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La rivista “Cristianità”, organo ufficiale di Alleanza Cattolica compie cinquant’anni di vita. L’attuale numero 413 in diffusione propone due presentazioni, la prima del compianto dirigente di Alleanza Cattolica, professore Marco Tangheroni (1946-2004) in occasione dei venticinque anni dalla sua nascita; la seconda è dello storico Oscar Sanguinetti. Per il momento presento quest’ultima. Nel settembre del 1973 vedeva la luce il «numero zero ad experimentum» di Cristianità. L’evento segnava, in qualche modo, la conclusione della fase embrionale dell’associazione e l’apertura in Italia di una intensa e feconda stagione di apostolato culturale di segno contro-rivoluzionario. Prima della rivista Cristianità in Alleanza Cattolica, erano esistiti ciclostilati, ricordo in particolare, un bollettino periodico intitolato “Il resto della verità”, ne sono usciti quattro numeri. Tuttavia la rivista, voleva essere uno strumento completo per informare in primis i suoi membri, ormai presenti in più province del territorio nazionale, in vista di un’auspicata omogeneità culturale, nonché per far conoscere all’esterno le tesi ufficiali — la «linea» — dell’associazione, fornendo a un pubblico più esteso elementi di analisi della situazione, di informazione e di formazione culturali. Alla fine del secolo e del millennio il mondo è cambiato e di molto. C’era stata la caduta del Muro di Berlino, l’implosione del sistema imperiale comunista nei paesi dell’Europa centro-orientale. Tuttavia, l’inizio del nuovo millennio e del nuovo secolo era coinciso con un’altra «svolta epocale»: l’attacco terroristico contro gli Stati Uniti d’America avvenuto l’11 settembre 2001, un evento che aveva rimesso in movimento la storia e disegnato orizzonti sempre più confusi all’avvenire del mondo. Dopo il crollo delle Twin Towers a New York City il mondo si era accorto che la minaccia rappresentata dall’islamismo radicale aveva compiuto un salto di qualità e che i gruppi terroristici miravano non più solo a occupare pacificamente il territorio europeo e occidentale ma anche a ricostituire il Califfato — estintosi nel 1924 — o comunque a dar vita a entità statali dove la legge coranica fosse la regola giuridica. Uno scenario relativamente nuovo colpisce la Chiesa e il mondo intero.

Iniziando dalla Chiesa, ricordiamo che l’organismo fondato venti secoli prima da Gesù Cristo ha salutato l’ingresso nel suo terzo millennio con un solenne Giubileo, celebrato dall’anziano pontefice polacco, san Giovanni Paolo II (1978-2005), ormai al tramonto del suo ministero e della sua esistenza. La Chiesa, lungi dal sentirsi decrepita, si slanciava con impeto giovanile nel nuovo tempo umano, carica di problemi ma anche oltremodo ricca, come in tutte le sue età, pure le più travagliate, di tesori inestimabili di grazia soprannaturale, continuando a presentarsi come perenne via per raggiungere la vita eterna beata. In effetti, in questi anni di inizio millennio, i fenomeni destabilizzanti già manifestatisi nella Chiesa sullo scorcio del ventesimo secolo sembravano perdurare e aggravarsi: l’«autodemolizione» denunciata da san Paolo VI (1963-1978) nei primi anni 1970 non si era arrestata, ma continuava, sebbene in forma carsica, al di sotto di una linea ufficiale del pontificato di Giovanni Paolo II, che aveva frenato i rigurgiti di progressismo che affioravano ovunque.

Giovanni Paolo II nel 1992 aveva fatto dono alla Chiesa di un testo di importanza assoluta e universale, di un corredo fondamentale per rievangelizzare l’Occidente: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Cristianità nel 2012 ne celebra il ventesimo anniversario con un’ampia disamina del valore dottrinale e pastorale del testo, dedicandovi un numero speciale in cui, fra gli altri interventi autorevoli e di pregio, appare l’articolo di Cantoni dedicato a Il «Catechismo della Chiesa Cattolica».

 In quegli anni il secolarismo scatenato delle culture della modernità tardiva e relativistica, che prosciugava sempre più gli animi da ogni traccia di fede, di senso comune e di voglia di vivere, si è dotato di un’arma nuova e mortale nel suo sforzo di nuocere alla maggior agenzia di valori intrinsecamente ostili al secolarismo e al relativismo, ossia alla Chiesa: l’accusa di pedofilia e quella, correlata, di «copertura» da parte delle gerarchie ecclesiastiche. L’arma non era nuova ed era in realtà spuntata, perché la polemica veniva da ambienti progressisti che nel post-Sessantotto teorizzavano e praticavano la pedofilia e si appuntava su un fenomeno che investiva non solo il clero ma diverse categorie di persone. Durante il pontificato di Benedetto XVI (2005-2013), le forze anticlericali esasperano il problema e sfruttano le lacerazioni provocate dallo scandalo della pedofilia, di cui Papa Benedetto aveva dato una lettura in forte contro-tendenza, legando il fenomeno soprattutto al clima di relativismo morale creatosi nei seminari dopo il Sessantotto e nel postConcilio e saranno forse tra le cause della sua decisione di lasciare il Soglio e rinunciare al ministero petrino.

Su Cristianità, una volta perfezionate le dimissioni di Benedetto XVI, Massimo Introvigne, allora reggente nazionale vicario, traccia un fedele profilo del pontificato cessato, ne redige un accurato «bilancio», accompagnato da un caloroso farewell, ribadendo nel contempo la fedeltà di Alleanza Cattolica alla Cattedra di Pietro e al suo nuovo titolare . Sempre in ambito ecclesiale, Cristianità registra anche un fatto piccolo ma assai significativo, ossia il riconoscimento canonico — come associazione privata di fedeli con personalità giuridica privata — di Alleanza Cattolica da parte della diocesi di Piacenza-Bobbio, il 13 aprile 2012 . Riguardo al riconoscimento, Cantoni precisa: «Dopo cinquant’anni Alleanza Cattolica ha ricevuto un riconoscimento ufficiale — è l’inizio, il battesimo, ma è già un passaggio significativo —, e ciò è accaduto non perché abbia modificato qualcosa di essenziale, pur se nel tempo siamo cresciuti, qualcosa si è svolto».

Intanto negli ultimi decenni vi è l’avanzata della globalizzazione, un fenomeno che non concerne più soltanto la finanza — già mondializzata nell’Ottocento — e la comunicazione — le cui barriere cadono nella seconda metà del Novecento grazie ai satelliti, alla «rivoluzione digitale» e a Internet —, ma invade ogni aspetto della vita: dall’accresciuta mobilità delle persone e delle merci a quella dei centri di produzione, nonché alla fluttuazione e mutazione del lavoro salariato, con enormi ricadute sugli Stati e sui relativi sistemi economici, ricadute che arrivano a modificare in profondità le relazioni e i legami sociali, non solo quelli commerciali.

 Con la globalizzazione si intreccia l’esplosione del fenomeno migratorio, che investe soprattutto l’Africa e l’Asia orientale — India, Bangladesh, Pakistan — ma si nota anche in aree dell’America meridionale e alla frontiera fra Messico e Stati Uniti. Oltre ai vari fattori che provocano l’immigrazione, come le guerre, l’economie disastrate, la rivista sottolinea un’altra fonte di flussi umani verso i Paesi opulenti dell’Europa e dell’Occidente in generale: la migrazione, pure quella che potremmo definire «ideologica», dai Paesi islamici. Migliaia di persone, lavoratori e no, si insediano con le proprie famiglie negli Stati più «aperti», come il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’Italia, fino a costituire ormai minoranze cospicue della popolazione. E dove vi è un islamico quella è terra d’islam, potenzialmente rivendicabile come sovranità. Nonostante lo sforzo statunitense, non di rado coronato da effimero successo, per contrastare l’espansione del radicalismo armato di matrice islamica — non l’unico radicalismo armato, ma di certo il più diffuso e pericoloso — sul suo proprio terreno di coltura, non si può dire che il fenomeno sia scomparso. Forse si è indebolito, ma non è domo. L’abbandono statunitense dell’Afghanistan ai talebani — dopo centinaia di morti fra le file dei soldati USA —, l’impantanamento in Siria, le difficoltà dello sforzo euro-americano in Libia, nello Yemen, in Nigeria, nell’Africa sahariana, sono altrettanti fattori che sembrano vanificare il disegno complessivo di estinguere queste tendenze radicali e di ridimensionarne il pericolo per l’Occidente. Su queste svariate correnti che attraversano impetuose la vita di ciascuno di noi e che modificano la convivenza civile nel nostro Paese si è abbattuta due anni or sono l’epidemia di SARS da virus denominato «Covid-19» originatasi in Cina. Lepidemia, grazie alla globalizzazione, è giunta in tutto il mondo e ha letteralmente sconvolto economie, forme di convivenza, vita familiare, attività lavorativa e professionale, scuola e rapporto fra i cittadini, nonché fra i cittadini, le istituzioni e i servizi pubblici. Ha avuto un impatto devastante sui sistemi sanitari nazionali e ha rovinato intere categorie di operatori economici e di imprese, offrendo invece larghe possibilità di profitto a chi ha saputo «cavalcare» per tempo la crisi e soddisfare i nuovi bisogni individuali e collettivi da essa scatenati.

