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La canzone del complesso dei Nomadi fu eseguita più volte a suon di chitarra nelle chiese di tutt'Italia. La canzone ebbe uno strano destino fu censurata dalla Rai e trasmessa invece da Radio Vaticana. Lo scrive Roberto Beretta in un agile pamphlet «Cantavamo Dio è morto. Il 68 dei cattolici», Edizioni Piemme (2008).

Beretta a distanza di quarant'anni, prova a fare una sintesi del variegato 68 cattolico. E' importante studiare il movimento culturale e sociale del 68 anche perchè ancora ne subiamo i frutti amari di quei “formidabili anni”.

Il testo di Beretta si divide in due parti: “Il Sessantotto cattolico. Il mito” (pars destruens) e il “Sessantotto cattolico. La nostalgia” (pars costruens).

La tesi di fondo del libro è che il movimento studentesco del 68 è nato da leader che erano tutti cattolici e la prima università occupata fu appunto quella della “Cattolica” di Milano, il 17 novembre del 1967. Inoltre ci tiene a precisare Beretta che il primo indumento-simbolo della contestazione non fu l'eskimo bensì un impermeabile da prete.

L'Università fondata da padre Agostino Gemelli fu occupata per ben quattro volte. Il testo racconta dettagliatamente gli avvenimenti, l'arringa di Mario Capanna, davanti all'Ateneo e l'anziano rettore Ezio Franceschini che cerca di reagire punto su punto agli attacchi del giovane Capanna. Beretta fa una breve biografia dei personaggi, a cominciare da Capanna, mandato a studiare a Milano da un paesino dell'Umbria con lettera di presentazione del vescovo monsignor Luigi Cicuttini e del prete locale. Era il migliore della parrocchia.

Beretta cita Filippo Gentiloni, il “vaticanista” del Manifesto che scrive: «[...]fra i protagonisti - leader o no - del 68, molti, moltissimi si erano formati all'ombra dei campanili e nelle varie associazioni cattoliche (scout, Acli, Azione Cattolica, Fuci, e altre sigle meno note)». Anzi spesso questi cattolici con meraviglia dei compagni, li scavalcano a “sinistra”. Il libro fa decine di nomi più o meno noti, protagonisti del 68. Il primo corteo studentesco organizzato dopo l'occupazione della Cattolica, «non andò a finire alla prefettura, o a Palazzo Marino sede del sindaco, o verso altre mete simboliche del potere civile o sociale: bensì – e non a caso – sotto le finestre dell'arcivescovo di Milano Giovanni Colombo».

Il 2° capitolo si occupa sul grado di democraticità del 68. Beretta descrive la tecnica movimentista delle cosiddette “assemblee” che non finivano mai, duravano fino a tarda notte, e poi quando la maggior parte degli studenti esausti abbandonavano il campo, una piccola minoranza di studenti, quelli politicamente più attivi, votava e prendeva le decisioni più importanti. Si comincia a sperimentare la dittatura della minoranza sulla maggioranza, una situazione che lo stesso rettore denuncerà, partecipando alle assemblee. «Tutti potevano parlare, sì, però chi teneva in pugno le decisioni erano pochissimi […] Dominavano le “minoranze attive” che avrebbero dovuto guidare le classi inferiori verso la conquista del potere».

Peraltro Franceschini non era uno di quei retrivi “baroni” dell'università contro cui si scagliavano gli studenti, era un riformista, ma non accettava le rivoluzioni del “tutto e subito”. Eppure Franceschini, passò come “cattivo” secondo i contestatori. Fu secondo Beretta «una vittima 'bianca' del Sessantotto».

Nel 3° capitolo si dà conto del «controquaresimale di Trento», un'altra mitica università, la facoltà di sociologia, dove vengono attirati da tutta Italia, 2500 studenti. Il direttore è Francesco Alberoni, che vuol far diventare la facoltà un “laboratorio” per la fusione delle due culture di massa italiana: quella cattolica e quella marxista. Qui i protagonisti sono tanti, si va dal marxista Mauro Rostagno al cattolico Marco Boato e poi Renato Curcio, e Margherita Cagol, entrambi cattolici.

Beretta racconta dell'episodio della cattedrale di Trento, dove viene interrotta un'omelia di un frate cappuccino che sta parlando delle persecuzioni dei cristiani in Unione Sovietica. L'omelia viene interrotto da uno studente (Paolo Sorbi) che grida: “Non è vero!”. Scoppia una tafferuglio tra i fedeli e il ragazzo. Ben presto il gesto «diventa “profetico”, destinato ad occupare per mesi le pagine dei giornali nazionali, offrendo al suo autore una sorta di tournèe di incontri e testimonianze in varie località non solo trentine». E' sempre così capita ancora ai nostri giorni.

Naturalmente l'interruzione era organizzata, e poi tutte le altre, non c'era mai niente di spontaneo. Gli stessi protagonisti lo raccontano. La teologa progressista Adriana Zarri può affermare: «finalmente anche l'Italia si sta svegliando dal suo torpore religioso».

Sulla falsa “spontaneità” del 68 si occupa il 4° capitolo, trattando dell'occupazione del Duomo di Parma. Un gruppo di giovani, dispongono le sedie a cerchio in mezzo alla navata in “assemblea permanente”, leggendo e discutendo sulla povertà nella Chiesa. Così Parma diventa la bandiera del dissenso cattolico e l'occupazione del duomo genera un clamore che va oltre i confini nazionali.

