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Nichilismo e morale

Nietzsche

 

All’origine di questa forma moderna di scetticismo, come possiamo definire il nichilismo, vi è l’opera di due giganti del pensiero contemporaneo: Nietzsche e Heidegger. Secondo Nietzsche l’intera storia occidentale è una folle corsa verso il nichilismo; l’uomo ha creato la civiltà per dare un senso alle domande ultime sul significato e lo scopo del mondo ma tutte le risposte sono illusorie. Il divenire, infatti, attesta l’inesistenza di verità e valori stabili: il mutamento vanifica ogni pretesa di fondamento e stabilità della metafisica. L’uomo, secondo Nietzsche, corre spedito verso il nulla eterno; la morale, in primis quella cristiana, con le sue esigenze, altro non è che un freno al necessario divenire del mondo. Il “superuomo”nicceano, non frenato dalla morale, accetta la vita come accade, con il suo carico d’insignificanza e lungi dall’opporre resistenza all’incessante mutamento del mondo, diviene, anzi, egli stesso un attore di primo piano nella distruzione dei valori. Il celebre grido “Dio è morto”, altro non vuol dire, sennonché la spiegazione ultima del mondo va ricercata unicamente in cause materiali; tuttavia, Nietzsche trova il modo di spazzare via anche il positivismo, che della scienza aveva fatto un nuovo “dio”da adorare al posto del precedente. Nella sua visione disperata, l’uomo esprime la sua volontà di potenza, accettando d’inserirsi pienamente nel flusso incessante dell’eterno ritorno delle cose, superando così ogni valore, ogni ideale, scienza compresa; nel suo linguaggio, è la transvalutazione dei valori. La filosofa Laura Boccenti, criticando il pensiero di Nietzsche rileva, che: «L’assenza di scopo dell’esistenza, la critica alla morale e l’affermazione della morte di Dio non sono giudizi che nascono dalla mediazione della ragione. Nietzsche non si confronta col problema del fondamento della conoscenza né con la metafisica, ignora il primo, insulta la seconda, ma non dimostra in nessun luogo che Dio non esiste o che il bene è in verità male e viceversa». Interessante il paragone rilevato dallo studioso Roberto Rossi, che legge — sulla scorta di Michele Federico Sciacca (1908-1975) — nella morte di Dio nicceana, la morte stessa della verità, così com’era stata concepita fino allora. Così il grande Sciacca: «E’ evidente che nei tre momenti del processo del pensiero moderno e contemporaneo, a mano a mano che si nega l’oggettività della verità, si nega l’esistenza di Dio: la verità assoluta è lo stesso pensiero umano (primo momento); la verità è relativa, è non vi è la verità assoluta né immanente né tanto meno trascendente (secondo momento); la verità è lo stesso problema e il sistema della verità è la problematica pura e semplice (terzo momento)». Ancora Rossi: E’ il pagano “tutto è compiuto”, pronunciato dalla vita e dal pensiero dell’anticristo Nietzsche, che rinnova, nella sua opera distruttiva, la crocifissione della verità: «Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato». L’altro grande “costruttore” del nichilismo è Martin Heidegger, considerato come il pensatore più affascinante e influente del novecento europeo. L’attuale crisi della Fede “deve” molto al pensatore tedesco, poiché a Heidegger si sono ispirati, esplicitamente, sia il biblista R. Bultmann (1884-1976), sia il teologo Karl Rahner (1904-1984): cioè le personalità più influenti — quale che sia il giudizio sulla loro opera — del novecento nel campo della cultura cristiana lato sensu. Dal filosofo tedesco si è attinto a piene mani e per la terminologia”evento”, “ascolto” “disponibilità”, “progetto”— e, soprattutto, per le prospettive. L’adesione, “toto corde”, al pensiero heideggeriano, tramite l’opera di Rahner, della maggior parte dei teologi, ha portato come conseguenza alla disistima per la metafisica classica, per la razionalità oggettivante, per la logica definitoria e argomentativa. Come ricordato da Cornelio Fabro, Heidegger ebbe il grande merito di denunziare la deriva essenzialista dell’intera metafisica occidentale, che aveva interpretato l’ente, non dall’essere, ma dall’essenza; Heidegger, giustamente, rilevava che la distinzione essenza — esistenza aveva iniziato la dissoluzione della metafisica, concependo l’essere come ciò che è prodotto e aprendo, così, la strada al nichilismo. Questa l’argomentazione di Fabro: «Giustamente Heidegger arriva alla conclusione che nella concezione moderna di coscienza come “attività”, cioè volontà (Wille), si arriva a concepire l’autocoscienza come “volontà di volere” (Wille zum Wille); che è la libertà come soggettività pura (…) Per Heidegger la dottrina di Nietsche, che riduce l’essere a volontà di potenza e lo dissolve perciò nella soggettività del soggetto, è il punto di arrivo della metafisica occidentale che ha obliato l’essere". Ma questo non avviene in una metafisica come quella di San Tommaso, osserviamo noi, che a posto a fondamento della verità l’esse come actus essendi e Dio come Esse ipsum». Il filosofo friulano, per primo, colse e descrisse l’importanza dell’actus essendi nel sistema tomista, visto come il vertice della speculazione dell’Aquinate; esso rappresenta l’atto primo fondante e originante di ogni ente finito. L’actus essendi (di Dio), spiega Fabro, nei confronti degli enti contingenti è “emergente”, e, dunque, li fonda traendoli dal nulla e trascendendoli. Il punto cruciale della nozione di essere tomista è, per Fabro, — in oppositionem a tutta la tradizione neotomista —, la nozione platonica di partecipazione. La grande novità portata da San Tommaso nei confronti di Aristotele, dello stesso Platone e di tutto il pensiero moderno — secondo la geniale intuizione di Fabro —, è l’idea che gli enti contingenti partecipano, cioè ricevono l’essere, dall’Ipsum esse subsistens: è così espressa una radicale dipendenza della creatura dal Creatore.