Nella politica italiana ha assistito senza farsi troppe illusioni all’ascesa del fenomeno berlusconiano e all’accesso al governo delle forze di centro-destra, inclusa la destra post-fascista, fino a poco prima demonizzata o strumentalizzata. La presentazione di Sanguinetti fa riferimento alle varie stagioni politiche italiane a partire da quella specie di “insorgenza” popolare guidata dal Polo delle Libertà, dopo quella del 18 aprile 1948. Ne ha apprezzato soprattutto il ruolo di oggettivo rallentatore — e, in certa misura, inibitore — dell’avanzata implacabile dell’agenda anti-bioetica, senza trascurare il rilievo dell’avanzata tecnocratica. Tutto ciò è venuto meno con il governo guidato da Matteo Renzi (2014-2016) e quello presieduto da Paolo Gentiloni (2016-2018), durante i quali sono state approvate la legge che modifica il diritto di famiglia, introducendo le unioni civili fra persone dello stesso sesso, e la legge sul cosiddetto «fine-vita», che sancisce per il malato la possibilità di rifiutare le cure, anche quelle cosiddette «salva-vita», e di fatto introduce il «diritto» al suicidio.

Oggi, i cattolici italiani sono diventati una minoranza e sul piano politico devono offrire il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, innanzitutto «[...] difendendo e diffondendo quei princìpi senza i quali non c’è bene comune [...] che vanno dalla sacralità della vita, alla centralità della famiglia, dalla libertà religiosa e di educazione all’attenzione speciale alle categorie più in difficoltà», e sostenendo i «princìpi contenuti nella dottrina sociale della Chiesa, confrontandoli con la situazione storica in cui si vuole operare per evidenziare le priorità».

L’area «bioetica», specialmente nella sua relazione con la politica, è quella che nel periodo considerato presenta le più numerose e difficili problematiche, in quanto settore di punta del tentativo rivoluzionario di sovvertire i costumi attraverso una legislazione atta a coprire le più folli possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica sanitarie. Cristianità dà puntuale notizia e commento a tutto il magistero, via via sempre più corposo, che san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, senza omettere gli spunti forniti nei suoi documenti e nelle sue dichiarazioni da Papa Francesco, producono in quest’area.

Un capitolo a parte merita l’analisi della «rivoluzione nella Rivoluzione», che a partire da inizio secolo ha compiuto passi giganteschi, ovvero l’omosessualismo e tutte le sue derivazioni LGBTQ, che costituiscono la più recente frontiera del tentativo di imporre la teoria gender come visione univoca della persona, ma in realtà in una prospettiva molto più ampia. In occasione della presentazione, il 22 ottobre 2002, da parte dei Democratici di Sinistra e di altri di una proposta di legge dal titolo Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto, che mirava al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, incluse quelle omosessuali, Cristianità pubblica una sorta di breve catechismo a domande e risposte redatto da Bruto Maria Bruti (1954-2010) per fornire argomentazioni a chi vi si opponeva. Alla difesa e all’apologia della famiglia come primo alveo dell’esistenza umana e come struttura-base della società è dedicato l’intero numero 377, uscito poco dopo la manifestazione per la famiglia — o Family Day — svoltasi a Roma il 20 giugno 2015.

 Per la ricostruzione della verità storica Cristianità è stata pure attenta alle ricorrenze storiche, in particolare al bicentenario della prima fase dell’Insorgenza italiana, quella del 1799, e alla seconda fase di essa, manifestatasi fra il 1805 e il 1809. Lo ha fatto, in particolare, dando spazio alle cronache dei convegni organizzati dall’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, poi denominato ISIIN, Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, a Milano nel 1996 e 1997, oltre che nel 2004 e nel 2005, ma anche polemizzando con le letture scorrette dell’Insorgenza. Al fenomeno Cantoni dedica più tardi, nel 2008, un ampio articolo-saggio, che a mio avviso «chiude» l’ermeneutica storica del fenomeno delle «Vandee cattoliche» — ricollegandole alla parabola ascendente dello Stato moderno —, maturata nella riflessione di quasi un quarantennio. Così pure, fin dal 1998, mantiene viva la memoria della «guerra dei Cristeros» avvenuta settant’anni prima nel Messico cattolico, una memoria particolarmente cara a chi, come Alleanza Cattolica, promuove la regalità anche sociale del Signore. Un certo rilievo è stato riservato alla commemorazione del terzo cinquantenario dell’Unità italiana. Nel 2011 sono stati pubblicati sul numero 359 un «manifesto», dal titolo «1861-2011. Unità e Risorgimento. La verità anzitutto». Un manifesto-appello per l’identità nazionale, e la cronaca del convegno 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, organizzato a Roma il 12 febbraio 2011 da Alleanza Cattolica. Ha fatto quindi seguito l’ampio e importante saggio di Mauro Ronco, La questione istituzionale dopo l’Unità d’Italia, pronunciato nel corso del predetto convegno, e in seguito riveduto e annotato: un testo lucido e compiuto che fonda la posizione legittimamente critica sul Risorgimento che è da sempre nel DNA di Alleanza Cattolica e dovrebbe esserlo di ogni realtà associativa conservatrice.

Nel 2013 è ricorso il trentennale del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Dichiarazione sulla massoneria — pubblicato il 26 novembre 1983 —, approvato speciali modo da san Giovanni Paolo II, che costituisce tuttora il diritto vigente in materia dei rapporti fra la Chiesa e la setta massonica. Il numero 370 è stato dedicato al tema e reca un articolo di Introvigne, fondamentale per una visione completa, e soprattutto aggiornata, del fenomeno massonico.

Come detto, la rivista Cristianità non si occupa solo del passato, ma attinge al passato, alla fede e alla retta ragione per comprendere come affrontare il presente e «preparare» il futuro. In questa prospettiva, sulle sue pagine si sono succedute analisi della situazione — una situazione che potremmo dire varia ogni giorno, pur in un contesto di degrado spirituale e morale crescente — in cui l’apostolato culturale di Alleanza Cattolica viene a situarsi. Così, Cristianità ha affrontato il nodo della definitiva «morte» della cristianità nata sulle ceneri dell’impero romano. Una morte «annunciata», che ora ci fa trovare di fronte non più a un organismo in agonia ma a un cadavere in via di decomposizione, quindi connotato dai fenomeni dissolutori e miasmatici tipici di questa condizione, che proiettano liquami a 360 gradi. La condizione, di degrado della nostra società, di un mondo sempre più “liquido” di Quarta Rivoluzione ha costretto l’associazione a mutare il proprio apostolato. Ha aperto la serie delle analisi don Pietro Cantoni, nel 2016, con Riflessioni su «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» e la situazione attuale, e ha proseguito Marco Invernizzi con Alleanza Cattolica fra Sessantotto e «morte» della cristianità. In questo stesso articolo veniva lanciata la strategia che sembrava meglio rispondere alle nuove esigenze venutesi a creare, una strategia racchiusa nella parola d’ordine: «costruire ambienti». Ovvero, cercare di «[...] operare dentro gli ambienti che si sono costituiti dopo il 1968, che sono movimenti ecclesiali e gruppi di preghiera, ma non esclusivamente [come] le reazioni spontanee alla Quarta Rivoluzione: un esempio ne è il Comitato Difendiamo i Nostri Figli, che ha promosso i due raduni di massa dei Family Day del 20 giugno 2015 e del 30 gennaio 2016.

