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I nuovi politici? dilettanti secondo Pino Pisicchio

Era spregevole la prima repubblica? E i nuovi arrivati sono i migliori fichi del bigoncio? La risposta è chiara: no. Lo sostiene, con alquanti argomenti, Pino Pisicchio, nel libro I dilettanti, appena uscito da Guerini e Associati. Il titolo è polemico: si riferisce alla “nuova classe politica”, per dipingerne “splendori e miserie”, per la verità più le seconde che i primi.

Pisicchio è in politica da lunga data, vantando sei legislature alla Camera e una all’Europarlamento. Il dato potrebbe indurre a capire che l’ironia da lui usata nei confronti della polemica inalberata da Silvio Berlusconi contro i “professionisti della politica” sia frutto di un’intolleranza personale. Similmente, quando si sofferma sulle generazioni di politici, viene spontaneo rifarsi al padre, Natale, che sedette a Montecitorio per cinque legislature. A Pisicchio, tuttavia, va riconosciuto di infarcire di riflessioni le sue critiche al dilettantismo dell’ultima classe politica, quella sorta in antitesi dichiarata con la precedente.

Manca, a molti fra costoro, l’esperienza politica, partendo dalle scuole di partito che il Pci (in parte la Dc) avevano saputo predisporre. Dominano, in loro, faciloneria, ignoranza, supponenza. Guardano all’immagine trascurando la sostanza (e qui il pensiero corre al Cav). Annota Pisicchio: “La comunicazione ha preso il posto del progetto e, in modo più brusco, della politica tout court, mentre il turpiloquio ha sostituito la dialettica tra soggetti impegnati nella scena politica”. Risultato: trionfa la “comunicazione turpe”.

Maestro di comunicazione è Matteo Renzi, dipinto come animato da “l’élan vitale bergsoniano”, una sorta di politico dadaista, venuto dopo il futurista Berlusconi. Eccellenti sono i tratti, rudemente negativi, con cui il presidente del Consiglio (cresciuto nella politica, alla faccia dei novatori) viene presentato: “Il lessico, sarcastico piuttosto che ironico, il gusto toscano per la battuta, l’affabulazione sincopata, l’astuta gestione dei ritmi mutuata da una scansione quasi cinematografica, il suo muoversi agevolmente nell’universo dei social network, il suo ricorrere a manifestazioni di vitalismo giovanile inteso come rottura radicale con la liturgia della vecchia politica, il suo brandire le primarie come nuovo rito di investitura del rapporto fra popolo e leader, ne fanno un protagonista del dadaismo politico”.

Espressione del nuovismo sono molti parlamentari. Pisicchio ne documenta l’inconcludenza soffermandosi su un esempio che chiunque abbia la (s)ventura di seguire i lavori delle Camere condivide. La progressiva conquista della funzione legislativa da parte dell’esecutivo ha fatto sì che deputati e senatori si appaghino degli ordini del giorno, passati dai meno di 30 mensili della decima legislatura ai 238 odierni. Il governo ne accoglie a iosa, in toto o chiedendone riformulazioni o accettandoli come raccomandazioni: “tanto non esiste alcuna sanzione per l’inadempimento e poi, con 238 odg al mese, chi vuoi che vada a controllare?”. Risultato: “il parlamentare è soddisfatto perché ha potuto esprimersi in aula e potrà rivedere la registrazione in differita nel suo collegio elettorale o, se crede, con la sua amata famigliola”. Specialisti in questo sport dei bla bla bla in cui si sostanziano gli ordini del giorno paiono i grillini.

L’esperienza cumulata da Pisicchio (oggi presidente del gruppo misto a Montecitorio) gli consente di rilevare quanto sia assurdo rapportare il valore di un eletto a dati numerici quali presenze, voti, firme apposte. Conta, invece, la capacità d’incidere sul processo legislativo, invero oggi riservata a quei pochi che, specie nelle commissioni e nei comitati ristretti, elaborano i progetti di legge. Anche in questo caso, per gli elettori e per i mezzi d’informazione rileva l’immagine, non la sostanza. Tutt’altra, possiamo aggiungere, era la condizione dei parlamentari della reietta prima repubblica (per tacere dei costituenti).

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