Karl Rhaner e la Chiesa “Moderna”

Karl_Rahner_by_Letizia_Mancino_Cremer

 

Al culmine della crisi postconciliare, nel 1977, PaoloVI in una famosa intervista, concessa al filosofo francese Jean Guitton (1901-1999), incentrata sulla crisi nella Chiesa, disse: “C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo della Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: “Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?”. Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi e constato che in questo momento emergono alcuni segni di questa fine. Siamo prossimi alla fine? Questo non lo sapremo mai. Occorre tenersi sempre pronti, ma tutto può durare ancora molto a lungo. Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”. Tra gli “artefici” principali di quella crisi -più che mai attuale- va annoverato certamente il teologo e gesuita tedesco Karl Rhaner (1904-1984). Sopravvalutare l’influenza che la sua’opera ha avuto sull’intera Chiesa, dagli anni 60 a oggi, è davvero difficile; su questo punto, amici e nemici, concordano tutti. Già all’indomani della chiusura ufficiale del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965), iniziò una sorta di “guerra santa” su come doveva essere interpretato: se in “continuità” o in “rottura” con tutta la Tradizione della Chiesa. Nacquero così le due ermeneutiche, che si fronteggiarono a tutto campo, con grave nocumento per la fede e per la vita della Chiesa. Per comprendere il disagio che attanagliò e scosse l’intera comunità ecclesiale, basti riportare un dato indicativo: gli iscritti all’Azione Cattolica, associazione considerata il fiore all’occhiello della Chiesa, solo in Italia, nell’arco di pochi anni, crollarono da tre milioni a poco più di mezzo milione! A trionfare, naturalmente, dopo oltre due secoli di lavorio continuo della filosofia moderna-penetrata appieno nella Chiesa, a tutti i livelli- fu la cosiddetta ermeneutica della “rottura”, che considerava il Concilio come l’atto di nascita di una nuova epoca, quasi, oserei dire, di una nuova Chiesa, in totale frattura con i venti secoli precedenti! Dopo diversi interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II (1978-2005), tesi a riequilibrare la situazione, ci fu quello netto, perentorio, di papa Benedetto XVI (2005-2013), che in uno splendido discorso tenuto alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi, nel 2005, a proposito delle due ermeneutiche, così le descrisse: ” L’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass—media e anche di una parte della teologia moderna, da lui giudicata fuorviante e “l’ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto—Chiesa, che il Signore ci ha donato”, considerata quella corretta. Uno dei padri nobili, non certo il solo, ma forse il più influente, dell’ermeneutica della “rottura”, fu proprio Karl Rahner. La sua teologia, infarcita, per sua stessa ammissione, di filosofia heideggeriana, originò la distinzione tra “fede ufficiale”—proclamata dalla Chiesa— e “fede effettiva” o “reale”, ossia la fede di “molti uomini” che in varie epoche ha influenzato la Chiesa: questa sarebbe la fede normativa, non l’altra. Naturalmente, Rahner non precisa l'identità di questi uomini. L’influenza hegeliana prima e heideggeriana poi, è lampante. George Whilelm Friedrich

Hegel (1770—1831) aveva parlato di Wirklichheit—effettività— la quale non si basa su un dato esterno, oggettivo, — a ES i testi del Concilio in particolare, e quelli del Magistero in generale, per il caso di specie che qui c’interessa— cui l’intelletto deve conformarsi— adaequatio tomista—, ma su un “dato fatto”—soggettivamente stabilito, privo di dati oggettivi—, considerato “vero”soltanto perché esiste “effettivamente”e ottiene consensi. Questo “dato fatto”, soggettivo e ottenente consensi, nel linguaggio heideggeriano si trasformerà nell’”evento”, parola, ormai, quasi taumaturgica nella teologia contemporanea e non solo. Occorre rilevare un ultimo passaggio, decisivo, per comprendere il perché dell’ermeneutica della rottura e, più in generale, la disaffezione generalizzata, venata da tratti di insofferenza, verso il Magistero. In Hegel, come poi in Heidegger, così come l’essere coincide con l’essere pensato, il diritto coincide con il fatto è non è la sua regola; in altre parole, la ragione non è appannaggio di chi ragiona sillogisticamente o di chi porta argomentazioni plausibilmente verosimili, ma è di chiunque riesca a imporre —il modo non importa— la sua visione delle cose: in quest’ottica, non è irrilevante notare, che Benedetto XVI— come visto prima—rilevi la maggior diffusione mediatica dell’ermeneutica della rottura. L’applicazione della Wirklichheit hegeliana, comporta un’inversione pratica del rapporto Magistero —fedeli con i secondi, che mediante la “fede effettiva”—derivata, secondo Rahner, dalla fede trascendentale, “atematica”, tipica di ogni uomo—impongono al primo i contenuti—sempre mutevoli —della fede; il Magistero deve limitarsi a prendere atto di questa “fede effettiva”, interpretarla correttamente e custodirla gelosamente fino a che lo Spirito non indicherà nuovi contenuti di fede, rispondenti alle mutate condizioni storiche. Siamo, dunque, in pieno storicismo di matrice hegeliana. Rahner mostrerà questa sorta di diritto alla creatività dottrinale, cui anche il Magistero deve adeguarsi, da parte dei “molti uomini”, in un passaggio scritto in una delle sue opere più note, Nuovi Saggi: “La coscienza del singolo cristiano non è e non può essere la semplice eco, lo specchio e l’immagine riflessa e la riproduzione della dottrina ecclesiale ufficiale”. Qui è lampante il “trionfo”, la piena “maturità”raggiunta dall’amaro frutto dell’idealismo, che partito dall’autocoscienza, dall’Io cartesiano come fonte unica di verità su Dio e sul mondo, è giunto ad avere la certezza, non dai dati sensibili, ma da una certezza spirituale immediata, originale e riflessa del proprio atto di pensare che in realtà non è propria dell’uomo ma di Dio (padre Giovanni Cavalcoli) Il risultato? In tanti, oggi, a “destra” come a “sinistra”- per quel che possono valere queste distinzioni in campo ecclesiale- dopo decenni di sedimentazione di queste false dottrine, si sentono autorizzati- consapevolmente o no dalla Wirklichheit hegeliana e dal cogito cartesiano, ad autonominarsi “maestri del papa”. In fondo, se si possiede il pensiero divino, non è poi così difficile, o no?

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