Numerosi interventi di Cantoni sulla rivista — recanti prospettive e riflessioni su una Cristianità Nuova nel terzo millennio, a partire dalla consapevolezza della Cristianità in agonia e dalle sue dimensioni culturali — sono stati raccolti poi raccolti in G. CANTONI, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, SugarCo, Milano 2008.

Invernizzi torna ancora su questo tema, l’anno seguente: «Il Sessantotto, rivoluzione eminentemente individualistica e interiore, ha anche distrutto gli ambienti, in particolare quelli fondati semplicemente sull’amicizia, che nascevano spontaneamente soprattutto fra i giovani, sostituendoli con nuove aggregazioni artificiali fondate sull’ideologia, sulla musica o sullo sport. Queste ultime due forme sono sopravvissute alla fine dell’epoca delle ideologie». E nell’editoriale del numero successivo, nel paragrafo dedicato a Come cambia la lotta contro la Rivoluzione, Invernizzi afferma: «[...] sempre più evidente appare la necessità di una ricostruzione che passi attraverso la riconquista delle anime e ricreando il rapporto fra persona e persona, mediante un apostolato che comprenda la creazione di ambienti missionari, che non si chiudano in loro stessi, ma sappiano trovare il linguaggio e le forme adatte a toccare il cuore dei nostri contemporanei. [...] Un apostolato, infine, come ha spiegato Papa Francesco sempre incontrando la Chiesa italiana il 10 novembre 2015, che sappia essere umile, disinteressato e capace di trasmettere la letizia dell’essere cristiano, affinché gli uomini disperati del nostro tempo vedano nei cattolici il desiderio di servire e di fare crescere e non l’arroganza o lo zelo amaro, il distacco dai privilegi del denaro e del potere, e quindi la gioia che nasce dal Vangelo, senza la quale è difficile oggi mostrare la verità della dottrina cristiana».

Terminata la stagione della diffusione militante nelle vie e nelle piazze, nel 2009, con il numero 351, viene mutato il modo di proporre la rivista, passando dal formato A4 al formato quaderno, per renderla più simile ad altre testate allora presenti nel mondo cattolico, in particolare alla rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica. Nel 2013, con il numero 367 viene introdotto qualche ritocco stilistico alla copertina, da allora rimasta immutata. Il cambio di veste editoriale è l’aspetto più visibile di un mutamento più profondo. La rivista, infatti, si dota di una redazione vera e propria, che ha sede a Roma, e passa da bimestrale a trimestrale — tornando poi alla cadenza bimestrale dal 2017 —, senza mai diminuire il numero delle pagine. Lo fa confermando la linea, scelta nei primi anni 1970, di fornire elementi d’informazione, d’interpretazione e di giudizio sui grandi eventi che interessano la vita della Chiesa, la politica internazionale e nazionale, la società e la cultura. Perciò a Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica e direttore della rivista dal primo numero, si affianca ufficialmente un corpo redazionale associativo, garanzia della fedeltà della linea editoriale al patrimonio dottrinale e culturale cui Alleanza Cattolica attinge fin dalla sua fondazione. L’anno seguente Cristianità dà risalto al cinquantenario dell’opera del professor Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e ControRivoluzione, libro di formazione di base dell’associazione, e al convegno organizzato in quell’occasione, a Roma, il 21 novembre 2009, da Alleanza Cattolica in collaborazione con l’Associazione Tradizione Famiglia Proprietà. Nel 2013 compare l’ultimo articolo scritto da Cantoni per la «sua» Cristianità e dedicato a commemorare il centenario della nascita di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), una delle maggiori «scoperte» del suo ininterrotto lavoro di scouting culturale. Colpito in quell’anno da una grave malattia, non collabora più alla rivista, salvo con alcuni articoli frutto di interventi precedenti a quella data, e lascia nel 2016 la guida dell’associazione, sostituito da Marco Invernizzi. Cristianità gli dedica buona parte dei numeri 393 e 394 in occasione del suo ottantesimo compleanno, quindi l’intero numero 401 dopo la sua scomparsa, avvenuta il 18 gennaio 2020, e il numero 411 con la pubblicazione degli atti del convegno Per la maggior gloria di Dio, anche sociale. In memoria di Giovanni Cantoni (1938-2020), tenutosi a Piacenza, sua città natale, il 25 settembre 2021. 3. Sanguinetti conclude la sua documentata presentazione sulla vita di Cristianità negli ultimi venticinque anni e nell’imminenza del cinquantesimo anniversario della sua nascita, si impone qualche breve considerazione di merito. La prima riguarda la longevità della testata: questa tumultuosa transizione d’epoca, il mutare ogni giorno più rapido dell’ambiente in cui le iniziative editoriali vengono a collocarsi, il fluttuare dei gusti del pubblico, la concorrenza spietata dei social media e della comunicazione elettronica, hanno segnato la morte di tante riviste, specialmente quelle attive nell’area della cultura e della cultura religiosa e conservatrice in particolare. L’aver superato agevolmente i quattrocento numeri in cinquant’anni rappresenta dunque un autentico monstrum.

Attenzione non ci sono solo le guerre con i carri armati, ma anche le guerre combattute attraverso la cultura, i mass media, i libri, per cancellare il passato, ma anche il presente, discriminando le persone in carne e ossa. Da qualche anno è in atto in particolare negli ambienti culturali americani, ma sta arrivando anche in Europa e in Italia, una “guerra culturale” contro tutto quello che ha rappresentato e rappresenta la civiltà occidentale e quindi cristiana. Su questo tema si è discusso, sabato scorso a Genova in un convegno organizzato da Alleanza Cattolica (si può seguire il convegno sui canali youtube dell’associazione, Cancel culture. Dalla “battaglia delle idee” alla “guerra culturale. Tra un mondo che nasce e uno che muore”.).

“Cosa hanno in comune la sospensione di un corso di Dostoevskij durante la guerra in Ucraina, la proposta di abolizione del Columbus Day e la rimozione, lo sfregio o l’imbrattamento di molte statue di personaggi storici del passato?

Sono tutti frutto di quella che viene definita “cancel culture”, cancellazione della cultura”. Questa è la premessa di presentazione del convegno.

Un tema di attualità che si è approfondito nel convegno organizzato da Alleanza Cattolica, in programma a Genova, presso Palazzo Ducale, nella splendida cornice del Salone del Minor Consiglio, sabato 19 marzo. I lavori del Convegno, presentati da Marco Dufour, sono stati aperti dal Reggente Nazionale di Alleanza Cattolica, Marco Invernizzi, che ha esposto il motivo per cui viene data tanta importanza all’argomento. Che cosa è la “cancel culture”, la fase terminale di un processo plurisecolare che ha avuto come obiettivo la distruzione della civiltà costruita in Europa dalla prima evangelizzazione cristiana (IV-XIV secolo). Una civiltà particolarmente visibile attraverso il patrimonio artistico del Bel Paese, ma anche percepibile nelle relazioni, nelle istituzioni, nei costumi. Realtà che nei secoli più recenti sono state progressivamente emarginate dalla vita pubblica.

Rispetto al ’68, il cui scopo era cambiare l’uomo, entrando nel cuore delle persone e recidendo ogni legame naturale e sociale, la “cancel culture” fa un passo in avanti. Vuole infatti imporre una radicale cancellazione del passato, come se non fosse mai esistito. Una totale rimozione della memoria delle proprie radici. Nulla di meno.

Non è questione solo di qualche statua imbrattata, - afferma Invernizzi - non è questione dell’eliminazione dello studio della Storia o dell’uso di criteri odierni per giudicare il passato, che è la prima cosa che lo storico non dovrebbe fare, né si tratta di offrire una narrazione che conduca al disprezzo delle civiltà trascorse.

Si tratta di cancellare la memoria delle proprie radici, di trovare il modo di cancellare definitivamente nella testa e nel cuore di ciascuno di noi quell’idea che è esistito un altro modo di vivere rispetto a quello contemporaneo. E il modo in cui vuole operare la cancellazione è particolarmente violento: il passato non deve più esistere. La rivoluzione lo ha cancellato perché l’uomo nuovo ha finalmente preso possesso di tutta la realtà anche del passato e del giudizio sul passato.

