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Bernheim

 

Una bomba ad orologeria con il conto alla rovescia già avviato sopra le nostre teste: così, semplificando e interpretando un po' l'intervento giornalisticamente, si potrebbe definire il Discorso tenuto da Papa Benedetto XVI il 21 dicembre 2012 alla Curia romana in occasione dei rituali auguri natalizi, uno degli ultimi in assoluto del suo pontificato e forse il più rilevante dal punto di vista magisteriale. In quell'occasione, affrontando il tema dell'ideologia del gender (o 'gender theory', in inglese) in tutte le sue conseguenze pubbliche, specialmente educative, politiche e culturali il Pontefice faceva riferimento a un importante intervento recente del Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, che - come portavoce della comunità ebraica - obbligatoriamente sollecitato a dire la sua in riferimento al progetto di legge Taubira (poi approvato, il 20 aprile scorso), meglio noto come “Le mariage pour tous”, esponeva chiaramente, e ordinava in modo coerente, oltre che laico e interreligioso, una serie di obiezioni di natura giuridica, antropologica, filosofica e morale all'estensione di un riconoscimento pubblico quale è il matrimonio a coppie dello stesso sesso. L'intervento, passato praticamente sotto silenzio dopo qualche giorno di vivaci polemiche, è ora messo intelligentemente a disposizione di chiunque lo voglia leggere grazie a una meritoria iniziativa editoriale di Gabriele Mangiarotti di CulturaCattolica.it (cfr. G. BERNHEIM, Quello che spesso si dimentica di dire. Matrimonio omosessuale, omogenitorialità e adozione, Salomone Belforte & C., Livorno 2013, Pp. 66, Euro 10,00). Il saggio integrale di Bernheim è introdotto da una presentazione di monsignor Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, che riprendendo la riflessione sulle plurisecolari radici giudaico-cristiane della tradizione occidentale, riporta l'impostazione del discorso sull'evidenza perenne della legge morale naturale che precede la nostra esistenza e quindi confuta alla base ogni pretesa 'dittatura del desiderio' della società contemporanea ben rappresentata da certe espressioni del linguaggio ormai diventate di uso comune (“sento così, perciò questo è vero” oppure “la maggioranza sente così e perciò questo è vero”), sintomatiche del nuovo “totalitarismo tecnocratico” (p. 12) che tutto omologa e appiattisce nel nome di un egualitarismo estremo che non conosce confini né limiti. Su posizioni analoghe si trova anche un esponente di punta dell'ebraismo italiano come Giorgio Israel, docente presso l'università La Sapienza di Roma, che nel suo intervento da intellettuale laico (“La difesa della religione e della civiltà”) identifica significativamente nella teoria del gender “la punta di lancia di una battaglia ideologica volta a distruggere quello che viene chiamato l''essenzialismo' della cultura occidentale” (p. 14) e quindi il suo patrimonio culturale e spirituale (non solo meramente religioso) più autentico, citando come esponente di rilievo di questo percorso intellettuale l'influente filosofa statunitense contemporanea Donna Haraway, la più nota teorica del cyborg (un organismo cibernetico che è allo stesso tempo uomo e macchina) come metafora tipica della condizione umana post-moderna: “siamo di fronte a una battaglia ispirata a un'avversione profonda per le radici stesse della civiltà e della cultura occidentali che viene da lontano, fin da quegli anni sessanta del secolo scorso in cui gli studenti dei campus statunitensi scandivano lo slogan “From Plato to Nato” (“da Platone alla Nato”), che può far sorridere ma illustra meglio di lunghi discorsi l'ideologia in gioco” (p. 15).

