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Verità logica e verità ontologica

San_Tommaso_d'Aquino_e_gli_angeli

 

La tradizione aristotelico - tomista è imperniata sul concetto di “verità logica”o verità del pensiero, che si compone in un rapporto concreto, coordinato, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. In questo caso il giudizio o enunciato o proposizione è il luogo della verità e si manifesta previa una riflessione su due possibili proposizioni contraddittorie: gli elementi per discernere tra i due possibili contrari, sono forniti alla riflessione dall’esperienza di chi emette il giudizio o sono dedotti da essa o, infine, possono essere tratti dalla testimonianza credibile di qualcuno. Una volta operata la scelta per l’enunciato riconosciuto come vero, si ha l’esclusione automatica dell’altro perché contraddittorio, in perfetto accordo col principio di non—contraddizione. La verità, dunque, è sempre opposta alla non—verità. Il filosofo Martin Heidegger (1889-1976)- il più influente nel 900-, diversamente, operò scegliendo, arbitrariamente, per la cosiddetta “verità ontologica, - cioè, l’essere stesso che si manifesta –e che aveva conosciuto attraverso Giovanni Duns Scoto (1265—1308) e la filosofia tedesca illuminista. Questo passaggio è cruciale e merita particolare attenzione, perché avrà conseguenze enormi —attraverso la mediazione di Rahner(1904-1984)— , per la maggior parte della teologia postconciliare, dunque anche per la nostra fede quotidiana. Come rilevato da mons. Livi, non si possono opporre verità e falsità, se per verità si intende – come fanno, preferendo la verità ontologica, Heidegger e i suoi epigoni —, l’essere stesso che si manifesta e se questo significato ontologico della verità non solo si sovrappone a quello “logico”, ma addirittura lo esclude. Dice, infatti, lo stesso Heidegger: “La verità (non è l’adaequatio tomista) è lo svelamento dell’ente grazie a cui un’apertura dispiega la sua essenza”. Ancora Livi— qui Rahner seguirà pedissequamente Heidegger—: “Così che Heidegger, di conseguenza, si rifiuta di prendere in considerazione l’evento dell’errore (Unwahrheit) ”. L’affermazione, ancorché contorta, è però lapalissiana; una volta accettata la premessa heideggeriana, la non— verità non è più la mancata adaequatio, ma “semplicemente”la non manifestazione —il non svelamento— dell’essere, non si può più parlare di errore inteso come mancato accordo tra un’asserzione su una cosa e la cosa stessa. Conseguentemente, per il filosofo di Friburgo, il negativo corrisponde solo alla mancata manifestazione dell’essere. Un ultimo passaggio affinerà la nostra comprensione del linguaggio e dei concetti heideggeriani, indispensabili per capire la genesi dell’attuale crisi della verità, nella vita come in teologia: “E in Heidegger la manifestazione dell’essere implica proprio la sua negazione, in quanto l’essere sì manifesta emergendo dall’occultamento (aletheia) mediante un toglimento del velo(rivelazione) che è anche allo stesso tempo nuovo occultamento(ri—velazione). Come si può ben capire, se tale modo di parlare (certamente suggestivo: e infatti ha esercitato per oltre mezzo secolo un fascino grandissimo) non viene in qualche modo ricondotto al senso logico della verità del pensiero finisce per essere del tutto incomprensibile, o comunque, incomunicabile, per assoluta impossibilità di traduzione in altri linguaggi di verità (…)In pratica, senza il concetto di verità come adaequatio, si verificherebbe la situazione paradossale che un discorso sulla verità non potrebbe avere un senso di verità.( A Livi).In un altro testo fondamentale –Von Wesen der Wahreit—Heidegger parlò dell’essenza della verità; ancora una volta, però, in modo poco chiaro, non decisivo, aperto al dubbio totale tipico della postmodenità. Col solito acume, mons. Livi coglie nel segno le radici filosofiche che hanno determinato l’oblio della nozione di verità: “Di Heidegger devo dire subito che a lui —al suo linguaggio e alle sue argomentazioni— si rifà di solito chi parla oggi della verità e ritiene non necessario definirne l’essenza in termini precisi.…) quando gli autori che parlano della verità adottano l’uso linguistico hideggeriano, essi (ma non solo essi) mettono il sostantivo verità in rapporto con altri sostantivi o con verbi che indicano l’atto della conoscenza, come quando, ad esempio, parlano di conoscenza della verità (=conoscere la verità), di ricerca della verità, di scoperta della verità(=scoprire la verità), del possesso della verità(=possedere la verità). In tutti questi modi di parlare il termine verità è sostanzializzato, nel senso che nel discorso funge da “sostanza”; chi parla in questo modo tratta la verità come “oggetto”oppure come “soggetto” dell’atto (conoscitivo o appetitivi), e in ambedue i casi questo uso linguistico finisce per attribuire al termine verità i connotati dell’essere stesso”. L’attenzione spasmodica che la teologia postconciliare ha riservato al pensiero di Heidegger, ha delle venature luciferine, laddove si consideri il pensiero del filosofo di Friburgo nei riguardi di un Dio personale e trascendente, negato e accomunato con il disprezzo per la metafisica classica, considerata come un “legno di ferro” o un “cerchio quadrato”. Si noti, tra l’altro, come contraddicendosi, Heidegger usi il principio metafisico per eccellenza —quello di non contraddizione—, per condannare la metafisica. Negò recisamente la concezione di Dio come Causa prima e Fine ultimo dell’universo, rinchiudendo la teologia unicamente nel “recinto”dell’esperienza di fede, negandole ogni rapporto con la filosofia, dunque con la ragione. Posizione, questa, oggi assunta da tanti cattolici e che il Magistero ha condannato in blocco come fideismo, come al par. 55 della Fides et Ratio di Giovanni Paolo II (1978-2005):”Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio”.