Si tratta di una forma di gnosticismo moderno, secondo la felice intuizione del filosofo austriaco Eric Voegelin, in un libro “Il Mito del Mondo Nuovo”, come spiega questo autore, “la violenza era necessaria a questi movimenti gnostici moderni per imporre la Rivoluzione a uomini refrattari, capitò durante la Rivoluzione Francese, a tutti quelli che si ostinavano a non accettare i principi dell’89 elaborati a Parigi, capita anche oggi a tutti quelli che non accettano i principi elaborati nelle centrali del potere del pensiero unico. Ma – precisa Invernizzi – la violenza può essere esercitata anche in altri modi, per esempio privando forzatamente i giovani dell’accesso alle radici spirituali e culturali, oppure imponendo di fatto un divieto di fare domande, come spiegherà dopo il professore Boghossian. Nel sistema universitario americano, dove lui ha insegnato, è passata l’idea che fare delle domande è pericoloso. In Italia sono arrivate le prime avvisaglie del Cancel culture, riguardano principalmente l’ambito accademico.

Ecco perché è compito di un’associazione che svolge un apostolato culturale come Alleanza Cattolica denunciare il pericolo, anzitutto descrivendolo e quindi cercando d’indicare delle vie di uscita dalla crisi - non semplici da trovare - nella quale si trova il mondo occidentale.

È doveroso provarci, continuando a coltivare l’esigua forma di vita che sopravvive nel corpo devastato dalla malattia e che sta morendo, perché da essa possa nascere una nuova esistenza, robusta e duratura. Un mondo che nasce dentro un mondo che muore.

Sostanzialmente, il convegno si prefigge tre percorsi di “recupero”.

Il primo riflette sul ritorno a una discussione sulla verità e sul senso delle istituzioni universitarie, anche come esito di un itinerario che rischia di degradarle a mera formazione professionale o luogo di vacuo esercizio retorico.

Il secondo vede nelle lingue, e nelle reazioni a certi sforzi di modificarne le strutture per ragioni ideologiche, un luogo di “resistenza” e ancoraggio al bene comune che esse rappresentano e promuovono.

Il terzo percorso è una via pulchritudinis (“via della bellezza”): un rinnovato interesse per l’arte e la bellezza possono aiutarci a riconsiderare le culture e la loro storia in un modo più adeguato e tale da riconoscere la bellezza come elemento d’incontro con il senso della realtà e della vita.

A partire da questi tre percorsi, due conclusioni sono offerte.

Anzitutto un recupero dell’essenziale nelle pratiche educative, che riprenda la traiettoria del Trivio individuata al termine dell’Impero Romano, in un’epoca di grandi incertezze e profonde trasformazioni, per molti aspetti simile alla nostra. Il Trivio, infatti, sottolineava che una persona ben formata dovesse saper pensare bene (Dialettica/Logica), saper comunicare in modo comprensibile agli altri (Grammatica), e in modo tale da esser loro gradito (Retorica).

La seconda conclusione richiama a un antico libro della Bibbia, il Libro di Neemia, in cui si racconta di come gli ebrei, tornati dall’esilio babilonese, ricostruirono le mura di Gerusalemme (circa 445-432 a.C.): “Quelli che costruivano le mura e quelli che portavano o caricavano i pesi, con una mano lavoravano e con l’altra tenevano la loro arma; tutti i costruttori, lavorando, portavano ciascuno la spada cinta ai fianchi” (Neemia 4, 10-12).

Questo racconto ricorda come tutti noi abbiamo il compito sia di denunciare le derive anti-umane di certe ideologie, sia di lavorare per costruire un mondo migliore.

Successivamente all’intervento di Marco Invernizzi, ha preso la parola, il Sindaco Marco Bucci, che ha sottolineato come questa offensiva culturale di cancellazione del passato ha colpito in particolare la città di Genova. E riferendosi all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, «Abbiamo protestato con tutte le città americane in cui è successo. È totalmente inaccettabile e non mi rassegno alla cancel culture, specie quando riguarda un nostro illustre concittadino», tuona il sindaco di Genova, Marco Bucci, nel Salone del minor consiglio di Palazzo Ducale, a Genova.

Dopo il sindaco è intervenuta Laura Boccenti, già docente di storia e filosofia e dirigente scolastico nei licei. La sua relazione ha lo scopo di individuare le radici culturali, ideali, l’origine del fenomeno della Cancel culture.

Subito dopo inizia la tavola rotonda, moderata da Domenico Airoma, Airoma, vice vicario di Alleanza Cattolica, vice presidente del Centro Studi “Rosario Livatino”, attualmente procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino. Tavola rotonda, purtroppo un po' anomala, perché i partecipanti non erano presenti, ma collegati in streaming. L’esponente di Alleanza Cattolica, prima di dare corso alla tavola rotonda ha fatto una sintesi sulle relazioni esposte precedentemente.

Il movimento della Cancel culture si propone di cancellare una cultura, quella cristiana, che ha prodotto una civiltà cristiana, che a sua volta ha animato l’Occidente, su una ben precisa concezione dell’uomo. Cancel cultur significa cancellare l’anima di un mondo.

Il primo intervento è del professore Peter Gregory Boghossian del mondo accademico statunitense, già professore di filosofia all’Università statale di Portland, vittima della Cancel culture. Altra persona scomoda che è intervenuta è la professoressa Paola Mastrocola, che recentemente insieme a Luca Ricolfi, ha scritto “Il Danno Scolastico” (La Nave di Teseo). La Mastrocola che ha scritto brillanti testi di sana polemica sulla Scuola italiana, in poco tempo ci ha offerto un inno alla libertà artistica contro ogni tipo di dispotismo.

Subito dopo è intervenuto il giornalista del Foglio, Giulio Meotti, che da tempo segnala quello che sta accadendo soprattutto oltreoceano, denunciando le prime vittime di questa sistematica cancellazione o annientamento di opere e uomini che fanno riferimento alla tradizione al passato. In una decina di minuti è riuscito a spiegare bene quello che è la nuova ideologia che stiamo esaminando. Soprattutto Meotti ci ha offerto una vera e propria “galleria degli orrori”, come poi dirà Orsina. La migliore definizione di Cancel culture l’ha data uno scrittore francese dice Meotti, questi nuovi giacobini della Cancel culture sono come i talebani che nel 2001, hanno fatto saltare le due grandi statue di Buddha di Balyan.

In pratica c’è una visione colpevolizzante e mortificante di tutta la storia europea, e un potente odio di sé. Tuttavia, quando parliamo di Cancel culture, il nostro pensiero va all’abbattimento delle statue, in Inghilterra si abbatte di tutto, recentemente si è cancellato anche il nome di David Hume, il padre dell’Illuminismo scozzese. Oggi in Inghilterra non c’è un grande che non viene messo in discussione. Inoltre, la guerra in Ucraina ha causato la cancellazione di tutto quello che fa riferimento alla Russia. Tutti i grandi musicisti russi del Novecento sono stati cancellati.

Notizia dell’ultima ora, tutte le scuole francesi che portavano il nome di Aleksandr Solgenicyn, sono state cancellate, nonostante era un dissidente che si è fatto anni di gulag siberiano, però era un conservatore, cristiano slavofilo e negli ultimi anni amico di Putin.

Meotti ha ricordato il grande significativo discorso ad Harward di Solgenicyn nel 1978 quando questo gigante del dissenso, venuto da Est in Occidente, lui che veniva dall’inferno, disse agli americani, guardate che voi non vivete nel paradiso, ma nel purgatorio e avete perso il coraggio intellettuale.

Airoma, presentando il professore Luca Ricolfi, sociologo e professore all’Università degli Studi di Torino, Presidente della Fondazione David Hume, viene posta la domanda, su come si possa uscire dall’ideologia della Cancel culture e del danno scolastico, per quest’ultimo, per Ricolfi, probabilmente non c’è nessuna possibilità per riparare il danno che è stato fatto a intere generazioni di studenti italiani, non c’è nessuna via di uscita. Ricolfi è categorico: una riforma della scuola italiana non ha nessuna probabilità di riuscita. La maggioranza delle famiglie italiane non sono interessate alla trasmissione culturale per i propri figli. Il professore evidenzia un fattore importante, la interruzione della trasmissione culturale nei confronti degli studenti italiani ha danneggiato soprattutto i ceti popolari.