Il saggio vero e proprio di Bernheim che segue immediatamente dopo spiega come la lotta democratica contro l'ingiustizia e la discriminazione nulla abbia a che fare con le rivendicazioni politiche e legislative derivanti dall'ideologia del gender che invece – come tutte le ideologie nella storia – semmai si caratterizza proprio per una negazione radicale della realtà esistente e dei dati per così dire più fattuali. Così, il rischio “irreversibile” (p. 21) è quello di dare luogo a una confusione “di genealogie, di norme (il bambino-soggetto diventa bambino-oggetto) e di identità” (p. 21), una confusione che si rivelerebbe nefasta “per l'insieme della società e che fa perdere l'interesse generale a vantaggio di quello di una infima minoranza” (ibidem). Nella prima parte della sua trattazione (“Analisi delle argomentazioni dei sostenitori di una legge” pp. 23-43) Bernheim, prestando la voce e la penna ai suoi avversari, si pone delle domande significative e risponde pazientemente ad ognuna delle rivendicazioni politiche più diffuse in pubblico restando sempre – ed è qui il valore aggiunto della testimonianza – su un piano di laicissima logica argomentativa e razionale, mentre nella seconda (“Dietro le discussioni, il confronto di due visioni del mondo” pp. 45-54) affronta la questione da una prospettiva antropologica confrontandosi con idee come – tra le altre – quelle della scrittrice Simone de Beauvoir (1908-1986), che in Francia è stata una delle prime a teorizzare una distanza netta tra il femminismo biologico e naturale (donne si nasce) e il femminismo culturale e quindi artificialmente costruito (donne si diventa), fino ad arrivare alla più recente queer theory che si propone di “far sparire la differenza sessuale tra uomo e donna” (p. 47) sostenendo che “non essendo che una convenzione sociale, l'identità sessuale non è in alcun caso determinante per la psiche dell'individuo. Non bisogna, quindi, tenerne conto” (p. 47). La conclusione finale, drammatica nei toni, illumina però senza retorica l'effettiva posta in palio: “Di fronte a queste dilaganti rivendicazioni, è legittimo chiedersi se l'obiettivo dei militanti non è la distruzione pura e semplice del matrimonio e della famiglia, come sono tradizionalmente concepiti. In questo obiettivo, il matrimonio omosessuale e il diritto all'adozione per le coppie dello stesso sesso non saranno che un mezzo per fare esplodere le fondamenta della società, per rendere possibile ogni forma di unione ed, infine, liberare l'uomo da una morale ancestrale e far sparire così definitivamente la nozione stessa di differenza sessuale” (p. 49). In appendice del libro, per approfondire ulteriormente il discorso a più voci, un contributo del rabbino di Torino Alberto Moshe Somekh e di suor Maria Gloria Riva, studiosa dell'arte moderna e contemporanea occidentale, che si concentra sul concetto di differenza sessuale commentando l'originale dipinto “Omaggio ad Apolinnare” - raffigurato in copertina - del pittore ebreo russo, poi naturalizzato francese, Marc Chagall (1887-1985) per dire che “con un anticipo di un secolo (siamo nel 1911-1912 quand'egli dipinge quest'opera) [Chagall] già affermava che la temperatura di un secolo, le battute o gli arresti di una generazione derivano proprio dal modo di concepire la coppia, la distinzione fra i sessi e la tensione costante della sessualità verso quel compimento che inevitabilmente per essere raggiunto la trascende” (p. 66).

Copertina libro Correa de Oliveira

 

