Alberto Indelicato, ambasciatore a riposo (resse anche la nostra rappresentanza nella Germania Est negli ultimi anni di grama esistenza di quel Paese), autore di un buon numero di opere storiche, ha il merito di scrivere con garbo e di attrarre l’interesse del lettore. Sia che egli faccia ricorso a fulminanti battute, sia che più seriamente tracci acuti raffronti e solidi profili storici degni di riflessione, chi lo legge resta soddisfatto. Ultimato il volume, ha appreso tanti aspetti che gli erano sconosciuti o, se già ne era informato, ne ha letto interpretazioni che lo fanno meditare.
È il caso dell’ultima sua fatica, Spie e professori nell’Ungheria di Kádár, che esce nella simpatica collana “Il Filo della Memoria”, diretta da Francesco Perfetti per Le Lettere (pp. 110, € 15). Sono vivaci, ironiche e avvincenti pagine rievocative di un triennio trascorso negli anni Sessanta dall’autore, come consigliere d’ambasciata a Budapest, nella cupa Ungheria comunista. Tanti particolari ci dicono che cosa fosse un regime comunista: dalle spie piazzate ovunque (qualcuna addirittura imprevedibile), ai piccoli condizionamenti quotidiani, dalle indicibili giustificazioni che i burocrati di turno adducevano con palese faccia tosta, alla generale arretratezza e miseria. I fermenti di libertà erano compressi da una società in cui il comunismo penetrava ovunque, nel ricordo dell’insurrezione del 1956 che si voleva fosse eternamente ignorata. Indelicato non manca di sottolineare come abbondassero, così in Occidente come in Italia, i sostenitori di un simile regime, che fantasticavano potesse arrivare anche da noi, come se fosse la nostra una società schiava.
Le pagine più gustose sono quelle che illustrano la drammatica vicenda di un incolpevole professore, vicedirettore del locale Istituto italiano di cultura, in breve volgere di tempo cacciato in galera e condannato per spionaggio. Il regime aveva come unico scopo ottenere la liberazione di un proprio connazionale, questo sì vero agente spionistico, scoperto e condannato in Italia. La descrizione dell’arresto e del processo subìto dal poveretto permette di rilevare particolari (vogliamo dirli sconcertanti?) della giustizia nell’Ungheria comunista. Basti dire che l’avvocato difensore (di Stato, ovviamente) poteva colloquiare col proprio assistito (si fa per dire) solo alla presenza del pubblico accusatore.
Fin da quel Venerdì Santo sul Golgota la vita dei cristiani in tutto il mondo è stata caratterizzata dalla realtà concreta del martirio. Il secolo appena passato, significativamente definito dal beato Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) come il "secolo di Caino", è stato il secolo in cui più si è versato il sangue dei cristiani. Anzi, stando agli studi più recenti, se si somma il numero dei cristiani morti tragicamente in odium fidei nei 1900 anni precedenti, non si raggiunge la cifra registrata nel solo XX secolo, segnato dall’esplosione radicale delle grandi ideologie totalitarie: circa quaranta milioni di morti.L’Italia, su cui certo vigila sempre in modo particolare la Provvidenza, presenta numeri inferiori alla media ma non fa eccezione. Lo dimostra, fra gli altri, l’ultimo saggio dello psicologo lombardo Roberto Marchesini (cfr. R. Marchesini, Martirio al santuario. Angelo Minotti e l’Avanguardia cattolica, D’Ettoris Editori, Crotone, Pp. 98, Euro 11,90), dedicato alla figura del giovane catechista di Rho, nei pressi di Milano, Angelo Minotti (1890-1920), assassinato sul piazzale antistante il locale santuario mariano dell’Addolorata da un gruppo di socialisti la domenica dopo l’ottava della festa del Corpus Domini del 1920. Eppure, come osserva Marco Invernizzi nell’Invito alla lettura del testo, "nella nostra storia nazionale, la presenza di martiri per la fede, cioè di cattolici assassinati perché cattolici militanti,pubblicamenteimpegnati nel difendere e promuovere la presenza della Chiesa, suscita un certo stupore" (p. 10). Nel sentire comune del mondo cattolico contemporaneo, infatti, raramente si coglie la consapevolezza della propria identità storica, anche recentissima, e temi come quelli dei martiri delle ideologie politiche — si pensi solo al "buco nero" costituito dai tanti preti uccisi dai partigiani comunisti sul finire della guerra civile italiana (1943-1945) e anche oltre —, anche a più di mezzo secolo di distanza, continuano a restare un imbarazzante tabù.