Poi il professore si è soffermato sul rapporto tra politicamente corretto e Cancel culture. In realtà il politicamente corretto non è più un fenomeno omogeneo, ma una costellazione di fenomeni, che ormai costituiscono come una grande piovra con tanti tentacoli. Ricolfi ha classificate ben cinque mutazioni del fenomeno. Per esempio, c’è il tema del mixgender definito dal professore, “follemente corretto”. Interessanti le riflessioni sulla censura che ormai raramente viene dall’alto, ma viene dal basso, o quelle sulla comunicazione.

Il penultimo intervento è di Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma. Orsina ha trattato il ruolo della politica nella Cancel culture, che è una specie di colabrodo, l’ultimo aspetto della Rivoluzione.

L’ultimo intervento è di Lorenzo Cantoni, professore all’Università della Svizzera italiana di Lugano, che in un mondo in frantumi, come il nostro, mostra come è bello vivere senza menzogna; il titolo della sua splendida relazione è “La Verità e la Bellezza per non arrendersi”.

 

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La Repubblica Popolare Cinese, o meglio, i suoi governanti, pensano di poter dettare legge ovunque con gli stessi metodi che usano a casa loro. Ecco che si permettono di scrivere al sindaco di una città italiana, Brescia, per chiedere di annullare una mostra perché l’artista coinvolto è un dissidente Badiucao, pseudonimo dell’artista-attivista cinese noto per la sua arte di protesta, e pertanto non gradito. Ovviamente il Sindaco ha rimandato al mittente l’invito e la mostra si è tenuta regolarmente e si concluderà il 13 febbraio. Forse questa determinazione sarà anche legata al fatto che nell’Università di Brescia non è presente l’Istituto Confucio? Questa è un'istituzione per la diffusione all'estero della lingua e cultura cinese creata dall'Ufficio "Hanban" del Ministero dell'Istruzione della Repubblica Popolare Cinese. Il primo Istituto Confucio è stato aperto a Seul, in Corea del Sud, il 21 novembre 2004 e in Italia è presente in molti tra i più importanti atenei. Il primo nasce a Roma (2006) all’Università La Sapienza, è il secondo in Europa. Istituti voluti dall’Hanban, Ufficio Nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera, affiliato al Ministero dell’Istruzione Cinese, dal 2020 Hanban è stato sostituito dal Centro per l’educazione e la cooperazione linguistica, ente anche questo affiliato al Ministero dell’Istruzione. Istituiti che vengono ritenuti strumenti al servizio della propaganda del regime cinese tanto che la Svezia ha chiuso l’ultimo nel maggio dello scorso anno. La Svezia è stata, fra l’altro, la prima in Europa ad ospitare questa istituzione “culturale”. Istituto che lascia la sua impronta in ogni occasione e recentemente l’occasione è stata importante, 72 anni fa nasceva la Repubblica Popolare Cinese e bisognava festeggiare! A Pisa la Scuola Superiore Sant’Anna, scuola di eccellenza di livello internazionale, ha festeggiato assieme al locale Istituto Confucio questo compleanno con tanto di punto esclamativo. Ancora due anni e  il comunismo cinese raggiungerà l’età di quello sovietico e non sembra di vedere cenni di cedimento. Allora è bene festeggiare, non si sa mai! Anzi si sa, eccome. La capillare presenza della Cina, non solo dal punto di vista economico, specialmente nelle istituzioni accademiche e universitarie, lascia intendere che ancora per molti anni avremo a che fare con questo centro di influenza. Speriamo che la potenza anche commerciale cinese non provi ad influenzare le ricche terre bresciane che tanti rapporti hanno con il celeste impero.

“Arcipelago Gulag di Aleksandr Solgenitsin, I racconti della Kolyma di Varlam Salamov, Gulag di Anne Applebaum, Koba il terribile di Martin Amis, Il Grande Terrore di Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine di Robert Conquest, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, La società aperta e i suoi nemici di Karl Raimund Popper, Prigioniera di Stalin e Hitler di Margarete Buber-Neumann, Il corsivo è mio di Nina Berberova, Ritorno dall’Urss di André Gide, Tutto scorre di Vasilij Grossman, Il passato di un’illusione di François Furet, L’epoca e i lupi di Nadezda Mandel’stam, tutte le opere di Osip Mandel’stam, tutte le opere di Marina Cvetaeva, tutte le opere di Anna Achmatova, tutte le opere di George Orwell, L’uomo in rivolta di Albert Camus, La mente prigioniera di Czeslaw Milosz, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, Commissariato degli archivi di Alain Jaubert, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, Il dio che è fallito di Koestler, Silone, Wright, Gide, Spender, Fisher, Novecento il secolo del male di Alain Besançon, I fantasmi di Mosca di Enzo Bettiza, Il regime bolscevico di Richard Pipes, Togliatti 1937 di Renato Mieli, Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, Autobiografia 1945-1963 di Emmanuel Le Roy Ladurie, Nemici del popolo di Nicolas Werth, L’utopia al potere di Mihail Geller e Aleksandr Nekric, Stalin di Boris Souvarine, La scheggia di Vladimir Zazubrin, Viaggio nella vertigine di Evgenia Semionovna Ginzburg, Lettere a Olga di Vaclav Havel, Cime abissali di Aleksandr Zinoviev, tutte le opere di Milan Kundera, Il tempo della malafede di Nicola Chiaromonte, la collezione completa della rivista «Tempo Presente», Intervista politico-filosofica a Lucio Colletti, Atlante ideologico di Alberto Ronchey, Storia delle democrazie popolari di François Feijto, La nuova classe di Milovan Gilas, Due anni di alleanza germano-sovietica di Angelo Tasca. Tutte le opere di Filippo Turati”.

Questo elenco, preparato da Pierluigi Battista e pubblicato sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2021, viene riproposto da Roberto Pertici, che insegna Storia contemporanea all’Università di Bergamo, in apertura dell’ultimo suo libro È inutile avere ragione. La cultura “antitotalitaria” nell’Italia della prima Repubblica edito da Viella nel novembre 2021 e che, dopo un primo capitolo dove l’autore fa delle osservazioni introduttive che, sole, meritano l’acquisto del volume, ripropone sei saggi pubblicati tra il 2003 e il 2017. L’elenco di Battista rappresenta quello che è stato in Italia l’oblio culturale del fenomeno “comunismo” e a riprova, entrate in una libreria e provate a cercare due/tre titoli tra quelli citati qui sopra! Sarà molto difficile. Perché? Perché «queste opere (…), non hanno mai ottenuto una vera cittadinanza in Italia (…) non sono divenute parte integrante di quel “senso comune storiografico” con cui ragiona da noi il cosiddetto “pubblico colto” (ammesso che esista)». Giudizio senza appello, questo di Pertici?

Ma come è potuto succedere tutto questo?

Ho cercato di spiegarlo nel libro. La presenza nell’Italia di un forte e abile Partito comunista, che aveva svolto un ruolo importante nella Resistenza e nell’elaborazione della Costituzione, ma che al tempo stesso non ha mai interrotto il suo rapporto organico con l’URSS e col comunismo internazionale (almeno fino al 1981, cioè alla vigilia del crollo di quel mondo) ha impedito che l’anticomunismo democratico entrasse nella coscienza del paese. La cultura comunista (assecondata, si deve dire, da quella post-azionista e anche da quella dossettiana) ha presentato l’anticomunismo come l’anticamera del fascismo: ogni posizione anticomunista rischia oggettivamente (ecco l’aggettivo magico) di aprire la strada alla destra, questo il suo motivo ricorrente. E siccome, per quella cultura, destra e fascismo sono la stessa cosa (non esiste, cioè, una destra democratica), il cerchio si chiudeva e si chiude.

Si può affermare che l’Italia è una repubblica fondata sull’antifascismo?

Certo che si può affermare, ma si dovrebbe aggiungere dell’antifascismo democratico, perché all’interno del fronte antifascista era presente anche il comunismo staliniano: la società che gli stalinisti avevano in mente era, per molti aspetti, anche peggiore di quella fascista. Era inevitabile che la nuova Repubblica democratica si costruisse un pedigree: alcune forze (liberali, socialisti riformisti, repubblicani, ma anche De Gasperi e gli uomini della generazione popolare) proponevano di risalire anche alle tradizioni liberali e democratiche del Risorgimento, con ragione, aggiungo io. Ma hanno vinto coloro che volevano allontanare e negare il retroterra risorgimentale, sottolineando lo sbocco fascista dello Stato post-risorgimentale: comunisti, azionisti e dossettiani.