Al 5° capitolo è protagonista la violenza. Beretta ricorda la “battaglia di Largo Gemelli” alla Cattolica, tra gli studenti che occupano l'università e la polizia che cerca di sgomberare l'ateneo. Uno spettacolo desolante, ben presto il disordine si diffonde al centro di Milano. Lo stesso scenario si ripete in altre occasioni, quando i manifestanti cercarono di assalire la sede de “Il Corriere della Sera”, in via Solferino. Si cercava di impedire l'uscita dei camion che trasportavano il quotidiano della “borghesia”. E nonostante tutto, per alcuni il Sessantotto non era violento. A questo punto Beretta racconta il legame del Sessantotto con il terrorismo. Trento è stata una delle“capitali” del Sessantotto cattolico, ma nello stesso tempo è stata anche una delle“culle” delle Brigate Rosse.

C'è un legame tra i due fenomeni? Per Boato No, ma per Renzo Gubert si: «La teorizzazione della violenza come metodo di cambiamento apparteneva già agli studenti trentini e a Boato stesso, anche se oggi lo nega. Le Brigate Rosse sono state la conseguente concretizzazione delle teorie elaborate nel Sessantotto a Trento. Curcio e gli altri si trasferirono a Milano perchè ritenevano che Trento fosse troppo piccola e periferica, non industrializzata, per far partire da lì la 'rivoluzione'».

Beretta insiste sulla provenienza culturale e religiosa di Curcio e la compagna Cagol, soprattutto quest'ultima apparteneva ad una famiglia molto cattolica. Tra l'altro il padre, che morirà pochi mesi dopo l'uccisione della figlia, fino alla fine supplicava i parenti: “Ditemi che non è vero!”.

Il Pdup (Partito democratico di unità proletaria) di area estrema sinistra, aveva una forte percentuale di cattolici. Non si può negare che esista una sorta di “attrazione fatale” tra marxismo e cristianesimo, lo scriveva La Pira a Fanfani nel 1968. E Michele Serra ha notato: «la storia del terrorismo rosso è in larga parte anche storia di militanti di formazione cristiana». Mentre il cardinale Attilio Nicora ammetteva: «E' onesto riconoscere che alcuni giovani delle Brigate Rosse sono nati nei nostri oratori». Sembra che i cattolici erano “più portati” di altri alla lotta armata. Beretta cita la rivista “Concilium” del 1966: «[...] non è possibile escludere a priori la legittimità di un ricorso temporaneo all'illegalità, alla violenza».

«“I cristiani del dissenso” per Giorgio Bocca, “quelli che vogliono il 'vangelo in terra', non conoscono tappe intermedie, non approdano a partiti laici e liberali, vanno di filato in un'altra chiesa, marxista leninista».

Per il sociologo Sabino Acquaviva, «alcune eventi religiosi hanno influito molto sulla dinamica della rivolta». Tra questi il sociologo annovera la secolarizzazione della Chiesa cattolica, e poi la perdita dei valori religiosi. Molti cristiani cercano la totalità religiosa in movimenti che promettono questa senso di totalità.

Il 6° capitolo del testo si domanda se il Sessantotto fu “figlio del Concilio”. Certo molti contestatori sono convinti di essere “figli del Concilio”, anzi di applicare sulle barricate e con gli striscioni la novità del Vaticano II.

Beretta a questo proposito fa parlare Raniero La Valle, che è convinto che il 68 cattolico interpreta le stesse rivendicazioni del Vaticano II. Del resto fa notare Beretta i leader studenteschi e gli esponenti del dissenso cattolico citano volentieri i testi conciliari e alcuni documenti dei Papi. Per loro alcuni brani erano rivoluzionari. C'era il fondato sospetto che questi signori non avessero letto i documenti conciliari. Citano il Concilio come altri citano Marx senza averlo letto.

Comunque Beretta si dilunga sull'interpretazione del Vaticano II da parte degli esponenti religiosi di allora. Cita Maritain, De Lubac, Enzo Bianchi, fino ad arrivare alla posizione di Paolo VI con i suoi ben sessantanove discorsi critici sulla contestazione nella Chiesa. Beretta fa riferimento ai pronunciamenti di Paolo VI in merito al Credo del popolo di Dio, richiamato da alcuni come il “nuovo Sillabo”. Infine la promulgazione dell'enciclica “Humanae vitae”,  sulla sessualità umana, e qui Paolo VI diventa il nemico numero uno del cosiddetto progressismo all'interno della Chiesa e fuori.

Il 7° capitolo Beretta elenca i vari movimenti interni alla Chiesa, si va da Sant'Egidio a CL e pone una domanda: Il Sessantotto fu “inevitabile”?