Il breve saggio storico di Marchesini, in questa ottica, ha il merito di fare luce su un periodo fra i più convulsi della politica italiana del 1900, ovvero quello seguìto alla Prima Guerra Mondiale (1914-1918), la Grande Guerra, segnato dai violenti conflitti sociali del cosiddetto "biennio rosso" 1919-1920, quando una crisi socio-economica gravissima aveva dato luogo a occupazioni delle terre, espropriazioni coatte, scioperi selvaggi e agitazioni violente dal Nord al Sud della Penisola. Sono questi, peraltro, gli anni in cui nascono quelle grandi formazioni politiche che domineranno la scena politica del "secolo breve": dal Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (1871-1959), d’ispirazione cristiana ma dichiaratamente aconfessionale — fondato il 18 gennaio 1919 — ai Fasci di Combattimento che Benito Mussolini (1883-1945) fonda il 23 marzo dello stesso anno e che avrebbero costituito il primo nucleo del movimento fascista, al Partito Comunista d’Italia, costituito a Livorno il 21 gennaio 1921 da una frangia di massimalisti usciti dal Partito Socialista Italiano. Su questo sfondo i cattolici, emarginati in toto dalla vita politica del Paese fin dall’aggressione perpetrata dal nuovo Regno unitario contro la Sede di Pietro con la celebre "breccia di Porta Pia" del 1870, umiliando il beato Papa Pio IX (1846-1878), cercano faticosamente di riguadagnare il loro posto nella società italiana. A questa "rinascita" del cattolicesimo organizzato si opponevano naturalmente, e con vigore, le nuove formazioni politico-ideologiche, che ricorrevano spesso a ogni mezzo, legale e illegale, perché la Chiesa non riconquistasse il terreno perduto. Quello che accade nella diocesi di Milano, la più grande d’Europa, è esemplare: "frequenti tentativi di invasioni delle Chiese e di incendio dei circoli e sedi delle associazioni, assalti alle processioni, sacerdoti e giovani cattolici vilipesi, parodie blasfeme erano all’ordine del giorno" (p. 53). Allora, su impulso dello stesso arcivescovo ambrosiano, il cardinal Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), si costituirà, per tramite dell’Unione Giovani Cattolici Milanesi, "il primo nucleo dell’associazione denominata Avanguardia Cattolica, "la spada dietro l’armadio" dei cattolici milanesi, secondo una definizione del cardinale Montini" (p. 54). Si trattava di un gruppo di giovani, "[...] scelti tra quelli più attivi, con una intensa vita spirituale e dotati anche di una certa prestanza fisica" (ibidem), che avevano come compito principale "la difesa delle celebrazioni religiose e delle istituzioni cattoliche" (ibidem), ma che prestavano una particolare attenzione anche alla formazione culturale e spirituale delle giovani generazioni. Negli anni a seguire, l’Avanguardia si diffonderà fuori dal Milanese, "[...] arrivando a contare circa settanta gruppi con quasi 1500 iscritti" (p. 56), costituendo così un rilevante bastione identitario per la difesa della libertà di azione della Chiesa. Grazie a questi giovani — che ritroveremo impegnati attivamente anche nei Comitati Civici di Luigi Gedda (1902-2000) che faranno la loro comparsa in occasione delle fondamentali elezioni politiche dell’aprile del 1948, le quali sanciranno la scelta di filo-occidentale e anticomunista del nostro Paese — il cattolicesimo lombardo potrà continuare la sua encomiabile opera di evangelizzazione sociale nella stagione missionariamente più difficile per la Chiesa, quella fra le due guerre mondiali.
Angelo Minotti era uno di questi ragazzi che parteciparono giovanissimi alla Prima Guerra Mondiale e ne subirono le conseguenze drammatiche. Catturato dagli austriaci nel 1916, sarà inviato come prigioniero nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, quindi trasferito a Brod, in Croazia. Potrà tornare a casa, a Rho, solo nel 1919, dopo otto anni di servizio militare e trenta mesi di prigionia. Eppure "appena tornato, riprese la sua attività nell’Unione Giovani Cattolici di Rho e come maestro di Catechismo presso l’oratorio di San Luigi" (p. 74) e sarà proprio svolgendo il suo apostolato catechistico che troverà la morte, il 13 giugno del 1920, sul piazzale del santuario della sua città per mano di un gruppo di socialisti armati che, piombati all’improvviso dinanzi la chiesa, spareranno alcuni colpi di rivoltella sui presenti, uccidendo appunto Minotti e ferendo altre persone. Sull’omicidio non ci sarà mai alcuna inchiesta. Così, nonostante l’efferato delitto, della figura di Minotti, si è persa, fino a oggi, ogni memoria. Il libro di Marchesini, si spera il primo di una lunga serie sui "nostri" martiri dimenticati, ha il merito di colmare finalmente, con una notevole cura storiografica e l’ausilio di un apparato fotografico-documentale inedito di prima mano questo vuoto ingiustificabile.