Anche a trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica questo (antifascismo) è ancora necessario?

È necessario come una componente fra le altre di una cultura democratica, che dovrebbe circolare nelle scuole e nell’opinione pubblica italiana: ma questa cultura è molto più vasta e molto più antica dell’antifascismo. Va dall’umanesimo cristiano di Erasmo al costituzionalismo sei-settecentesco di Locke e Montesquieu, al liberalismo ottocentesco di Tocqueville e di Cavour, al socialismo umanitario e riformista fra Otto e Novecento. E all’anticomunismo democratico di De Gasperi (in Italia), di Orwell, Camus, Aron a metà Novecento, fino alla cultura del dissenso dei paesi dell’est, da Solženicyn a molti degli autori citati da Battista. Ma i comunisti sono stati sempre estranei a tutta questa cultura: ammettere che essa avesse ragione, significava negare 70 anni di comunismo in Italia e nel mondo. E questo non se lo potevano permettere, non potevano permettersi di dire: scusate! Abbiamo sbagliato tutto fin dall’inizio. Ecco allora la centralità dell’antifascismo nella loro visione: l’unica stagione in cui potevano dire di “avere avuto ragione”. Ed ecco allora l’assolutizzazione del fascismo e la sua riproposizione come spettro immanente della politica italiana, contro cui mobilitarsi e rinnovare l’union sacrée dell’antifascismo militante.

Cosa intende per cultura “antitotalitaria”?

L’ho scritto nel libro: “Antitotalitaria” è stata (in Italia e non) quella cultura che ha sempre coniugato un radicato antifascismo con un altrettanto radicato anticomunismo.  Al suo interno era convinzione diffusa che l’esperienza fascista fosse morta per sempre e che il vero problema delle democrazie del dopoguerra consistesse nella lotta culturale e politica contro il mondo comunista, non solo là dove ormai era già “sistema”, ma anche nelle sue propaggini occidentali: bisognava, quindi, mutare spalla al proprio fucile.  In questo modo la pensavano più o meno i cattolici della generazione degasperiana, i socialisti democratici e riformisti, i cold war liberals di diverse origini e vari orientamenti.  Detto altrimenti: cattolici non integralisti, liberali non laicisti e socialisti non massimalisti. Il problema fondamentale di ogni cultura democratica novecentesca è stato quello di mantenere il giusto equilibrio fra il momento antifascista e quello anticomunista. Così la più consapevole cultura “antitotalitaria” del primo ventennio dopo la guerra cercò di evitare un anticomunismo che spingesse alla creazione di un fronte unico con l’estrema destra monarchica e post-fascista o con le forze sociali più conservatrici:  di differenziarsi quindi da un «anticomunismo negativo – come lo avrebbe definito Augusto Del Noce -  che pensa come ideale alla costituzione di un blocco generale delle forze anticomuniste, che inevitabilmente sarebbe un blocco di interessi anziché di idee» e che spesso riduceva il comunismo «a un fenomeno fronteggiabile con provvedimenti di polizia». Mentre per Del Noce e per quelli che la pensavano come lui, il comunismo costituiva una sfida di alto profilo, anche perché convogliava alcune delle tendenze di fondo della cultura contemporanea, e quindi esigeva una risposta adeguata.

La cultura di cui parlo in questo libro operava, in modo più o meno esplicito, una distinzione di grande rilievo e, a parer mio, degna di essere mantenuta: fra l’antifascismo “storico” (pre-1945) e quello “ideologico” (post-1945). Si richiamava costantemente al primo, pur non prendendolo in blocco, essendo presenti al suo interno anche tradizioni non compatibili con la democrazia. Ma era estranea al secondo, che concepiva il fascismo come un pericolo eterno della politica italiana, contro il quale era quindi necessaria una mobilitazione permanente: concezione presente in varie forze (comunisti, socialisti, post-azionisti, cattolici dossettiani) fin dall’immediato dopoguerra.  L’antifascismo come ideologia altro non era che una «formula» (così la pensavano gli “antitotalitari”) funzionale a determinati disegni politici, anche se non sempre convergenti: la legittimazione del partito comunista come cardine della democrazia italiana, la condanna di ogni anticomunismo, l’illegittimità politico-culturale di una qualsiasi formazione alla destra della DC, come  anche delle correnti anticomuniste all’interno di quel partito, e talora – nelle frange della “nuova sinistra” – la critica radicale della repubblica nata da una Resistenza abortita e tradita.

È veramente “inutile avere ragione” o è sempre meglio che essere vissuti nella menzogna?

È una bella domanda: è chiaro che è meglio essere dalla parte della ragione, pur senza riuscire a farla vincere, questa ragione, piuttosto che vivere nella menzogna. Ma la testimonianza personale non basta e gli eredi della cultura antitotalitaria si dovrebbero interrogare anche autocriticamente sulle ragioni della propria emarginazione: insomma le lamentele, le polemiche retrospettive e le recriminazioni non sono sufficienti. La logica del we few, we happy few è fallace, sia sul piano politico che su quello culturale. Quando si perde, la prima cosa da fare è riflettere sui propri errori, non incolpare i complotti degli altri, o magari il destino cinico e baro. Lo insegnava ai suoi un grande maestro di politica come Togliatti: proprio questo suo realismo, questa sua consapevole opera di pedagogia politica e di formazione di un gruppo dirigente che imparasse a ragionare come lui, sono stati una delle chiavi del successo comunista nella società e nella cultura dell’Italia della prima Repubblica.

 

 

La II parte dell’ultimo libro di Vittorio Messori, “La luce e le tenebre. Riflessioni fra storia, ideologie e apologetica” (SugarcoEdizioni, 2021), affronta una serie innumerevoli di argomenti, di storie, avvenimenti, personaggi, protagonisti della cultura e della politica, e una serie di curiosità. In pratica è la parte (Appunti sul Politically Correct) dove vengono smascherati i miti, pregiudizi, luoghi comuni, le menzogne politicamente corrette delle ideologie del nostro tempo.

Comincia con le donne, anzi le femmine e il femminismo. Una caratteristica comune di tutte le ideologie moderne è quella di non considerare la realtà: “se i fatti reali contraddicono lo schema, tanto peggio per i fatti, lo schema non va modificato”.

Messori fa riferimento ad alcune donne leader, che hanno avuto successo nella politica. Alle proposte che sarebbe meglio essere governate da donne, Messori scopre che proprio le elettrici donne non votano le donne. E fa alcuni vistosi esempi. Peraltro, partendo dal presupposto che il numero delle donne elettrici è sempre statisticamente superiore a quello degli uomini, si dovrebbe dedurre che se il voto femminile convergesse compatto su candidate femmine, queste potrebbero dominare il mondo, stravincendo tutte le elezioni, almeno nei Paesi democratici. Tuttavia, non è così, perché proprio, le donne non hanno fiducia delle donne, visto che in maggioranza scelgono candidati maschi.

Affrontando i temi del politicamente corretto, un obiettivo è quello di modificare il linguaggio, si pensa che cambiando le parole, si cambia la realtà. Ecco che “storpi”, “paralitici”, o “dementi”, si trasformano in “diversamente dotati”, o in “differentemente abili”. Si cerca di cancellare quanto sia sgradito.

Anche in politica si usa quasi sempre la parola “nazismo”, mai si accosta l’altra parola imbarazzante per le sinistre, “socialismo”. Invece il termine completo è “nazionalsocialismo”. La parola socialismo, per Messori, non sta lì per caso. Hitler era un anticapitalista, anche se per ragioni tattiche veniva a patti con i grandi industriali. “Dire nazionalsocialismo, dunque, serve ad indicare con chiarezza l’unione delle due grandi ideologie che hanno devastato l’era contemporanea: non solo quella ‘di sinistra’, il socialismo, ma anche quella borghese, ‘di destra’, il nazionalismo”.