E' stata presentata a Roma, presso l'associazione Luci sull'Est, l'ultima raccolta di pensieri di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), l'indimenticato autore dell'opera in assoluto più importante prodotta dalla cosiddetta scuola controrivoluzionaria nel XX secolo: Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (di cui peraltro proprio quest'anno ricorre il cinquantesimo anniversario della traduzione italiana, la prima edizione - curata da Giovanni Cantoni - uscì infatti per le edizioni Dell'Albero di Torino nel 1963). Il nuovo volume, edito dalla Cantagalli di Siena (cfr. P. Corrêa de Oliveira, Innocenza primordiale e contemplazione sacrale dell'universo, Cantagalli, Siena 2013, Pp. 366, Euro 19,00) e comprendente una serie di trascrizioni da nastri registrati di conversazioni, conferenze e discorsi sul tema della contemplazione e della bellezza, è una sorta di 'appendice contemplativa' ideale al grande affresco pubblicato in vita e dunque da non perdere. La serata, introdotta dal dottor Juan Miguel Montes Cousiño, direttore dell’Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà di Roma, è stata condotta da Julio Loredo – già allievo del professor Corrêa de Oliveira - che oggi dirige la versione italiana della rivista ufficiale della TFP. Loredo ha presentato subito la figura dell'intellettuale brasiliano sotto tre profili: egli è stato infatti contemporaneamente “un pensatore, un uomo d'azione e un contemplativo”. Se la prima definizione appare pacifica (essendo stato egli per lunghi anni docente di storia moderna e contemporanea presso la Pontificia Università Cattolica di San Paolo, oltre che autore di libri e una mole pressoché innumerevole di articoli per riviste e giornali quale vivace forma di apostolato), meno immediate sembrerebbero le altre due, almeno per chi si accosta superficialmente alla sua figura. Eppure il brasiliano fu anche un cristiano militante, attivo nella vita pubblica (e politica, essendo stato – a soli 24 anni – il deputato eletto più giovane e più votato del Paese) richiamando decisamente il primato di Dio sulla pubblica piazza e anche e soprattutto un uomo di contemplazione, un uomo di preghiera, come ha sottolineato Loredo che ha ricordato anche la sua esperienza come priore del terz'ordine carmelitano e leader delle congregazioni mariane. Preghiera, formazione e azione - esattamente in quest'ordine poiché “non c'è contro-rivoluzione senza contemplazione” - diventano così i tre cardini fondamentali di una vita spesa nella Chiesa e per la Chiesa dalla primissima giovinezza fino alla morte, avvenuta ad 87 anni di età a San Paolo.

Se il processo rivoluzionario di allontanamento dalle radici cristiane che l'Occidente nel suo insieme (tanto in Europa, quanto nelle Americhe) da ormai quasi cinque secoli ormai attraversa, è ad uno stadio così avanzato, l'unica soluzione non può che essere nel ritorno convinto all'ordine naturale e divino che è stato violato, come pure recita un recente saggio di John Horvat pubblicato negli Stati Uniti (Return to Order. Only solution to the crisis. From a Frenzied Economy to an Organic Christian Society, York Press, 2013). Oggi, dopo le quattro grandi tappe della scristianizzazione (la Rivoluzione protestante di Lutero nel '500, quella illuministica e giacobina esplosa in Francia alla fine del '700, quella socialcomunista a livello mondiale per gran parte del '900 e quella dei costumi e della morale successiva all'onda lunga del 1968, ancora in pieno corso) la situazione di endemica crisi sociale diffusa può risolversi solamente tornando a quel primato originario di Dio che l'Autore brasiliano coglieva ad esempio nella “contemplazione sacrale” del creato. La contemplazione, infatti, permette di cogliere in misura immediata ed intuitiva tutta la piccolezza e la fragilità della nostra umanità e – per converso – la grandezza irriproducibile del Creatore che ci precede: con il che, verrebbe da dire, siamo già alla vigilia della conversione e, quindi, almeno in tesi, in fase di prima contro-rivoluzione. Se infatti riconosciamo di essere delle creature finite e mortali, dipendenti dal Cielo (“l’uomo è creato per conoscere, servire ed amare Dio su questa terra e goder di Lui eternamente in paradiso”, ricordando un celebre articolo del Catechismo di San Pio X) e che dunque non si danno delle norme morali di azione da sole, allo stesso tempo riconosciamo anche che c'è una Creazione prima di noi e quindi un Creatore a cui siamo necessariamente debitori per la vita e per tutti i doni che abbiamo ricevuto. Il passaggio successivo è che l'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, quale essere eminentemente razionale, può dominare liberamente le passioni e gli istinti orientandoli alla legge naturale ricalcata nel Decalogo e quindi a Dio stesso. Se è vero infatti che siamo fatti di ragione, volontà e sensibilità non è meno vero che tra le tre c'è una chiarissima scala gerarchica discendente per cui la sensibilità nulla fa senza la volontà e quest'ultima nulla può se la ragione non vuole. Esattamente opposto è invece il meccanismo rivoluzionario: distruggere l'ordine interiore dell'uomo dando sfogo selvaggio alle passioni e quindi sottomettersi al giogo incontrollato dell'orgoglio e della sensualità che restano - oggi come ieri - le due grandi leve motrici di ogni 'rivoluzione tendenziale' in senso proprio (a partire dalla prima di Lucifero e degli angeli ribelli, descritta in modo immortale dal libro della Genesi, avvenuta appunto per orgoglio). Il risultato pratico è il disordine familiare e sociale che quotidianamente vediamo crescere sotto i nostri occhi e che alimenta senza soluzione di continuità la 'dittatura del relativismo' etico.