Che fare, dunque, per superare questo smarrimento? In accordo con quanto ripetuto dagli ultimi pontefici- occorre tornare a un sano uso di ragione e attraverso di essa riscoprire quel realismo filosofico, che da sempre ha costituito un gradino per ri—scoprire il Dio Creatore, fondamento di tutta la realtà. Per far questo, rovesciando Cartesio (1596-1650), il soggetto conoscente deve tornare scolaro del reale, ricordandosi che non conosce nulla, se non dai sensi, per poi, elaborare con lo spirito, creato a Immagine e Somiglianza di Dio. Un sano realismo sa che i poli della conoscenza umana sono due e che essa non può prescindere da questa relazione: soggetto e oggetto si rimandano l’uno all’altro. L’oggetto — come recita il suo etimo — è lì, davanti a noi, s’impone alla nostra riflessione: la sua ragion d’essere è, però, assolutamente indipendente dalla nostra volontà, dipendendo, infatti, radicalmente, dal potere creatore divino. A esso possiamo appoggiare, come un chiodo nella roccia, saldamente, la nostra conoscenza, limitata sì, ma vera entro i nostri limiti di comprensione, dovuti alla nostra dimensione creaturale. Anche la Scrittura invita l’uomo a cercare nella “verità”delle cose, un’ombra, una traccia del Creatore, designandola, anzi, come una sua missione specifica: ”E’ gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle”. Pr.25,2) Diversamente, la nostra conoscenza evaporerebbe come un miraggio. Il filosofo Francesco Coralluzzo ha efficacemente sintetizzato la proposta realista per la comprensione del mondo: “Riconosce la priorità dell’essere sull’atto che lo coglie e sul soggetto che pone quell’atto; manifesta, in breve, il riconoscimento del primato dell’essere sul conoscere e, di conseguenza, la scelta per il realismo”. D’altro canto, ogni immanentismo è confutato dalla prima evidenza del senso comune, cioè l’esistenza delle cose; solo l’Ordine ontologico-, il reale che ci circonda-, ci attesta che la nostra conoscenza non è vuota. Lo studioso Piero Vassallo commenta — che il pensiero filosofico conosce la sua legge fondamentale riflettendo sulla realtà. Cita, a proposito, mons. Livi: “La celebre affermazione di San Tommaso d’Aquino circa il principio di non contraddizione che presuppone la conoscenza degli enti come diversi l’uno dall’altro, in modo che ciascuno di essi è, ma l’uno non è l’altro”. Naturalmente, non dobbiamo cadere nei due estremi del realismo: l’empirismo, legato unicamente a ciò che possiamo sperimentare con la ragione misurante e, di converso, l’ontologismo, che “vede”, ovunque, a dismisura, l’evidenza di Dio. Un tale realismo equilibrato esiste ed è costituito dalla filosofia aristotelica genialmente innestata da san Tommaso D’Aquino nella Tradizione cristiana. Il Magistero della Chiesa ha sempre raccomandato lo studio e la diffusione del pensiero dell’aquinate; anche nell’era moderna, dall’enciclica Aeterni Patris, promulgata nel 1879 da papa Leone XIII (1878-1903), per arrivare sino al Concilio Vaticano II (1962-1965) e alla già ricordata Fides et Ratio. In essa, Papa Giovanni Paolo II ricordava, a proposito dell’opera del Dottore Angelico, che: ” Con ragione, quindi, egli può essere definito apostolo della verità “. In chiusura dell’Anno della Fede, possiamo, dunque, per meglio esplorarne i contenuti, prendere l’impegno di studiare, ciascuno per come può, la novità perenne del pensiero di san Tommaso d’Aquino: la nostra testimonianza ne guadagnerà.

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