Nella seconda parte (la pars costruens), il testo prende in esame il rapporto tra il cardinale Florit e l'Isolotto, l'esperienza di cattolici del dissenso di Firenze. Qui c'era il simbolo di una Chiesa “evangelica”, “povera” contro quella “gerarchica” e “anticonciliare”. Era come un faro l'Isolotto, scriverà Lidia Menapace, ex docente della Cattolica e poi senatrice di Rifondazione Comunista. Il libro evoca diversi nomi e comunità di quel momento, Interessanti alcune citazioni e prese di posizione come quella di don Mazzi che vedeva nel sessantotto una “nuova nascita”. I continui viaggi  tra Milano e Firenze per condividere, partecipare e testimoniare. L'esperienza «dell'Isolotto non si può discutere, come si potrebbero discutere delle idee o delle opinioni». Praticamente questi signori stavano fondando un'altra Chiesa. Mi sembra doveroso fare una precisazione. Sostanzialmente questi cattolici del dissenso, chiamati sbrigativamente cattocomunisti, avevano la pretesa di trasformare, di rinnovare la Chiesa, e di conseguenza il mondo.  Nella lunga storia della Chiesa ci sono sempre stati questi movimenti. Ma chi ha veramente rinnovato, riformato la Chiesa sono stati i Santi, pensate a S. Benedetto, a S. Francesco, a S. Domenico, S. Caterina e poi a quelli più vicini a noi, la schiera dei Santi sociali torinesi da S. Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo. Questi si che hanno trasformato la Chiesa e il mondo.

Beretta affronta la posizione di don Lorenzo Milani, anche per il giornalista di Avvenire, sembra che il sacerdote di Barbiana sia stato strumentalizzato da parte di queste frange progressiste della Chiesa. Don Milani spesso viene piegato agli usi della contestazione ecclesiale. Don Milani sostiene Beretta, aveva sempre obbedito alla Chiesa e ai suoi superiori gerarchici.

Non è stato così per tanti altri preti che hanno gettato la tonaca all'aria. Il primo nemico era in casa, lo aveva capito lo stesso Paolo VI in un discorso nel settembre 1969: «le difficoltà maggiori oggi sorgono dal seno stesso (della Chiesa), i dispiaceri più pungenti le sono dati dalla indocilità e dall'infedeltà di certi suoi ministri e di alcune sue anime consacrate[...]».

Una potente “arma impropria” della contestazione cattolica fu la Liturgia. Attraverso il passaggio della messa in latino a quelle in lingua nazionale si fece passar di tutto, messe “beat”, “yè-yè”, “hippy”, con chitarre elettriche e tanto altro. In tanti riti sperimentali si leggevano brani di Camillo Torres, il prete combattente del Sudamerica, invece dei testi biblici. La messa doveva essere “democratica”, si celebrava negli appartamenti, si usavano strumenti “normali”, al posto di quelli sacri (tavoli, bicchieri, giacche e cravatte). Si doveva eliminare il rito e si poneva l'accento sulla “creatività”. Perfino don Giuseppe Dossetti ad un certo punto si scandalizzò della deriva delle sperimentazioni.

Infatti tra le derive liturgiche operate dai contestatori ci fu il boom dello spontaneismo e dei gruppi. Qualcuno ha censito fino a duemila “gruppi giovanili spontanei” esistenti in tutta la penisola. In questi gruppi, nonostante l'origine evangelica, era «prevalente l'impegno politico», soprattutto collocato a sinistra contro il capitalismo, l'imperialismo e l'integrismo. I loro maestri ben presto diventano Marx e Freud. I loro ideali Che Guevara, Mao Tze Tung. «Il vento del sessantotto si era infiltrato persino nei seminari». E qui non mancano i numerosi esempi di derive rivoluzionari negli istituti religiosi.

A poco a poco si arriva al punto che il sacerdote non sa più che cosa è. E quindi vuole reinventarsi. La sfiducia nella dottrina e nella tradizione assale gli uomini di Chiesa. Così nascono i preti “critici”, “solidali”, l'obbedienza sparisce e si fa un ricorso ingenuo e servile ai surrogati delle ideologie.

In questa situazione di sfiducia e di disorientamento è ovvio che le defezioni sacerdotali aumentano, se tra il 1928 e il 1958 si registrano in Italia tra sei e novemila crisi sacerdotali. Tra il 1963 e il 1968 le domande di dispensa s'impennano sopra i settemila. Beretta nota pure che in questo periodo, c'è un forte aumento di saggi sulla “crisi del prete” e peraltro non si tratta di case editrici laiche, pronte a cavalcare la tigre del disorientamento ecclesiale, ma di case editrici cattoliche.

Nel 4° capitolo Beretta racconta le colpe degli intellettuali, dei teologi, che hanno prodotto il nuovo Catechismo olandese. Intellettuali che inneggiavano al Vietnam, al terzomondismo contro l'imperialismo americano. Interessante la scheda di Beretta su Camillo Torres, il prete col mitra e quindi con tutte le giustificazioni morali da parte della “Teologia della Liberazione”, nata in America Latina. Sarebbe interessante soffermarsi sui preti combattenti, che trovavano nel Vangelo, la giustificazione per operare nella società attraverso la lotta armata. Anche qui Beretta racconta fatti e nomi di quel tempo. Gli ultimi capitoli raccontano dei tanti ex sessantottini che nonostante i loro trascorsi fanno carriera e occupano posti importanti nella società. Non a caso il filosofo torinese Augusto Del Noce «aveva segnalato il Sessantotto come rivoluzione intraborghese, che marcava il passaggio dalla vecchia classe dei borghesi con valori cattolici a un neo-capitalismo selvaggio». Sono numerosi gli ex del sacco a pelo che ora “occupano”, profumatamente pagati, i posti borghesi un tempo violentemente aborriti.