Plinio Corrêa de Oliveira aveva considerato tutto questo e aveva visto una via d'uscita appunto nella contemplazione della bellezza specchio della nostra innocenza primordiale che – come insegna una vecchia leggenda bretone su una cattedrale sommersa nel mare ma di cui i pescatori odono di tanto in tanto il suono delle campane che gli angeli fanno risuonare – se può essere ferita nel nostro cuore, tuttavia non viene mai meno. Scrive a tal proposito il pensatore sudamericano: “L'innocenza primordiale non è qualcosa che il diavolo riesca a sradicare interamente dalla nostra anima. Vi resta una cattedrale sommersa dalle acque del peccato ma che ancora esiste in noi. Di tanto in tanto le campane di questa innocenza rintoccano, e ci fanno sentire come una melodia interiore, una nostalgia, una speranza...”. Né si tratta di arbitrarie osservazioni personali e soggettive se è vero che addirittura un dicastero della Santa Sede – il Pontificio Consiglio della Cultura – nel 2006 ha pubblicato ufficialmente, sulla scorta del Magistero di Papa Benedetto XVI, un apposito documento intitolato proprio alla Via Pulchritudiniscome cammino privilegiato di evangelizzazione e dialogo”: qui vengono proposte alla riflessione varie figure di artisti e opere d'arte particolarmente significative della storia bimillenaria dell'Occidente che potrebbero parlare agli uomini smarriti di oggi conducendoli a ri-scoprire la via della verità più e meglio di quanto forse un confronto o una disputa meramente intellettuale potrebbe fare. Corrêa de Oliveira da parte sua propone tre esempi, tra gli altri: la cattedrale di Notre-Dame a Parigi, del XII secolo, uno dei capolavori dell'arte gotica più celebri al mondo, l'abbazia di Mont-Saint-Michel, dedicata al principe delle schiere celesti, che si erge sull'isola omonima, risalente al X secolo, e il monte Fuji, la montagna più alta del Giappone con la sua caratteristica cima universalmente nota, dalla punta conica spezzata, innevata dieci mesi l'anno. La semplice visione di questi luoghi, debitamente contemplati, nel silenzio della meditazione o sul sottofondo del cantico di preghiera più melodico, è un invito deciso ad alzare gli occhi al Cielo sopra le miserie della società dell'immagine per riscoprire il vero, e autentico, senso primordiale di ogni cosa. Se il peccato, il brutto e l'osceno che dilagano oggi sui grandi mezzi di comunicazione e sui cosiddetti 'social network' allontanano sempre più l'uomo dalla sua nobile origine e dal suo fine ultimo, le meraviglie immortali dell'arte e del creato presenti tutt'intorno a noi restano comunque lì ad indicare – a chiunque sia disposto ad ascoltare – che la vita è un avventura bella, degna di essere pienamente vissuta, e che il bello infine altro non è che il secondo nome del vero e del buono.

Antonio Donno, ordinario di storia delle Relazioni internazionali nell’Università del Salento, affronta un tema scarsamente trattato, almeno in Italia: i rapporti Stati Uniti-Israele. Il volume (Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2002, Le Lettere ed., pp. 310, € 32) analizza incontri e scontri tra lo Stato di Israele e i vari governi degli Stati Uniti dalla nascita dello Stato ebraico (1948) quasi fino a oggi, partendo però dalla fine della seconda guerra mondiale, quando il movimento sionista ricominciò a tessere la sua trama diplomatica, collegandosi all’allora nuovo presidente americano, Harry Truman.

L'analisi dei legami israelo-americani per il secondo dopoguerra tiene conto dell'ambiente medio-orientale, in cui Israele e, per diverse ragioni, gli Stati Uniti svolsero un'intensa attività politica. Lo Stato ebraico doveva creare le condizioni per la propria sopravvivenza. Gli Usa dovevano contrastare la crescente penetrazione sovietica nella regione.