Fabro precisa, tuttavia, che del pensatore tedesco si possono accettare e la diagnosi e il nucleo teoretico, costituito dalla problematica fondazionale della verità dell’essere; non si possono accettare, ovviamente, le sue conclusioni, che, invece, sono rimaste imprigionate in quella stessa deviazione essenzialista, da lui pur vigorosamente rilevata e denunziata. Tra l’altro, Fabro rilevò che Heidegger cadde poi nell’errore opposto a quello formalista della metafisica classica e del pensiero moderno; per “raggiungere” l’essere, obliò l’essenza, non riuscendo, così, a dar conto di tutta la complessità e varietà del reale. In quella che, forse, fu la sua opera fondamentale Sein und Zeit (Essere e Tempo del 1927), cercò di giungere a una verità definitiva sull’essere, che pensò di cogliere attraverso lo studio fenomenologico dell’uomo. Tuttavia, nell’analisi si fermò agli elementi puramente esistenziali: considerò l’uomo come un esser—ci (dasein), cioè un luogo in cui l’essere si dà. Alla fine della ricerca, concluse di non poter dire nulla circa la verità dell’essere, la sua “navigazione” — a differenza di quella platonica — approdò al porto del nulla, alla morte come fine ultimo dell’uomo. Roberto Rossi ascrive questo fallimento al fatto che, Heidegger nella sua ricerca, rimane imprigionato nelle tre linee direttrici principali del 900, da lui, peraltro, rafforzate: la frantumazione della conoscenza, dovuta all’oblio del concetto di verità; confusione, quasi completa, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto; assunzione dogmatica del mezzo linguistico, quale luogo manifestativo e quasi esaustivo della nozione di verità. Karl Lowith (1897—1973), sul messaggio essenziale di Sein und Zeit, si è così espresso: «Non rivela al lettore in nessun luogo che a Heidegger importi di raggiungere qualcosa di fermo, duraturo, indistruttibile, permanente— salvo in forma di quell’assoluto punto fisso che è la certezza della morte e quindi della nullità». Ancora Rossi, rileva che «in tal modo Sein und Zeit assume il ruolo di rappresentante massimo del nichilismo, in cui l’essere si trasforma in nulla, il permanere in ciò che diviene, che nasce e che muore.(…) La diagnosi nichilista, è quanto Heidegger conferma in Was ist metaphysik? dove Essere e nulla sono inseparabilmente connessi, e quanto si evince dal libro heideggeriano su Kant che sarebbe seguito a Sein und Zeit e dove (…) l’essere stesso è finito nella sua essenza e si rivela soltanto nella trascendenza dell’esserci proteso verso il nulla. In qualsiasi luogo e a qualsiasi profondità l’indagine possa tastare l’essente — scrive infatti Heidegger — mai essa troverà l’Essere. (…) Il processo della filosofia trascendentale di Kant, così, avrebbe il suo compimento e ultimo erede, non già in Fichte ma in Heidegger, dove la conoscenza si esaurisce nel solo campo interpretativo». Sein und Zeit, dunque, ha portato all’introduzione di un nuovo principio esistenziale concernente