 

Provate ad entrare in una libreria e cercare volumi dedicati al comunismo o alla storia dell’Unione Sovietica. O ancora provate a cercare le opere del premio Nobel per la letteratura Alexandr Solzenicyn (1918-2008). Carneade, chi era costui? Come scriveva Arkadij Belinkov (1921-1970), dissidente sovietico condannato a morte (1944) per un suo romanzo e poi sopravvissuto, un libro sul Gulag sovietico “non suscita affinità elettive, è puro esotismo e l’esotismo non lo prende sul serio nessuno”. Sono trascorsi diversi decenni dalla caduto il Muro di Berlino, l’Unione sovietica non esiste più, ma quella pagina di storia lunga 70 anni e, per qualche miliardo di persone, non ancora conclusa, non esiste. O almeno così è in alcune librerie. Cercare una perla preziosa come Nel primo cerchio (Voland, dicembre 2018), impossibile, come è capitato a Anna Zafesova, giornalista e Russia watcher, in una libreria di Milano qualche anno fa. La Zaferova ha scritto la postfazione del corposo volume (949 pagine) che esce finalmente nell’edizione integrale. Quella stampata da Mondadori era tratta dalla copia uscita nel samizdat, arrivata clandestinamente in Occidente e che gli fece meritare il Nobel, ma che lo stesso Solzenicyn aveva censurato, “spennato” come dice lui stesso, nella speranza, vana, di vederla pubblicata. Nel 1968 ricostruisce la sua opera integrale che viene pubblicata in Russia nel 1990. Nella copia “spennata” mancano nove capitoli. Il volume non è passato inosservato tanto che a gennaio 2019 è uscita una seconda edizione e se ne è parlato sul Corriere della Sera, Il Giornale, Il Foglio, Il Sole 24 Ore, ma provate a cercarlo in una libreria. Un capolavoro della letteratura mondiale, forse il libro più bello dell’anno, del decennio, del secolo, dove in tre giorni, intorno a Natale del 1949, si dipana una storia che coinvolge decine di personaggi molti dei quali prigionieri politici nel miglior girone possibile del Gulag sovietico. Il primo cerchio, la saraska di Marfino dove si vive una vita dignitosa rispetto agli altri reclusi nel sistema concentrazionario sovietico a patto di lavorare per il potere: costruire apparecchiature che consentano di arrestare altri uomini. Anche se il confine tra la prigione e la libertà è labile come dimostrano le pagine dedicate a Josif Vissarionovic Stalin (1878-1953) prigioniero delle sue paure in una società dove la paura è la vera padrona. “Ad avere sempre paura di qualcosa, come si fa a restare uomini” pensa tra sè Innokentij Volodin il protagonista del romanzo (pag. 14). Decine di storie si intrecciano, anche autobiografiche, ma magistrali restano le pagine nelle quali Alexandr Solzenicyn descrive, con un realismo che qualche decennio dopo verrà confermato da molte fonti, il Capo Supremo che vive come un recluso, “un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci” che incespica nei lembi della vestaglia. Padrone di mezzo mondo che con andatura strascicante entra “nella bassa camera da letto senza finestre, con i muri in cemento armato”. Sono sei capitoli, dal 19 al 23, dove Solzenicyn descrive con tratti taglienti l’uomo che “terrorizzava perché uno sbaglio commesso con Lui era l’unico nella vita”. “Stalin terrorizzava perché non accettava giustificazioni, non accusava nemmeno. La punta di un baffo che sussultava, e la sentenza era emessa, con il condannato che nemmeno se ne accorgeva: se ne andava tranquillamente, poi veniva preso di notte e fucilato” (pag. 169). Descritta magistralmente la solitudine del Saggio dei Saggi che non si fidava di nessuno: madre, Dio, contadini, operai, ingegneri, soldati, generali. “Non si fidava delle persone a lui vicine. Delle mogli e delle amanti. Non si fidava nemmeno dei figli. E aveva sempre avuto ragione!” (pag 175). E si capisce perché, come scrive Anna Zafesova nella postfazione, Aleksandr Tvardovskij obiettò che Solzenicyn non poteva inventarsi “dettagli così precisi e certi della vita del monarca”. Erano dettagli troppo drammatici, crudi, ma veri che andavano nella logica direzione di “dimostrare che Stalin non fosse una tragica “deviazione”, ma il prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista (…), non un’eccezione, ma la sua massima espressione” (pag. 944). Forse per questo Solzenicyn non si trova nelle nostre librerie.

Perchè dovremmo leggere la Commedia a settecento anni dalla sua composizione? E' la domanda che pone Giovanni Fighera, nel suo ultimo lavoro, «Paradiso. In viaggio con Dante verso le stelle», SugarcoEdizioni (2019). Basterebbe la risposta che dà lo stesso Dante nella lettera inviata a Cangrande de la Scala: Il fine della Commedia è quello di “rimuovere gli uomini finchè sono ancora in vita dalla condizione di infelicità e accompagnarli allo stato della beatitudine”.

Sostanzialmente l'opera dantesca è un viaggio verso la felicità e la salvezza. Il professore Fighera ha una certezza: «la Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull'uomo di oggi, come del passato».

Il viaggio di Dante rappresenta il cammino della vita di ogni uomo. In ogni verso «la Commedia ha la capacità di illuminare la vita quotidiana e la realtà in cui viviamo».

Nella Commedia Dante celebra la bellezza del creato, della natura, di Dio. “Come si fa ad essere cattivi dopo aver sentito una musica così bella?”, ha esclamato una spia della Stasi, che stava controllando la vita di un musicista. La stessa cosa si potrebbe dire dopo aver letto i tre canti della Commedia.