Nello svolgere tale attività, i due Paesi trovarono talora comuni ragioni per sviluppare un'intesa politica, ma altrettanto spesso percorsero strade diverse, quando non contrapposte. Le oscillazioni di questa relazione sono oggetto della documentata analisi del volume.

La facciata della scuola

 

Che oggi la libertà di educazione in Italia non sia tenuta complessivamente in gran conto non è una novità: persino il Papa in persona ne ha parlato e scritto in più occasioni lamentando la sua esclusione dal dibattito pubblico e dall’agone politico, considerato nel senso più alto del termine. Quello che invece è nuovo è che una scuola libera (che dovrebbe essere poi il nome comune, e più semplice, degli ‘istituti scolastici parificati non statali’, espressione burocratichese che fa paura solo a sentirla), e non proprio una qualunque, ma una antichissima, anzi la più antica – di quasi quattro secoli per la precisione, risalendo la sua fondazione alla prima metà del XVII – sul territorio ancora viva nella culla della Cristianità (il Collegio Nazareno, a Roma), fondata da un Santo del calibro di San Giuseppe Calasanzio (1557-1648), non esattamente l’ultimo arrivato nella grande storia della santità bi-millenaria della Chiesa, possa chiudere per sempre e lasciare il posto a alberghi, hotel, pensioni, fate vobis. Che cioè un patrimonio obiettivamente ineguagliato (per tradizione e prestigio) dell’educazione cristiana del nostro Paese possa chiudere i battenti semplicemente così, dall’oggi al domani, arrendendosi come nulla fosse alle logiche del mondo senza colpo ferire per problemi meramente economici. Cattiva gestione, operazioni finanziarie discutibili, scelte dirigenziali sciagurate all’interno di un Ordine e della fondazione ad esso legata potrebbero infatti decretare tra pochi mesi appena (a giugno, al termine del corrente anno scolastico) la fine ingloriosa di un’istituzione educativa pionieristica in Italia che all’alba della modernità ha insegnato letteralmente a tutti (senza nutrire complessid’inferiorità verso alcuno) come e con quale motivazione si educa, non generalmente al ‘sapere’ o al semplice ragionare e ‘far di conto’, ma all’avventura complessa e straordinariamente difficile della vita che trascende (mai verbo qui fu più adatto) i libri e le mere accumulazioni nozionistiche. Se la grande storia della carità nel nostro Paese vanta una fioritura di opere e iniziative fuori dal comune lo si deve anche a tutto quello – ed è tanto – che questa originalissima Scuola cristiana posta proprio nel centro storico della Capitale ha trasmesso ininterrottamente nei suoi quasi quattro secoli di vita. D’altronde, il Santo prete aragonese (fondatore degli Scolopi, nel 1621) aveva iniziato l’opera – tra indicibili difficoltà, organizzative, pratiche e pastorali – proprio ‘per vocazione’ cristiana: cioè, per salvare dalla strada, dalle malattie e dalla miseria tanti ragazzi poveri di Roma. Che altrimenti chissà dove sarebbero finiti. In poche parole: perché era uno che ci credeva e si sarebbe fatto ammazzare per la missione tra il popolo. Fondando quel Collegio qualche anno più tardi, nel 1630, il Calasanzio voleva anzitutto – evangelicamente– ‘salvare anime’ insomma, a partire da quelle dimenticate e abbandonate del popolo dell’urbe. Fu così che il Collegio Nazareno divenne la prima scuola popolare d’Europa: unica nel suo genere, aperta a tutti, gratuita (e l’illuminismo è ancora molto lontano), diretta alla persona nella sua totalità.