l’uomo e la morale; il primo è inteso come “essere—nel mondo”e/o “essere—in—situazione”con immediate ripercussioni sulla seconda: generando la cosiddetta “morale di situazione, che in omaggio al principio heideggeriano di non voler raggiungere nulla di permanente, proclama l’inesistenza di principi e valori morali immutabili. L’uomo contemporaneo trarrà dal suo stesso modo di “essere—nel mondo”, qui e ora, la sua morale. L’”essere—del—mondo” è identificato, da Heidegger, con il divenire della coscienza dell’uomo nella storia. Chiaramente, se la coscienza dell’uomo diviene con la storia, ciò che ieri era considerato immorale, oggi non lo è più e, parimenti, ciò che oggi lo è, domani non lo sarà più. Questo divenire temporale della coscienza, naturalmente, ha finito per invadere e inquinare il campo del diritto, che se prima dell’avvento del nichilismo — dai tempi più antichi, su fino al XVIII secolo —, presentava istituti e norme rispondenti a un ordine naturale superiore e trascendente e, dunque, sostanzialmente immutabili nella loro essenza, ora, in oppositionem, è tutto il contrario. Il Diritto, cioè, si deve adeguare all’Io e alle sue voglie, qualunque esse siano. Allo scopo, si parla di nichilismo giuridico. Uno dei suoi più illustri teorici, il prof. Natalino Irti, così lo descrive: «Laicizzate le fonti del diritto e sciolto ogni legame con la teologia, le norme sono venute nell’esclusivo e totale dominio della volontà umana (…) L’età moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele: produrre. (…) La forza che le produce (…) è soltanto il volere degli uomini». “Volere”degli uomini, che si è, dunque, completamente sostituito a quello di Dio. Ma la parte più luciferina, forse, è la seguente, scritta sempre dal prof. Irti: «Le officine giuridiche lavorano in tutte le ore del giorno ed in tutti i luoghi della vecchia Europa: nessuna norma ha privilegio d’immutabilità e d’inviolabilità».Questo enunciato è davvero inquietante; dà perfettamente l’idea di quanto l’Europa, un tempo cristiana, “lavori”, ormai, contro se stessa e le sue radici, impoverendosi, così, fino alla “morte”. In queste oscure “officine”, dove, per dirla con il prof. Irti, si lavora instancabilmente, che cosa si sta “producendo”? Non sembra neppure troppo difficile indovinarlo: negli ultimi anni si sta “lavorando”alacremente alla distruzione di quella cellula vitale della società, che è rappresentata dalla famiglia naturale e cristiana, difesa persino dall’articolo ventinove della Costituzione della Repubblica Italiana. Basandosi sull’assunto nichilista, che il diritto coincide con la volontà del legislatore, qualche anno fa in Finlandia fu presentato un progetto di legge — come ricorda il magistrato italiano Francesco Mario Agnoli —, recante una definizione di “famiglia” adatta ai tempi del nichilismo: «L’insieme di coloro che usano lo stesso frigorifero». Ogni commento sarebbe superfluo…

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