Alcuni studiosi nel 1992 hanno cercato di diffamare il capolavoro dantesco, sostenendo che nella Divina Commedia erano presenti contenuti offensivi e discriminatori nei confronti degli ebrei e delle razze. Pertanto Fighera si domanda: «chi ha espresso queste opinioni ha davvero letto la Commedia, ha visto che Dante, in base ai suoi principi, ha collocato anche papi e imperatori nell'Inferno? Ha visto che i sodomiti non sono posti solo nell'Inferno, ma anche nel Purgatorio, proprio come i peccatori lussuriosi eterosessuali che possono essere collocati all'Inferno o in Purgatorio?».

Tuttavia nella Commedia se c'è un “discrimine” è nei confronti di tutti i violenti, assassini, golosi, cioè di tutti i peccatori. Comunque Dante che è stato esiliato in vita, ora rischia «di essere esiliato ancora oggi, di essere bandito dai programmi, dalle scuole, dalle università».

Se certi uomini di cultura cercano di “esiliare” Dante, invece per il professore Fighera perchè non augurargli la canonizzazione, «il maggior poeta dell'aldilà, che senz'altro ha destato le coscienze di molti e ha accompagnato tanti altri lungo il cammino della purificazione e della santificazione?»

Il cantore più eloquente del pensiero cristiano.

E subito si appresta ad esporre come è stato considerato dai suoi contemporanei, dagli uomini del Novecento, dalla Chiesa. La sua opera politica, il De monarchia, è stata considerata anacronistica, «mentre la Commedia non è stata mai posta all'indice, malgrado compaiono nell'Inferno dantesco numerosi papi, cardinali, vescovi».

Comunque  a partire dal Novecento, la Chiesa da sempre ha riconosciuto alla Commedia, un valore dottrinale altissimo. In una lettera di Benedetto XV, datata 28 ottobre 1914, si può leggere che Dante «con versi né prima né dopo uguagliati, espose le più alte verità di fede» e «non avvenne mai che si discostasse dalle verità della dottrina cristiana». In occasione del sesto centenario della morte, il 30 aprile 1921, sempre Benedetto XV, ha dedicato a Dante una lettera enciclica In praeclara summorum a Dante, riconosciuto come poeta ancora contemporaneo, seppure distante nel tempo, valida guida per l'uomo odierno: «egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli conserva ancora la freschezza di un poeta dell'età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell'antichità che fu spazzata via da Cristo, trionfante sulla Croce». Fighera ci tiene a precisare che la dedica di un'enciclica ad un poeta, è l'unico caso nella storia.

Papa Benedetto XV esalta l'Alighieri: «nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri».

Pertanto sempre secondo il pontefice, la Commedia di Dante, «ha un alto e riconosciuto valore pastorale, dal momento che molti lettori, catturati dalla bellezza dei versi e delle storie, sono stati poi attratti alla verità della fede cattolica e si sono convertiti». Inoltre Dante viene riconosciuto come «Il cantore […] più eloquente del pensiero cristiano». Dunque il papa ci esorta a dedicarci a lui con amore, «tanto più la luce della verità illuminerà le vostre anime e più saldamente resterete fedeli e devoti alla santa fede».

E se qualcuno obiettasse che Dante nella sua opera si scaglia contro rappresentanti della Chiesa cattolica, Benedetto XV prontamente risponde che Dante nonostante si scagliasse a ragione o a torto contro persone ecclesiastiche, «non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi».

Mentre san Paolo VI, il 7 dicembre 1965, in occasione del VII centenario della nascita di Dante, fece pubblicare una Lettera Apostolica Altissimi cantus, per sottolineare il vivo interesse della Chiesa per la figura di Dante, istituendo una Cattedra di Studi Danteschi presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Paolo VI definisce Dante come «l'astro più fulgido», della nostra letteratura e “padre della lingua italiana”. Infine invita ed esorta tutti noi a onorare “l'altissimo poeta”: cantore ecumenico ed educatore del genere umano[...]».

Infine, esorta i contemporanei, «in un momento di crisi culturale come quella in cui vivono, a illuminare la propria cultura 'incontrandosi con un così alto spirito'. Dobbiamo volgere lo sguardo a Dante, perché, 'ostacolati da una selva oscura', possiamo orientarci verso 'dilettoso monte/ch'è principio e cagion di tutta gioia' (Inferno I, vv 77-78).

Ma anche gli ultimi tre papi hanno mostrato vivo interesse per la Commedia. In particolare Benedetto XVI si richiama spesso alla Commedia per presentare i santi e la Madonna. Mentre papa Francesco in occasione del 750° anniversario dalla nascita del sommo poeta è convinto che la Divina Commedia «può essere letta come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico». Per il Papa, il capolavoro del poeta fiorentino «rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce ‘l’aiuola che ci fa tanto feroci’ per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità. È questo l’orizzonte di ogni autentico umanesimo».

Inoltre papa Francesco afferma: «Onorando Dante Alighieri, come già ci invitava a fare Paolo VI - si legge nella parte finale del messaggio - noi potremo arricchirci della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla méta sognata e desiderata da ogni uomo: ‘L’amor che move il sole e l’altre stelle’».

