Diaconesse, un dibattito che si perde nel tempo

Ci sono parole messe nell’ordine giusto per creare scompiglio. Per generare incomprensione. Ci sono allusioni che fomentano polemiche, perché le parole – sempre – nascondono insidie. Così, quando circa un mese fa i giornali si sono allegramente intrattenuti sulla lunga conversazione tra papa Francesco e le superiori generali delle suore di tutto il mondo, e sulla brace è stata lanciata la parola “diaconesse”, il fumo è diventato eccessivo. Solo ora sta scemando, come succede nelle grigliate gestite male. E solo adesso che quei titoli vanno a rivestire le pattumiere – insieme alle considerazioni ipocrite di chi sogna una Chiesa cattolica nuova –, ne parliamo noi.

Qualcuno si è domandato (pure questo!) se le suore, una volta diventate finalmente diaconesse, vorranno indossare gli stessi paramenti dei diaconi o ne pretenderanno di nuovi preparati ad hoc. La questione è solo apparentemente banale, perché si tratta di stabilire se l’aspirazione femminile al diaconato è effettivamente quel che sembra: una rivendicazione egualitaria anti-maschilista.

Del resto, è inutile nasconderselo: per quanto si provi a convincersi del contrario, quella di tenere l’omelia e, più in generale, di accedere a un «diaconato femminile» sembrano null’altro che un capriccio di stampo femminista.

Il femminismo vorrebbe la donna libera da tutta una serie di stereotipi, ma evidentemente, sconta la superficialità di una cultura invaghita del concetto di “novità”. Anche le istanze dell’equazione uomo=donna, solitamente ascritta al “nuovo”, sono piuttosto ambigue. Se si ammette, infatti, che la donna possa accedere a ogni sorta di professione, proprio non si capisce perché, all’interno della Chiesa Cattolica, sia fuori luogo la richiesta di un accesso al diaconato e, perché no, al sacerdozio. E ciò finisce per essere considerato dai sempiterni superficiali consumatori dell'ultima novità non solo ragionevole, ma innocuo.

È paradossale che il concetto di emancipazione femminile sia percepito come “nuovo” o, comunque, tipico della modernità. Prima di Cristo la donna era merce di scambio. Prima di Cristo il padrone ingravidava la schiava se la moglie era infertile – anche la fecondazione eterologa non è, poi, così nuova –, se era bruttina o, semplicemente, se lo desiderava. Prima di Cristo la donna aveva un tale controllo del suo corpo che l’aborto era consuetudine, anche se nascosta. Prima di Cristo non c'è stata civiltà che nel suo rapporto con il divino non avesse contemplato la figura della sacerdotessa.

Dove sono tutti questi elementi di “novità” nel tanto celebrato “progresso”?

Il vento veramente nuovo lo ha portato il cristianesimo che, nell’esempio scandalosamente originale di Gesù, ha aperto alle donne una condizione di reale novità. Chi osa inquadrare il cattolicesimo in una dimensione maschilista pecca d’ignoranza e d’ipocrisia.

Senza l’apporto di molte donne, lo sviluppo dell’intera storia del cristianesimo sarebbe stato assai diverso.

San Giovanni Paolo II ha sottolineato nel corso di tutto il suo pontificato il «simbolismo fortemente evocativo nella femminilità della donna credente, e soprattutto in quella consacrata»[1], l’iconicità che esprime l’essere stesso della Chiesa «sposa di Cristo e madre dei credenti»[2].

Né all’argomento si è sottratto Benedetto XVI. In più di un’occasione, infatti, questi ha ricordato come Gesù scelse dodici uomini, lo sappiamo, «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14-15), ma la Sua missione trovò proprio nelle donne un ruolo attivo impossibile da ignorare o sottovalutare: un unicum nella storia delle religioni.

Non riteniamo necessario passare in rassegna ogni singola figura femminile: è ben noto che intorno a Lui gravitarono donne con funzioni di responsabilità differenti – certo, e giustamente – rispetto a quelle dei Dodici.

Da cardinale, già trent'anni fa Joseph Ratzinger mostrava di nutrire forti preoccupazioni per l’infiltrazione dell’orientamento femminista nella vita religiosa. Puntualizzava così: «Il cristianesimo non è "nostro", [...] è un messaggio che ci è stato consegnato e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Dunque, non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci. Ancor meno ci è lecito sostituire Cristo con un'altra figura»[3].