Sempre restando in tema, Messori, scopre che i simboli del Fascismo hanno una connotazione “democratica”. Chi sa che le prime camicie nere della storia furono un’invenzione di Mazzini, che li prescrisse alla sua “Giovane Italia”, come lutto per una Italia senza Stato. Infine, tutti gli altri simboli come il fascio con la scure, le daghe, gli archi, le corone di alloro, vengono direttamente dalla Rivoluzione francese, anzi dal giacobinismo. Tutta la retorica imperiale del fascismo proveniva dai massoni come Giosuè Carducci, e Giovanni Pascoli. Inoltre, tutto lo stile fascista, dal fez, le canzoni, i battaglioni degli Arditi, creati dopo Caporetto dai governi parlamentari e “democratici”, che avevano voluto la guerra, che condusse l’Italia alla “inutile strage”, senza che nessuno glielo chiedesse, fu in gran parte una richiesta di sinistra.

Altra curiosità storica è quella del fondatore della corrente nella Chiesa del Modernismo, Ernesto Buonaiuti, almeno nei primi tempi, fu un ammiratore e cantore convinto del nazionalsocialismo. Un mito da sfatare è quello di Giuseppe Verdi, le sue opere considerate risorgimentali, sono dedicate nientemeno che a Maria Adelaide d’Asburgo, e all’Arciduca Ranieri, vicerè dell’imperatore austriaco a Milano. Il nemico giurato di ogni “Risorgimento”.

La nota 50, tratta dell’Unicef, l’organizzazione delle Nazioni unite per l’infanzia, è una avvertenza al mondo cattolico. Attenzione pensate di fare una buona cosa aiutandola, ma il Vaticano da oltre vent’anni si rifiuta di contribuire al finanziamento dell’organizzazione. In pratica l’Unicef è diventata la maggiore promotrice della contraccezione e dell’aborto. Seguono le note riguardanti il clima e il catastrofismo dei Verdi.

Il mondo cattolico è stato catturato dall’ambientalismo, spesso più che ideologico che realista. Il verdismo secondo Messori è un partito come gli altri, con i suoi schemi ideologici, con i suoi interessi non sempre puliti. Attenzione a prendere per oro colato tutto quello che ci propinano i Tg e i Media in genere. Monsignor George Pell a suo tempo, parlava di “clima terroristico”, la cui isteria è pericolosamente vicina alla superstizione”. Questi “profeti di sventura”, stanno convincendo i governi a prendere misure che mettono a rischio lo sviluppo e finiranno per danneggiare tutti, specialmente le economie deboli.

Messori in questo allarmismo verde intravede anche una ricaduta economica, in particolare le grandi compagnie di assicurazioni, lucrano sui cambiamenti climatici. Protagonista è sempre il presunto il Global Warming, il “riscaldamento climatico”, che minaccia la vita della terra. Cita un grande storico del clima, Emmanuel Le Roy Ladurie, che ha redatto una “Storia del clima”, opera imponente, ignorata completamente. L’accademico francese sostiene come il clima, il caldo, il freddo, secco o piovoso, possono influire sugli eventi della Storia.

E proprio nella nota 55, dove Messori è abbastanza ironico sui catastrofisti verdi, i “talebani dell’ambientalismo”, che ogni tanto prevedono “inverni tropicali”, con mancanze di piogge tali da provocare la desertificazione di tutta la terra. Poi immancabilmente arrivano inverni freddi, anzi freddissimi.

Comunque sia l’ecologismo, come ogni “ismo”, è una ideologia. Se la realtà non conferma lo schema, creato a tavolino, tanto peggio per la realtà. La propaganda fanatica, ossessiva, dei “nuovi catari”, continua a martellare, anche se le bufale ambientaliste sono regolarmente smentite. Lo vediamo in ogni tg di Stato o di Mediaset, ci sono almeno due a volte anche tre servizi sull’ambiente.

Messori riporta esempi edificanti per noi, per smentire le teorie ambientaliste. Non posso dilungarmi. Ultima curiosità, il monotematico principe Carlo, erede al trono inglese, si è augurato pubblicamente un’epidemia che faccia sparire dalla terra almeno la metà degli abitanti. Non è che stia tifando per il Covid 19?

Sembra che per i fanatici del verde, che equiparano l’uomo e gli animali, il mammifero più pericoloso sia l’uomo.

Sempre per restare al tema ambientalista, Messori affronta la diatriba sull’inquinamento presunto dell’elettrosmog, delle antenne della Radio Vaticana.

Naturalmente sarò costretto a saltare qualche nota di questa V raccolta dei “Vivai” dello scrittore cattolico, che ricordo è l’unico che ha scritto due libri-intervista con due Papi (S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI).

Messori più di una volta affronta il tema degli intellettuali, dei politici, che si offrono per cambiare il mondo, per creare l’”uomo nuovo”. Diffidate di questa gente, denuncia Messori. I nostri guai cominciarono quando “degli intellettuali, nei salotti dei nobili o nel chiuso delle loro biblioteche, cominciarono a pensare e a dire che la società doveva essere ‘organizzata secondo ragione’. E’ stato sempre così a partire dall’illuminismo e poi dalla Rivoluzione francese. Ogni schema mentale di questi filosofi, metteva in conto non l’uomo concreto, come è, ma come dovrebbe essere per rispondere al loro schema ideologico prestabilito. Invece dobbiamo guardare e accettare l’imperfezione sociale degli uomini, cercando ovviamente di ridurla, a cominciare da noi stessi. Mettendo in conto che l’imperfezione sarà sempre con noi.

Messori invita a stare attenti allo “Stato etico”, dalle leggi “pedagogiche”, “dal ministro “paterno” che pensa a noi e alla nostra salute, dal partito o dall’ente pubblico che vogliono educarci alla virtù”. E’ un’avvertenza che soprattutto va rivolta ai tanti cattolici buonisti che, nella loro ingenuità credono che personaggi appartenenti allo Stato etico siano positivi e magari appoggiati. Stiamo attenti ad ogni Grande Fratello. Anche su questi temi ci sono diversi esempi. A cominciare dall’ipocrisia e dal cinismo dello Stato venditore di sigari e sigarette. Il monopolio del fumo, gelosamente difeso da corpi armati come la Guardia di Finanza. Insomma: “governi spacciatori e al contempo virtuosi predicatori”, che il fumo fa male.

Una difesa della salute a parole, ma quando si tratta di soldi e tutta un’altra musica.

Messori evidenzia troppe contraddizioni nello Stato etico. Interessante quelle legate al sistema sanitario, alle cure dei soggetti non virtuosi, come il tabagista dai polmoni cancerosi, dagli alcolisti, o dei malati di aids, l’elenco potrebbe continuare, individuando qualche responsabilità dell’infermo.

Ma a proposito di malattie, per Messori, rispetto alle vecchie malattie veneree, quello dell’Aids, è un morbo “nobile”, almeno quando è stato limitato agli omosessuali, categoria protetta dello Stato etico. Sugli omosessuali, Messori è categorico: “Basta una battuta su di loro e scatta la denuncia per un reato inventato da poco e perseguito con spietata durezza, la cosiddetta ‘omofobia’. Si può sbattere in mezzo alla strada un fumatore incallito ammalato tra gli applausi dei conformisti, ma guai “a negare le cure a un gay che, seguendo il piacere suo senza alcuna protezione, è divenuto sieropositivo”.

Salto qualche nota, al numero 71, troviamo la bella storia sul tempio spagnolo della “Sagrada Familia”, di Barcellona, ideata dal grande architetto Antoni Gaudì. Una costruzione non finita completamente, nel 2010 Papa Benedetto XVI, sottolineò il grande significato di questa lunga storia che dura da più di un secolo. Messori rivolto ai governanti catalani di oggi che sfruttano la sacra costruzione per fini turistici, ricorda che nel 1936 i rojos, i “rossi” (anarchici, comunisti, socialisti), di cui rivendicano orgogliosamente l’eredità, volevano bruciare la Sagrada Familia.

I rojos di allora dopo aver fucilato sul posto sette persone della confraternita, bruciarono la baracca dove Gaudì lavorava giorno e notte a produrre elaborati, schizzi, schemi per proseguire i lavori del tempio. Così andarono perse per sempre le carte, l’archivio dell’opera. Pertanto, il lavoro è stato ripreso ma per forza di cose, alla “cieca”.