Si dirà che erano altri tempi, altri contesti storici e che certe visioni oggi ormai sono sorpassate. Al che verrebbe da rispondere di rimando: sarà per questo che il presente è un disastro, educativamente parlando. Ma finisce sempre così, a ben vedere: quando il lavoro diventa un intermezzo come un altro per passare il tempo a ‘fare qualcosa’ invece che una vocazione che contribuisce a dare senso alle giornate, i risultati non possono che essere al ribasso. E un progetto educativo al ribasso non funzionerà mai: i giovani (gli educatori veri lo sanno bene) hanno bisogno di verità e ne avranno bisogno sempre, rimuovere anzi la domanda sul senso stesso della verità – umanamente parlando – come affermava pure qualche osservatore informato della scuola italiana tempo fa,è un’operazione alla base ‘criminale’ perché rende il bene uguale al male, Dio un’opzione tra le altre, la battaglia per la giustizia una domanda oziosa. Un autentico genio dell’educazione di tutti i tempi, San Giovanni Bosco, l’aveva capito bene. A chi gli chiedeva se non esagerasse ogni tanto a essere severo con i suoi ragazzi così giovani, il fondatore dei Salesiani rispondeva semplicemente: “se hanno l’età per peccare, allora hanno anche l’età per santificarsi”. Sarà per questo che da una parte abbiamo avuto Santi di 14 anni (come San Domenico Savio (1842-1857)) e dall’altra, oggi, ‘bamboccioni’ a 40 anni. Ma allora non è un caso che lo stesso San Giovanni Bosco ai suoi tempi si sia recato proprio al Collegio Nazareno per studiare meglio quello straordinario esperimento di educazione integrale, come la definiremmo oggi, che allora faceva parlare di sé anche nel lontano Piemonte. Ecco, alla luce di tutto ciò (molto altro si potrebbe aggiungere) assistere alla chiusura di una Scuola come questa dovrebbe provocare un moto di reazione e di sdegno civilein chiunque abbia un po’ a cuore la libertà educativa, la qualità dell’istruzione e il senso della scuola pubblica nel nostro Paese, a partire dalla classe dirigente dei laici cattolici che – in teoria – dovrebbero essere i più sensibili a certe istanze. Affermare che la libertà di educazione è un fondamentale principio non negoziabile e pre-politico (come è con tutta evidenza)ma nel contempo permettere senza colpo ferire che le stesse istituzioni che la rappresentano si arrendano come nulla fosse alla logica del mondo e della secolarizzazione senza neanche gridare all’ingiustizia e allo scandalo in corso sotto i propri occhi é una contraddizione clamorosa che nessun Paese civile – meno che mai un cattolicesimo organizzato degno di un Paese civile – dovrebbe mai permettersi.

Burtscheidt_Andreas_-_Edmund_Freiherr_Raitz_von_Frentz

 

Il ruolo di opposizione politica e spirituale e la resistenza svolta dalla Chiesa contro i totalitarismi della prima metà del Novecento, in particolare in rapporto al nazionalsocialismo tedesco, continuano ad essere oggetto di accese controversie e discussioni tra gli storici. Nonostante il successo di pamphlet polemici e mirati film 'a tesi' però, la ricerca storica lentamente continua a fare i suoi passi e a rimettere a posto le tante verità oscurate dall'ideologia. Ne è testimone da ultima una recente iniziativa tenutasi in Vaticano, presso l'aula del Pontificio Collegio Teutonico, all'interno del Campo Santo Teutonico (meglio noto come Friedhof der Deutschen und der Flamen in tedesco, si tratta della più antica fondazione nazionale tedesca presente nella Penisola), dove si è svolta la seconda del ciclo di Conferenze pubbliche (Öffentliche Vorträge) dell'anno accademico 2013/2014 organizzate dalla filiale romana della Görres-Gesellschaft, la società di studi nata nel 1876 in memoria dello scrittore e storico Johann Joseph von Görres (1776-1848) istituita per rispondere al duro Kulturkampf bismarckiano e in generale ai progetti di aggressiva laicizzazione della società portati avanti allora dal nascente Stato unitario tedesco guidato dalla Prussia. Ospite e relatore per l'occasione, introdotto dal direttore Stephan Heid, lo studioso Andreas Burtscheidt di Bonn che, prendendo spunto da una sua recente ricerca in materia – molto documentata e pubblicata in un volume tutto da leggere per i tipi della Kommission für Zeitgeschichte (cfr. A. BURTSCHEIDT, Edmund Freiherr Raitz von Frentz. Rom-Korrespondent der deutschsprachigen katholischen Presse 1924-1964, Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn 2008, Pp. 340, Euro 30,00) – ha trattato la singolare, quanto ai più purtroppo poco nota, vicenda umana e professionale di un giornalista cattolico tedesco, Edmund Raitz von Frentz (1887-1964), oggi sepolto proprio nell'omonimo Campo Santo, nella Roma degli anni Trenta e Quaranta (“Zwischen Mussolini, Hitler und dem Papst: Edmund Raitz von Frentz als katholischer Journalist im faschistischen und nationalsozialistichen Rom” [Tra Mussolini, Hitler e il Papa: Edmund Raitz von Frentz giornalista cattolico nella Roma fascista e nazista]).

