante parole.

Ora che Nicolas Sarkozy è gardé à vue lui, che con l'Eliseo ebbe molto più di un abboccamento in quel tragico 2011, non lascia spirare nemmeno un fiato.

Eppure Giorgio Napolitano come riferisce il Giornale ebbe un ruolo preponderante nella decisione italiana di supportare la coalizione Nato che eliminò Muhammar Gheddafi sette anni fa facendo piombare l'intera Libia nel caos. Quella stessa Libia che finanziò la campagna presidenziale di Sarkozy. Sui social ieri molti chiedevano all'ex presidente di spiegare, di motivare o, per lo meno, di fornire un dettaglio. Tra questi Francesco Storace che su Twitter ha scritto: «Nessuno che chieda scusa per i bombardamenti in Libia. Tangenti e guerra contro la sovranità nazionale».

Nel 2016 il presidente Usa, Barack Obama, dichiarò di essersi pentito di quell'operazione cui lo spinsero tanto il segretario di Stato, Hillary Clinton, quanto gli alleati Sarkozy e Cameron (ex premier britannico). Sarkozy «voleva vantarsi di tutti gli aerei abbattuti, nonostante il fatto che avessimo distrutto noi tutte le difese aeree», affermò Obama.

Qualche domanda scrive il quotidiano il Giornale non retorica aiuta a schiarirsi le idee. Nel quarantennio post-Sessantotto, un trentennio circa aveva visto la destra al potere. Lo stesso Sarkozy aveva partecipato alla campagna presidenziale dalla posizione privilegiata di ministro degli Interni, il duplice mandato di Mitterrand si situava fra un Pompidou-Giscard e un doppio Chirac. Ritenere «lo spirito del '68» il responsabile dei mali del Paese poteva essere un comodo artificio retorico, purché di questo si trattasse, non di altro. Sarkozy non lo capì perché dietro di lui non c'era un'ideologia e/o un pensiero, ma i suoi istinti e i suoi impulsi. Era mediocre e aspirava alla grandezza, si riteneva un uomo d'azione che disprezzava lo snobismo delle élites, ma non desiderava altro che da quelle élites essere accettato, «le president bling bling» ubriacato dal profumo e dal potere dei soldi.

Come riferisce il giornale vinse Sarkozy perché fingeva di essere tutto non essendo, appunto, niente. Di quel decennale interregno sarkozyano, noi italiani ricordiamo tre cose: il matrimonio con la nostra connazionale Carla Bruni, che faceva risuonare nei più anziani il memorabile calembour di Ennio Flaiano dedicato al romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse... 

Poi il sorrisetto derisorio scambiato con Angela Merkel a un vertice internazionale, a proposito della nostra credibilità economico-politica, infine il vergognoso sconquasso libico, non soltanto sotto il profilo bellico, ma per tutto quello che si è portato dietro a livello geopolitico. Adesso, ma il sospetto datava da allora, vengono fuori i finanziamenti elettorali, con relativa corruzione, per insabbiare i quali era necessario un intervento militare destabilizzatore e il tutto si ritorce contro chi lo incarnò, una nemesi degna del Dumas del Conte di Montecristo. Essere un parvenu della politica può aiutare, a patto di non abusarne, e la «tragedia di un uomo ridicolo» quale è stato in fondo Sarkozy aiuta a capirlo. Pensate all'enfasi anti-sessantottina di cui si servì per la scalata al potere.

C'è del fascino nel dire ogni cosa e il suo contrario». La citazione è di Dominique de Villepin, l'altro enfant prodige dell'epoca di Chirac, l'eterno rivale di Nicolas Sarkozy, più bello, più intelligente, più colto, ma ahimè politicamente meno abile, il che in politica nei tempi stretti vuol dire tutto, ma in quelli lunghi è eguale a niente. La parabola di Sarkò è durata poco più di un decennio, il 2004 in cui diventa ministro dell'Economia del governo Raffarin, il 2016 in cui fallisce nel tentativo di vincere le primarie del centro-destra per potersi ricandidare alle presidenziali. Tutto quello che è successo dopo, compreso lo stato di fermo che lo ha appena colpito con l'accusa di aver incassato soldi dal poi defunto leader libico Gheddafi, poco aggiunge e niente toglie a quella parabola. 

La democrazia permette l'ascesa di uomini ridicoli perché la sua forza consiste nello scaricarli di lì a non molto. Ciò che può sembrare una tragedia nel primo caso, diventa farsa nell'atto successivo. Nel 2007, quando Sarkozy divenne al secondo turno presidente della Repubblica con il 53% dei voti rispetto alla socialista Ségolène Royal, che pure aveva preso il 46%, ci fu, anche in Italia, soprattutto in Italia, chi gridò entusiasta al miracolo. 

Siamo un Paese che, come nel calcio, invoca sempre l'acquisto dello straniero e che, in politica, non l'azzecca mai. La «lezione francese», si scrisse allora, accreditava al piccolo e nervoso neo-inquilino dell'Eliseo una vera e propria rivoluzione: ricomposizione della destra, seduzione di parte della sinistra, un'iniezione di fiducia elettorale nei suoi connazionali. C'era del vero, ma come sempre parziale: il primo elemento aveva a che fare con l'impresentabilità lepenista, il secondo con una sinistra fin troppo seducibile, l'ultimo con la giovane età di tutti i contendenti alle presidenziali (nel primo turno c'era anche François Bayrou) e con il loro utilizzo della cosiddetta antipolitica, viscerale, compassionevole, qualunquista, comunque retorica nel suo essere antisistema

 

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