Certamente tra gli argomenti più diffusi per attaccare la Chiesa cattolica c’è quello dei preti pedofili. Solitamente si insinua che la Chiesa, il Papa, avrebbero fatto poco per porre rimedio alle tragedie causate dall’immoralità di un numero piccolo ma purtroppo esistente di sacerdoti.
In pratica approfittando di alcuni casi di pedofilia nel clero cattolico, in particolare in Irlanda e negli Stati Uniti, autentiche lobby si sono organizzate per amplificare il fenomeno, inventando statistiche fasulle. Proprio negli Usa avvocati d’assalto attaccano intere diocesi per cause miliardarie, chiedendo risarcimenti per danni morali su fatti più o meno accaduti magari tantissimi anni fa. Si è promossa una vera campagna di discredito dei Pontefici, dei sacerdoti, della Chiesa Cattolica e del suo Magistero morale.
All’inizio di quest’anno la casa editrice Sugarco di Milano, ha pubblicato un documentato volumetto, “Pedofilia. Una battaglia che la Chiesa sta vincendo”, del sociologo delle religioni Massimo Introvigne e dello psicologo Roberto Marchesini, che si occupa nella II parte del libro, di approfondire la questione pedofilia dal punto di vista storico, filosofico e clinico.
Il professore Introvigne studia da anni il fenomeno dei preti pedofili e seguendo l’insegnamento di Benedetto XVI, invita a non minimizzare un dramma che purtroppo, tragicamente, esiste, ma nello stesso tempo a non rinunciare neppure a denunciare le falsità, le esagerazioni e le manipolazioni delle lobby. Nel libro si fanno nomi e cognomi di chi distorce volutamente la realtà al servizio di una vera e propria “agenda anti-cattolica”. Soprattutto Introvigne denuncia quella “congiura del silenzio su un dato di fatto che appare sempre più macroscopico, ma che i grandi media continuano colpevolmente a ignorare: le misure di prevenzione della Chiesa volute da Benedetto XVI e da Papa Francesco funzionano, e i casi di preti pedofili diminuiscono sensibilmente fino quasi a sparire in Paesi un tempo molto colpiti da questa piaga vergognosa”.
Nel 2010 il professore Introvigne aveva pubblicato un libro, “Preti pedofili. La vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI”, pubblicato da San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), nel testo il professore sosteneva che “la pedofilia diffusa tra il clero era un fenomeno reale, giustamente denunciato dal Pontefice Benedetto XVI, il quale non si limitava alla denuncia ma indagava anche sulle sue radici, rintracciandole nella rivoluzione antropologica degli anni 1960, che aveva coinvolto la morale ed era penetrata anche nella Chiesa Cattolica”. Inoltre questo dramma reale, definito dai sociologi come “panico morale”, secondo Introvigne“era stato amplificato oltre ogni ragionevole misura dai media, creando l’impressione che i preti pedofili - certamente meno dell’uno per cento del totale dei sacerdoti nei Paesi per cui si dispongono di studi statistici seri – fossero invece una percentuale significativa del clero mondiale”.
Ora a distanza di tre anni nel libro della Sugarcoedizioni, Introvigne sviluppa due concetti: nel 1°, continua la diffusione del “panico morale”, creato dai vari “imprenditori morali”, cioè quelle persone e gruppi interessati a lucrare sul panico e quindi imbastire una campagna di speculazione politica e di screditamento della Chiesa. Nel 2° aspetto è che aveva visto giusto tre anni fa in quel libro, le misure prese dalla Chiesa Cattolica si stanno rivelando efficaci.
Ritornando al testo della Sugarcoedizioni, il professore torinese inizia a raccontare “lo snodo irlandese”, nel Paese sono accaduti alcuni dei più gravi e tristi casi di preti pedofili, realmente veri, che nessuno può negare e che hanno provocato una grave crisi del cattolicesimo irlandese. Peraltro lo stesso Benedetto XVI si era rivolto con una lettera sulla pedofilia il 19 marzo 2010 innanzitutto ai cattolici.
In sostanza la Chiesa non intendeva negare o sminuire la realtà degli abusi. Soltanto che una parte del mondo politico irlandese “ha tentato di approfittare della tragedia dei preti pedofili per proporre attacchi alla Chiesa che hanno lo scopo culturale di archiviare la tradizionale Irlanda cattolica per sostituirla con una ‘europea’, aperta all’aborto – introdotto nel 2013 – e in prospettiva al matrimonio omosessuale”.