Nativo di Bonn da una famiglia dell’antica nobiltà germanica, dopo gli studi e la formazione giuridica a Berlino, Kiel, Münster e ancora Bonn, Reitz von Frentz si trasferisce a Breslavia dove più tardi incontrerà anche il filosofo Max Scheler (1874-1928), neoconvertito al cattolicesimo, che anima diversi circoli culturali esplicitamente in senso apostolico. Quindi, messa da parte l’attività di giurista, inizia a scrivere per la Kölnische Volkszeitung, il più importante quotidiano d’ispirazione cattolica dell’epoca, che lascerà solamente nel 1925 quando diventerà inviato da Roma per diverse testate d’informazione legate al Zentrumspartei, l’aggregazione politica più grande e rappresentativa dei laici cattolici tedeschi, fondata nel 1870. A Roma trascorrerà praticamente quarant’anni, il resto della sua vita (dal 1924 al 1964), diventando anche cameriere pontificio (Päpstlicher Kammerherr) e quindi membro a tutti gli effetti della Famiglia Pontificia, con la possibilità d’interloquire settimanalmente con il Pontefice in persona: sarà in questa veste che il suo ruolo di vero e proprio mediatore politico-diplomatico tra la Santa Sede e la Germania assumerà notevole rilievo, particolarmente per quanto riguarda l’opportuno orientamento politico e culturale che i cattolici tedeschi afferenti al Zentrum dovevano seguire proprio quando la morsa del regime iniziava a farsi sentire in modo più stringente. In effetti, oltre ai suoi reportage giornalistici e alle sue numerose lettere, l‘intera sua vicenda personale – in questi anni stringe amicizia anche con personalità di primo piano del cattolicesimo e della politica nazionale tedesca come il teologo Ludwig Kaas (1881-1952) e l’ex cancelliere della Repubblica di Weimar Franz von Papen (1879-1969) – ci permette di comprendere meglio numerosi aspetti spesso superficialmente criticati della politica diplomatica della Santa Sede (su tutti, il Concordato con il regime hitleriano appena insediatosi, il cosiddetto ‘Reichskonkordat’, siglato il 20 luglio 1933, né aupicato, né desiderato – ha spiegato Burtscheidt – ma un passo obbligato nel quadro di quelle condizioni storiche e geopolitiche per cercare di tutelare nel modo più efficace la già vessata comunità cattolica) e apprezzare più in profondità la portata dei reali equilibri in campo. Il Concordato, infatti, fu steso proprio sotto la direzione del cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli, futuro Papa Pio XII, che a sua volta conosceva bene la situazione tedesca (oltre a parlarne fluentemente la lingua) e che Raitz von Frentz aveva conosciuto già negli anni Venti quando quest’ultimo era Nunzio apostolico (in quella veste il Nunzio non a caso aveva portato già a conclusione due importanti concordati con due Länder: la Baviera nel 1925 e la Prussia, nel 1929). E, ancora, la sua opera di mediazione culturale vedrà da vicino anche la nascita della famosa Mit Brennender Sorge, l’enciclica di condanna del nazionalsocialismo scritta direttamente in tedesco (unica nella storia della Chiesa) da Papa Pio XI e pubblicata il 10 marzo del 1937.

. Per chi è interessato a saperne di più, oltre che in consultazione presso il cospicuo fondo della Biblioteca della società di studi tedesca (oltre 35.000 volumi), aperta quotidianamente al pubblico, il volume si può richiedere per l’acquisto direttamente qui: http://www.kfzg.de/Publikationen/Reihe_B__Forschungen/Reihe_B__Band_101-120/Burtscheidt__Andreas__Edmund_F/burtscheidt__andreas__edmund_f.html.

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