Queste citazioni ci fanno capire che la Chiesa, i sommi pontefici hanno sempre apprezzato la Commedia come opera pienamente cristiana. Anzi «attraverso le tre cantiche, ha sottolineato papa Benedetto XVI, è suggerito per noi tutti un cammino umano e di fede per la nostra salvezza e per la redenzione del mondo».

Al 6° capitolo del libro, Fighera risponde ad una interrogazione fondamentale per comprendere il suo libro: «Perché la cantica dell’Inferno avvince e appassiona, mentre l’interesse per il viaggio di Dante scema nel secondo Regno e poi nei Cieli del Paradiso dantesco?»

La risposta del professore è abbastanza articolata. E' importante prestare attenzione alle considerazioni filosofiche culturali di Fighera per comprendere perché gli uomini contemporanei sono interessati solo all'Inferno. A mio avviso leggendo questo capitolo si comprende perché è importante leggere, studiare tutto il libro di Fighera. Un ottimo testo che certamente non solo vuole introdurre alla lettura della Divina Commedia, ma intende anche aiutare il credente a rafforzare la propria fede.

L’epoca contemporanea vive la propria libertà svincolata dalla verità, non sa distinguere il bene o il male, e relativizza tutto. «Il relativismo non è se non la forma più diffusa del nichilismo, perché considera tutte le idee di uguale valore, per il fatto che nessuna esprime verità, ma ciascuna di esse corrisponde a qualcosa che non vale nulla, ossia a qualcosa che vale «zero». A questo si giunge, se si nega la verità e la sua funzione determinante nella vita e nelle ricerche dell’uomo.

Pertanto per Fighera l’uomo contemporaneo con un atteggiamento prometeico si è contrapposto al Cielo, di cui ha pensato ormai di poter fare a meno. Dopo aver abbandonato la fede nell’al di là, l’uomo ha perso anche la fiducia nel progresso nell’al di qua e si trova, quindi, in una situazione drammatica, in quanto non sa più in che cosa credere.

Le vite degli uomini si sono spesso ridotte a «consorzi di egoismi», l’uomo come individuo in senso estremo diventa un «solitario», che sa vivere solo per sé e non per gli altri. Per queste ragioni l’uomo contemporaneo si identifica maggiormente nell’Inferno dantesco con le sue intense passioni, i suoi personaggi immortali e dannati, le sue grandi tragedie».

Pertanto secondo il professore Fighera,  «La nostra epoca, amante dell’idolatria e scevra di maestri, ama gli idoli dell’Inferno, si sente distante dallo spirito di appartenenza e di comunità del Purgatorio e del Paradiso danteschi. Indubbiamente, la distanza tra la concezione della vita sottesa al poema dantesco e quella della cultura contemporanea è il primo grande ostacolo alla comprensione e al godimento del Paradiso dantesco. L’Inferno è, infatti, il luogo dell’individualismo, mentre il Purgatorio è il regno in cui l’uomo si scopre «persona» (l’etimo della parola dice che l’io risuona nel rapporto con l’altro) e l’anima vive la dimensione della liberazione dal peccato nell’appartenenza ad un popolo che cammina insieme.

 Il Paradiso sarà, infine, il luogo della comunione universale, della letizia dei santi, della carità (amore incondizionato che previene e anticipa la domanda portando soccorso e aiuto), del «sorriso di Dio» (Charles Moeller), della carità.

Il lettore contemporaneo si sente più vicino all’Inferno dantesco anche per la difficoltà della lingua di cui si avvale il Sommo poeta. L’altezza e la bellezza del linguaggio, grande pregio della terza cantica, è oggi anche uno degli ostacoli maggiori e quasi insormontabili per un pubblico di lettori che ama sempre meno far fatica. Il viaggio nel Paradiso richiede un impegno e una fatica che solo la coscienza del pregio e del valore dell’opera permette di affrontare.

Perché il Paradiso è davvero bello e merita di essere apprezzato? Perché il bene è più attraente del male, i santi sono più affascinanti dei cattivi. Questa consapevolezza attraversava il Medioevo cristiano tanto è vero che in quell’epoca uno dei generi più diffusi e amati era quello agiografico che raccontava le vicende di piccoli o di grandi uomini presi e cambiati dall’amore di Gesù.

I grandi personaggi non si trovano solo all’Inferno, ma anche in Paradiso, ove potremo incontrare grandissime figure, che hanno segnato la storia dell’Occidente e della cristianità: san Francesco, san Domenico, san Benedetto, san Bernardo, san Tommaso, san Bonaventura da Bagnoregio, san Pietro, san Giacomo, san Giovanni, tutti personaggi non lasciati nella vaghezza della dimensione eterea e indistinta, ma caratterizzati nella loro specificità e storicità terrena.

Nel Paradiso non mancherà certo l’avventura. Anche in quel terzo regno Dante incontrerà difficoltà, conoscerà storie belle e drammatiche, dovrà addirittura superare tre prove che costituiscono un vero e proprio esame di baccalaureato. Solo a quel punto il poeta potrà procedere nel viaggio fino a giungere alla visione dei cori angelici, dell’Empireo, della Candida Rosa e, infine, di Dio, ma non senza alcune difficoltà e l’intervento di mediatori celesti».  

