Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica

Il Crystal_Palacedi Londra dove nel 1851 si tenne la Grande Esposizione delle opere industriali di tutte le nazioni

Il Crystal Palace di Londra dove nel 1851 si tenne la Grande Esposizione delle opere industriali di tutte le nazioni

A distanza di sedici anni dalla prima edizione, l’economista Vera Zamagni — che insegna Storia economica nell’Università di Bologna e ha pubblicato, fra l’altro, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, nel 1999, e Introduzione alla storia economica d’Italia, nel 2008 — ha operato una profonda revisione del suo Perché l’Europa ha cambiato il mondo. Una storia economica (il Mulino, Bologna 2015, pp. 344, € 24,00). L’idea è scaturita dai profondi mutamenti intervenuti nei primi anni del secolo XXI e dall’apparire di nuovi studi che hanno inserito la storia europea in un contesto più mondiale.

Se buona parte dell’opera segue lo schema della prima edizione ed esamina le linee principali dello sviluppo economico europeo, attraverso i modelli teorici dello sviluppo e le componenti tecnologiche, istituzionali e sociali, «un’attenzione tutt’affatto speciale è [...] stata rivolta a spiegare come mai non furono l’Asia o il mondo islamico a produrre la rivoluzione industriale» (p. 9). A questo tema sono dedicati i primi due capitoli, quasi del tutto nuovi. La tesi portante, che ne giustifica il titolo, è che la rivoluzione industriale poteva vedere la luce solo «in quell’Europa dove si era affermata una concezione dell’uomo di origine cristiana che a un tempo ne esaltava la libertà, ma ne limitava il potere sugli altri uomini attraverso la pratica della giustizia e della fraternità» (p. 10), lasciandolo libero di esprimere la sua creatività e il suo talento. Se il clima, la localizzazione geografica e le risorse naturali hanno svolto un ruolo facilitante nell’espansione economica, è indubbio che le società sono state rese dinamiche da altri fattori. Un esempio lampante è l’America Settentrionale, ricchissima di risorse naturali ma abitata da popolazioni seminomadi, il cui sviluppo è avvenuto solo dopo l’arrivo di coloni europei, portatori di un preciso universo culturale. «Il vero ruolo strategico nel determinare il grado di progressività delle varie società è dunque stato giocato dalle visioni filosofico-religiose del mondo e dalla organizzazione sociale che ne è derivata, con le diverse istituzioni politiche ed economiche che si sono susseguite» (p. 17).

Mettendo a confronto le tre aree economicamente più avanzate, cioè l’Europa, il mondo islamico e la Cina — non l’India, perché priva di quei prerequisiti istituzionali, soprattutto di tipo politico, che invece le altre aree avevano —, l’Europa prevale per quattro motivi: la definizione cristiana di persona umana come unico valore assoluto, da cui deriva il concetto di lavoro come attività propria degli uomini liberi, attuata per la prima volta dal monachesimo, benedettino e cistercense; la relazione orizzontale fra le persone tipica del cristianesimo, e dunque la solidarietà e la fiducia, da cui derivano il concetto di bene comune e quello di un’economia a servizio della comunità; l’approccio razionale e dinamico al reale, che favorisce la nascita della scienza; e infine la distinzione, anche questa cristiana, fra potere civile e potere religioso, nonché l’articolazione della società in corpi intermedi che godevano di vaste autonomie.

La copertina del libro

Andando alla ricerca delle istituzioni e delle pratiche economiche dimostratesi decisive nella creazione del vantaggio europeo, l’autrice prende in esame prima le città-stato italiane, dove gli uomini d’affari svolgevano anche un ruolo politico di autogoverno ignoto fuori dall’Europa, generando innovazioni significative nel campo delle istituzioni economiche, nei contratti e nella gestione del denaro; e quindi il grande ruolo del commercio internazionale, attivato dalle esplorazioni geografiche, che portò a migliorare i trasporti, diversificare i consumi e utilizzare materie prime strategiche per molte innovazioni tecnologiche.

Spiega poi che il passo decisivo ebbe luogo in Gran Bretagna grazie a un sistema politico-istituzionale che favoriva l’innovazione, all’esistenza di una legislazione che offriva la certezza di una rete di salvataggio e aumentava quindi la propensione al rischio, e allo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, innanzitutto il carbone, che produceva un’energia molto maggiore e consentiva di liberare il suolo dalla produzione di altri beni, specialmente la legna, per dare spazio alle altre coltivazioni. A fronte della convinzione di molti che tutte quelle innovazioni fossero un portato della scienza moderna, Vera Zamagni osserva che «nessuna delle invenzioni importanti della rivoluzione industriale inglese richiese basi scientifiche diverse da quelle già esistenti nell’impero romano. Persino la caldaia a vapore era nota, ma non ne era apprezzata l’utilizzabilità pratica e, come la polvere da sparo in Cina, veniva impiegata solo per attività ludiche» (p. 59).

Fra le conseguenze della prima rivoluzione industriale vengono ricordate anche il trasferimento del lavoro da ambienti domestici, o comunque di dimensioni artigianali, alle grandi fabbriche, con l’urbanizzazione e l’abbandono delle campagne; e l’espulsione delle donne dal mondo del lavoro, confinate a casa nel momento in cui le fabbriche erano sempre più distanti e gli orari di lavoro sempre più lunghi.

Il libro prosegue, poi, sulla scia della prima edizione, descrivendo il processo di industrializzazione europea, il pesante lascito delle due guerre mondiali, il passaggio del testimone agli Stati Uniti d’America e infine l’attuale periodo d’instabilità e crisi.

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