Nelle successive note Messori critica alcuni luoghi comuni in materia religiosa, come il gran parlare dei “segni dei tempi”, della gran parte di pastorale dopo il Vaticano II, era diventato un luogo comune tra i cattolici “progressisti”. Chi ha vissuto quei tempi ricorda i “Cristiani per il socialismo”, che sapevano discernere i segni dei tempi, pertanto, i credenti autentici dovevano fiancheggiarli e benedirli. Poi in certe facoltà teologiche europee si elaborò la cosiddetta “teologia della liberazione”, di impronta marxista che fu esportata in America Latina.

La nota 80 (Maledictus homo…) Alla base della fede cristiana, c’è una massima fondamentale: “l’uomo, da solo, non può salvare l’uomo”. È una grande verità di una fede che ha un Dio che si è incarnato per portare all’uomo la salvezza.

Purtroppo, negli ultimi secoli dell’Occidente si è cercato la self-salvation, attraverso la politica, l’ideologia, affidandosi a profeti dell’”avvenire radioso”, a “uomini della provvidenza”, a “capi carismatici”. I risultati sono stati drammatici, fallimentari. Messori fa i nomi di alcuni di questi uomini che dovevano salvarci: Robespierre, Bonaparte, Lenin, Stalin, Hitler e via di questo passo.

Non mancano i riferimento a personaggi politici (si fa per dire) del nostro tempo. A cominciare dal molisano Di Pietro, il Grande Giustiziere, o il Robespierre molisano. E poi il Pannella Giacinto, nominatosi Marco, per arrivare al Grillo, un buon comico trasformatosi in grottesco demagogo. Di lui scrive Messori, “si rinnova per l’ennesima volta l’illusione che sia possibile organizzare gli uomini in un ‘movimento’ che sfugga alla gerarchia e alla disciplina del ‘partito’”. Nelle riflessioni sul movimento dei 5Stelle, Messori anticipa quello che ora sappiamo bene. Gli elettori votando i grillini pensano di colpire la casta ma hanno colpito sé stessi.

“Il ‘partito dei tutti puri, onesti, disinteressati’ non può esistere, se non nelle utopie degli ingenui o nei deliri di gnostici e catari”. Anche perché la società umana può organizzarsi legittimamente sotto altre forme di governo, diverse da quelle della democrazia parlamentare. Messori ci mette in guardia dai vari demagoghi e insiste sulla presunta purezza dei movimenti o delle ideologie. “Tutte le ideologie della modernità – giacobinismo, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo, radicalismo – sono nate con bellicose intenzioni antipartitiche, con dichiarazioni ‘movimentistiche’ e sono diventate quelle organizzazioni totalitarie che sappiamo”. Avverrà la stessa cosa per il movimento di Grillo, nato per disfarsi dei partiti, diverrà partito lui stesso. Non vi è nulla di sorprendente, anche il Cristianesimo era un movimento, ma che poi si organizzato in una Chiesa gerarchica.

“E quando il Gallo cantò…” Dedicato a don Andrea Gallo, il prete rosso, quando intonava “Bella ciao”, si commuoveva. Il tipico ritardo clericale, qualcuno doveva avvertirlo che la bandiera rossa non c’era più, ammainata il 25 dicembre del 1991 dal pennone del Cremlino. Ma, forse, sarebbe stato opportuno ricordare a quel vecchio prete, che i partigiani “rossi” emiliani, ogni notte prelevavano un parroco dalla canonica e il mattino dopo veniva trovato massacrato in un fossato. Unica colpa: essere sacerdote.

Cambiando tema, Messori si chiede come mai i regnanti, quei pochi rimasti, costano molto meno dei presidenti delle repubbliche. Quello francese, 110 milioni, quello italiano, 153 milioni. Il bilancio della regina inglese è di 38 milioni, il re del Belgio, 14 milioni, Juan Carlos, addirittura di 8 milioni.

A chi rimprovera Messori di essere tiepido nei confronti delle aggressioni islamiste in Europa e quindi di non unirsi a chi propone una anacronistica crociata. Messori risponde che sarebbe controproducente, “non c’è bisogno di una chiamata alle armi contro il saraceno: il pericolo per lui non sta nelle armi ma nei costumi attuali, soprattutto dei giovani”.

Sul debito pubblico sono responsabili i cattolici buonisti quando si uniscono con le ideologie socialiste e comuniste. Mentre lo “stato sociale”, il welfare, quando a tutto deve provvedere lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune, alla fine, si crea una sorta di animale mostruoso, difficilmente gestibile.

Sull’immigrazione ci sono dei paradossi enormi, come quello della Liberia, il piccolo stato africano. Dagli Usa gli americani portarono degli schiavi neri riscattati, che appena i bianchi se ne sono andati, questi hanno riprodotto la situazione che avevano patito oltre Oceano. I neri americani ridussero in schiavitù i neri autoctoni. Agli esempi di “Miseria Rossa”, nei Paesi dove ha trionfato l’ideologia comunista, vedi Cuba di Fidel Castro. Si oppone la Spagna di Francisco Franco, nonostante il suo regime di quarant’anni, scomparso lui la Spagna è passata alla democrazia, senza nessun spargimento di sangue. Ma soprattutto, secondo Messori, “il regime ha creato le premesse per uno sviluppo inaudito che, in pochi anni ha trasformato la Spagna in un Paese ricco quale non era mai stato”. I sinistri fanno finta di niente ma la l’ascesa rapida e clamorosa della penisola Iberica era stata preparata negli ultimi vent’anni di governi di Franco. Qualcosa di simile è avvenuto in Cile dopo la dittatura di Augusto Pinochet.

In pratica, i regimi del “socialismo reale” non hanno lasciato che rovine, si è dovuto ricominciare da capo. “A differenza di quanto è avvenuto a Madrid – dove si erano poste le basi per un inedito benessere -, a Mosca, a Praga, a Varsavia, a Budapest, a Bucarest e ovunque altrove la bandiera rossa aveva dominato, la miseria che già c’era prima si è aggravata e l’educazione socialista data alle masse si è rovesciata in delinquenza e corruzione”.

Interessante per quanto riguarda l’economia, il caso unico della Svizzera. Un Paese interamente montuoso, senza risorse naturali, diviso in quattro lingue, diverse confessioni religiose, sembrerebbe destinato alla povertà, al sottosviluppo; invece, è divenuto uno dei luoghi di maggiore sviluppo.

Altra curiosità, il caso Algeria, la vera storia della cosiddetta guerra dove è stata coinvolta la Francia. Anche qui Messori sfata alcuni luoghi comuni. Algeri era diventata una capitale della pirateria e dei corsari che infestavano il Mediterraneo. Nelle piazze algerine vendevano a migliaia gli schiavi cristiani catturati nei raid nei villaggi sulle coste. Bisognava risolvere il problema alla radice. Tutti gli europei appoggiarono la Francia.

Il libro come ho già scritto è una miniera di informazioni su tanti argomenti. Mi rendo conto di dilungarmi, le mie sono recensioni anomale, l’ho sempre ribadito.

Un ultimo riferimento a Simone Beauvoir, la celebre femminista per eccellenza. Ebbene, qui Messori dimostra raccontando la storia di questa donna e del suo compagno, Jean-Paul Sartre, come le ideologie alla prova dei fatti, falliscono miseramente. Non posso raccontarvi tutta la storia di questi epigoni del sesso sfrenato, praticato a 360 gradi ogni giorno con partner diversi. Messori fa riferimento a un libro di 600 pagine che l’editore Gallimard pubblicò nel 1997, dopo la morte di Simone. Il libro contiene 304 lettere della Simone e scritte tutte a Nelson Algren, un noto romanziere americano, in una di queste lettere la femminista francese, lei che lavorava per “distruggere” il matrimonio, si spinge a scrivere, che desiderava di essere la sua moglie per sempre, c’è una frase molto significativa: “Sarò per te una obbediente sposa araba. Sarò buona, laverò i piatti, farò le pulizie, andrò a comprare le uova e il dolce al rum, non ti toccherò i capelli, le guance o le spalle senza la tua autorizzazione”. Sostanzialmente tutto il contrario, della vita pubblica che aveva voluto costruirsi con Sartre e delle sue idee del matrimonio, definito “un abominio”. La profetessa militante dell’amore libero ora vorrebbe stare col suo uomo tutto suo.

Ci sarebbero altre “perle” da raccontare. Per il momento mi fermo, prossimamente presenterò la III parte.

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