 

 

Ancora una volta, l’antica Ercolano si impone al centro dell’attenzione internazionale grazie ad una nuova sensazionale scoperta ad opera di un team di antropologi e ricercatori guidato da Pier Paolo Petrone dell’Università Federico II di Napoli, che da anni studia gli effetti delle eruzioni del Vesuvio sul territorio campano e le popolazioni che lo hanno abitato nel passato.
Il New England Journal of Medicine, prestigiosa rivista medica leader a livello mondiale, ha pubblicato i risultati di uno studio sui resti di materiale cerebrale rinvenuti in una delle vittime dell’eruzione, il cui scheletro si trova ancora oggi in uno degli ambienti di servizio del  Collegio degli Augustali. Allo studio hanno preso parte il Direttore del Parco Francesco Sirano, insieme al Prof. Piero Pucci del CEINGE – Biotecnologie Avanzate e il Prof. Massimo Niola dell’Università di Napoli Federico II, insieme a ricercatori dell'Università di Cambridge.
L’eruzione, che nel 79 d.C. colpì con valanghe di cenere bollente Ercolano e Pompei uccidendo all’istante tutti gli abitanti, in poche ore seppellì l’intera area vesuviana fino a 20 km di distanza dal vulcano. Negli anni '60, durante gli scavi condotti dall’allora Soprintendente Amedeo Maiuri, nella cenere vulcanica furono rinvenuti un letto ligneo e i resti carbonizzati di un uomo, che gli archeologi ritengono fosse il custode del Collegio consacrato al culto di Augusto.
Nell’ambito di una decennale collaborazione scientifica con Francesco Sirano, recenti indagini sul campo, condotte da Pier Paolo Petrone, hanno portato alla scoperta nel cranio della vittima di materiale vetroso, nel quale sono state identificate diverse proteine ed acidi grassi presenti nei tessuti cerebrali e nei capelli umani. L’ipotesi degli studiosi è che l’elevato calore sia stato letteralmente in grado di bruciare il grasso e i tessuti corporei della vittima, causando la vetrificazione del cervello.
La conservazione di tessuto cerebrale è un evento estremamente raro in archeologia, ma è la prima volta in assoluto che vengono scoperti resti umani di cervello vetrificati per effetto del calore prodotto da un’eruzione.
“Sin dalle eccezionali scoperte avvenute all’inizio degli anni 80 del 900 presso l’antica spiaggia, il campione antropologico offerto dal sito di Ercolano si è rivelato di estremo interesse.- dichiara il Direttore Sirano- Gli studi di antropologia fisica sono ora supportati da analisi di laboratorio sempre più sofisticate. Stiamo inoltre associando ad esse innovative ricerche sul DNA degenerato che, come sembrano dimostrare lavori di prossima edizione da parte del dr. Petrone, ha ancora racchiuse in sé alcune parti della sequenza del codice in grado di chiarire origine e grado di parentela delle vittime ritrovate nelle rimesse delle barche presso l’antica spiaggia. Questi straordinari dati possono peraltro confrontarsi con quelli derivanti dalle analisi sui materiali organici e sui coproliti rinvenuti nel corso degli scavi nelle fogne sotto il cardo V (scavi condotti in collaborazione con la Fondazione Packard) che hanno chiarito tanti aspetti del regime alimentare e contribuito ad arricchire il quadro delle più frequenti patologie che affliggevano gli abitanti di Herculaneum.  Se pensiamo a tutto quanto conosciamo attraverso la variegata documentazione scrittoria antica formata da documenti pubblici e privati (epigrafi su marmo, tavolette cerate, papiri, graffiti)- conclude il Direttore- davvero si comprendono l’inestimabile valore  e le potenzialità ancora inespresse da questo prezioso sito UNESCO che il Parco Archeologico conserva e valorizza in un’ottica di ricerca aperta e multidisciplinare.”
Pier Paolo Petrone è antropologo forense e dirige il Laboratorio di Osteobiologia Umana e Antropologia Forense, Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate presso l’Università di Napoli Federico II
 

Avevo promesso di fare una scheda di presentazione di uno dei capi della insurrezione Vandeana che probabilmente  più di altri ha affascinato tanti giovani tradizionalisti controrivoluzionari appassionati di storie come il sottoscritto.

Henri nasce il 30 agosto del 1772 nella cattolica terra di Vandea, a La Durbelière, dal marchese Henri-Luis-August e dalla contessa Costanza di Caumont d'Ade.

Sin dalla tenera età fu educato secondo i principi della cristianità e della fedeltà indiscussa al sovrano. Una usanza molto comune in Vandea per quegli anni. Nonostante le idee illuministe, in Vandea, le tradizioni non erano state contaminate dal progressismo dei filosofi illuminati. All'età di dieci anni lascia la famiglia ed entra nella scuola militare di Sorez, in Languedoc. Qui conosce la vita di sacrificio e riesce a superarla, riceve il brevetto di sottotenente all'età di 13 anni.

Inizia una vita militare di lealtà e coraggio e ottiene la stima dei suoi superiori. Il giovane Henri segue le vicende della Rivoluzione e all'età di 18 anni manifesta la sua opinione, rifiutando il giuramento militare costituzionalista decretato dopo Varennes  dall'Assemblea.

Con il sopraggiungere del Terrore, l'aristocrazia è costretta a prendere la via dell'esilio. Il giovane marchese rimane in Francia, non fugge. Costituita l'Armata Cattolica e Reale, Henri entra da generalissimo nelle forze fedeli al Re. La sua carriera sarà breve, ma luminosa, la sua azione bellica si racchiude in nove mesi (13 aprile 1793 – 28 gennaio 1794). Un periodo breve, ma quanto basta per mettere in evidenza la sua intelligenza, il suo valore nelle battaglie contro gli eserciti repubblicani. Il suo nome è legato a tre battaglie vinte: Saumur (10 giugno 1793); Entrammes (22 ottobre); Dol (21-22 novembre).