Quella del diaconato femminile non è una storia in tutto e per tutto postmoderna. Il tema fu studiato già dalla Commissione Teologica Internazionale tra il 1992 e il 1997. E fu poi ripreso dalla stessa commissione tra il 1998 e il 2002 in un documento approvato da Joseph Ratzinger, allora cardinale e Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Della stessa commissione teologica faceva parte anche l'attuale Prefetto della medesima Congregazione, il cardinale Gerhard Müller.

Il documento in questione mette tutti i puntini sulle ‘i’ del caso. Esordisce precisando il significato del termine ‘diacono’ e ricorda che il battesimo conferisce il diakonein a ogni cristiano che, in questo modo, coopera al servizio di Cristo.

Nel passare in rassegna le diverse fasi storiche, fa notare che, in epoca apostolica, numerose forme di assistenza diaconale agli apostoli e alle comunità esercitate da donne sembravano avere un carattere istituzionale. Ma si trattava, sempre, di un servizio riconosciuto e subordinato al ministero dell’Apostolo.

Tant’è vero che le Costituzioni apostoliche (CA), apparse verso il 380 in Siria, insistono perché le diaconesse non abbiano alcuna funzione liturgica (III 9, 1-2): «La diaconessa non benedice e non compie nulla di ciò che fanno i presbiteri e i diaconi, ma vigila le porte e assiste i presbiteri in occasione del battesimo delle donne, per ragioni di decenza» (CA VIII 28, 6).

Andando avanti nei tempi apostolici, il documento della CTI spiega che le donne diaconesse saranno ufficialmente «istituite», ma non avranno mai altra missione che il buon esempio e la preghiera. Gli sviluppi successivi mostrano un’evoluzione diseguale di questo ministero nelle diverse tradizioni ecclesiali, ma quel che rimane comune e chiaro è che il diaconato femminile non fu mai stato inteso come l’equivalente del diaconato maschile.

Nell'intuizione cristiana di conservare il sacerdozio esclusivamente maschile, c'è la capacità di cogliere l’importanza della diversità dei sessi e valutarla come non secondaria. Difendere la Scrittura, in questo senso, significa, ancora una volta, difendere la persona umana e la sua dignità.

A cominciare dal sesso femminile.

Non è un caso se «Chiesa» è nome di genere femminile. In essa, infatti, vive il mistero della maternità, della contemplazione, della bellezza, della gratuità, di quei principi, insomma, che sembrano così inutili agli occhi del mondo profano.

Se la Chiesa ha inteso difendere sempre la separazione dei sessi, è perché ha voluto difendere la fede, il concetto di sacerdozio, gli uomini e le donne dal vedersi ridotti a pura funzionalità. Ha voluto difendere la realtà, molto semplicemente.

Tutte queste battaglie in nome della libertà chiedono di svincolarsi dalla «schiavitù della natura». Ma credere di poter essere una donna nel corpo di un uomo è costruire una realtà fittizia. La natura esige diversità. Si fa addomesticare, ma non modificare, perché sa come ribellarsi.

Ci domandiamo se può fare davvero del bene a un mondo come il nostro - in cui nel dire ‘maschio’ e ‘femmina’ ci sono remore che paventano accuse di sessismo, quando non di razzismo - tornare in un baleno a prima di Cristo.

È una società che sta annegando nella paranoia di definirsi nel modo più neutro possibile per eludere la mascolinità e la femminilità, e avallare la perversione di chi vede nei generi una interscambiabilità a piacere. Il che vuol dire anche ridurre l’agire umano, persino nella Chiesa, a pura funzionalità, a puro ruolo; quello del “lavoratore”, naturalmente, come nei regimi comunisti di migliore tradizione.

E dov’è la bellezza o la generosità di una simile concezione? È questo cui ambiscono le femministe e le suore del secolo XXI?

La tentazione di commentare è un trabocchetto fallace già nelle sue mire. Per questo puntiamo dritti alle parole del cardinale Robert Sarah. Recentemente, e con laconicità esemplare, egli ha chiosato: «L’idea di una donna cardinale è tanto ridicola quanto quella di un prete che volesse diventare religiosa!»[4]. E al posto di ‘cardinale’ metteteci quello che vi pare, il succo non cambia.



[1] Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, del 29-6-1995.

[2] Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, del 31-5-2004.Ed.

[3] Vittorio Messori, Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, p. 97.

[4] Robert Sarah, Dio o niente. Conversazione sulla fede con Nicolas Diat, trad. it, Cantagalli, Siena 2015

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