Purtroppo non sempre riuscì a vincere, fedele all'insegnamento cristiano, quando poteva evitare spargimento di sangue gioiva. «E' storico il nobile perdono che ebbe dei prigionieri repubblicani ad Antrein mentre i suoi li volevano massacrare in rappresaglia dei feriti vandeani selvaggiamente trucidati dai repubblicani ad Avrances». (Maurizio Di Giovine, “I Quaderni della Controrivoluzione”, n. 9-10-11, agosto-settembre-ottobre 1972).

Ecco come viene descritto Henri da Jean Lagniau (in “Revue du Souvenir Vendeen”, marzo 1972): è un ragazzo di vent'anni, è alto (un metro e ottantuno) esile, fisionomia dolce, quasi timido, colorito pallido. Il volto è incorniciato da magnifici ed abbondanti capelli biondo cenere, gli occhi sono grandi e azzurri; è quasi un arcangelo che in quel mattino del 14 aprile 1793 appare ai rivoltosi del Bressuirais, venuti a cercare un capo.

Sono duemila persone, quasi tutti giovani, dai 18 ai 25 anni, appartenenti a tutti i ceti sociali, stanchi di subire vessazioni, e soprattutto non vogliono saperne di difendere la Repubblica che perseguita i loro preti. Si ribellano e cercano dei capi capaci di liberarli dai satrapi giacobini. Lo trovano in Henri de la Rochejaquelein, che insieme ad altri cavalieri, guida una folla armata di fucili, di forche, di falci, di bastoni.

La Grande Armata, quella Cattolica, è un'armata soprattutto di giovani, anche i capi sono giovani. Quelli più vicini ad Henri de la Rochejaquelein hanno un'età media tra i 25 e i 30 anni. Lagniau fa i nomi dei capi giovani: Pierre Bibard, Jaques David Joseph e Toussaint Texier.

Di giovani ve ne furono altri a centinaia a migliaia. Sono presenti in tutte le battaglie, tutti degni del loro giovane generale. Henri in battaglia è sempre in prima fila,esponendosi follemente per forzare la vittoria. Spesso veniva rimproverato di esporsi inutilmente. A Samur la sera dopo la vittoria con il rosario alla bottoniera, si trova nella chiesa di Saint Pierre, per ringraziare Dio del bel successo, ad un ufficiale gli confida: “rifletto sui nostri successi, essi mi confondono. Tutto viene da Dio”.

Il miglior biografo di Henri, il barone de la Tousche, scrive: «Una corrente di appassionato affetto, irresistibile, sale verso di lui da questa folla d'uomini [...] Ha un bel restar modesto e tirarsi in disparte: egli si è troppo distinto dalla folla degli attori di questa insurrezione [...]Egli non potrebbe impedire di irraggiare attorno a sé il suo eroismo, il suo animo affascinante, la sua rara dolcezza...Tutti adorano questo bell'adolescente».

Ai suoi combattenti Vandeani diceva: “Compagni, io non vi chiedo che una cosa, di seguirmi. Là dove vi è del pericolo voi mi troverete sempre”. E nella battaglia di Cholet, quando ormai assisteva alla sconfitta, ecco il suo grido: “Moriamo in queste lande, ma non indietreggiamo!”. Quando il Consiglio Superiore decide di dargli il comando supremo dell'esercito vandeano, egli spaventato, piangendo per tanta responsabilità, tenta di rifiutare, : «Perchè si vuole che io sia generale? Sono troppo giovane».

Il giovane Henri diresse nel duro inverno, la campagna d'Oltre-Loira, circa ottantamila persone, la metà composta da combattenti. Una campagna che ha dovuto affrontare i rigori del duro inverno e il fastidio della banda di sciacalli dei generali Kleber e Westermann.

Prima di una battaglia egli indirizza alle sue truppe questo proclama: «Amici miei, sappiate bene che la nostra salvezza consiste solo nella vittoria. Le vostre donne, i vostri figli come voi cacciati dalla patria per l'incendio o la morte, attendono con ansia il risultato della battaglia. E' la causa di Dio, la causa del Re, la causa di tutte le famiglie che noi difendiamo [...]».

Monsieur Henri non sempre andava d'accordo con gli altri generali, capi dell'insurrezione, in particolare con Charrette. A questo proposito, l'autore dell'articolo, Lagniau sostiene che «la sua grande chiaroveggenza, il suo genio dell'organizzazione, sorprendente per un giovane di vent'anni, gli facevano intravvedere delle possibilità di condotta dell'insurrezione vandeana che, se fossero state condivise dai suoi colleghi del comando generale, avrebbero portato i Vandeani alla vittoria».

Il giovane Henri muore sul campo di battaglia il 28 gennaio 1794, «Monsieur Henri cade, vittima della sua magnanimità. Il soldato, al quale egli si appresta a concedere la grazia, s'avanza per arrendersi, ma con un gesto brusco, spiana il fucile e tira: 'Henri de la Rochejaquelein non aveva che 21 anni. Chissà che cosa sarebbe diventato!'».

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