Si arriva allo scontro aperto con la Santa Sede da parte del primo ministro Enda Kenny il quale ribadisce che i laici irlandesi non intendono farsi dettare la linea politica e giudiziaria né dai vescovi né dal Vaticano. Per Introvigne il ragionamento di Kenny assomiglia molto a quello dell’ex primo ministro spagnolo Josè Luis Zapatero, oppure ai “mangiapreti” liberali del nostro Risorgimento. Caso curioso è che Kenny non è Zapatero, ma un cattolico praticante che fa parte di un partito di ispirazione cattolica e di centro-destra, che sta introducendo una serie di leggi che vanno dall’aborto alle unioni civili tra omosessuali. Al di là della giusta rabbia degli irlandesi per i gravi abusi, non si comprendono gli attacchi personali a Benedetto XVI da parte del primo ministro.
Occorre sottolineare che la Santa Sede e il Papa non hanno mai negato la tragica e vergognosa realtà dei preti pedofili, quello che non accetta è l’esagerazione sui numeri, le ricostruzioni imprecise dei fatti. “Sui preti pedofili alcuni politici irlandesi hanno usato una lente d’ingrandimento che distorce le dimensioni del fenomeno a beneficio di virulente campagne laiciste”. Sicuramente se non c’erano i preti, pare che si tratti di nove casi controversi,“la lente non avrebbe nulla da ingrandire”.
Il libro prende in esame quell’infame pagliacciata della denuncia contro Benedetto XVI al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, in pratica, per Introvigne “si vuole colpire la Chiesa perché dà fastidio, perché è la sola a opporsi alla dittatura del relativismo, della cultura della morte sostenuta dalle lobby miliardarie delle cliniche per gli aborti e per l’eutanasia e delle industrie delle pillole abortive, e all’ideologia di genere che ha alle spalle l’enorme potere delle lobby omosessuali”. La difesa dei bambini dalla pedofilia è sacrosanta, ma per questa gente è solo un pretesto, piuttosto occorre ribadire che c’è in gioco la libertas Ecclesiae, la possibilità per la Chiesa di svolgere liberamente la missione che il Signore le ha affidato.
Dopo lo “snodo irlandese”, il testo si occupa dello “strano caso degli ebrei di Brooklyn”, poi degli abusi dei preti pedofili olandesi, che sono sempre una piccola percentuale rispetto agli abusi perpetrati nelle altre istituzioni, vedi le scuole pubbliche, palestre etc. Introvigne accenna al caso del cardinale Roger Mahony, cui si chiedeva di non partecipare al Conclave, perché coinvolto in processi in cui lo si accusa di aver protetto preti pedofili. Il libro si occupa inoltre dello SNAP, l’organizzazione americana della “Rete di sopravvissuti Abusati da Preti”, un’organizzazione poco attendibile, nonostante goda le protezioni negli ambienti mediatici, politici e giudiziari. Introvigne passando all’Italia tratta del cosiddetto “diavolo di Savona”, dei “professionisti dell’anti-pedofilia”, infatti, così come ci sono i “professionisti dell’antimafia”, come aveva ben scritto Leonardo Sciascia, anche in questo campo esistono quelli dell’antipedofilia. Infine un accenno al film “Mea Maxima Culpa”, un concentrato di bugie. Il libro di Introvigne e Marchesini è un concentrato di notizie non è facile fare sintesi, pertanto non mi resta che invitarvi ad acquistarlo e a leggerlo.
Poco più di due anni fa, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (il dicastero della Chiesa istituito da Paolo VI che si occupa di promuovere le esigenze della giustizia sociale nel mondo confermemente al Vangelo) organizzò a Roma un Congresso internazionale in occasione del cinquantesimo anniversario dell'enciclica Mater et Magistra, la prima enciclica sociale di Papa San Giovanni XXIII. Gli atti vengono ora pubblicati ad opera dello stesso Consiglio in un corposo volume dal titolo - Giustizia e globalizzazione: dalla Mater et Magistra alla Caritas in veritate - che permette di avere un'idea completa del contributo originale di studi, riflessioni e analisi che i cristiani impegnati a vario titolo portano oggi nella società (cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Giustizia e globalizzazione: dalla Mater et Magistra alla Caritas in veritate, Città del Vaticano, Tipografia Vaticana 2012, Pp. 1009). All'inizio del libro – dopo la “Presentazione” firmata congiuntamente dal presidente (il cardinale ghanese Peter Turkson) e il segretario (il salesiano monsignor Mario Toso) del dicastero e il saluto che Papa Benedetto XVI rivolse ai partecipanti in occasione dell'incontro in Vaticano – spicca l'intervento inaugurale dello stesso Turkson che, parlando dell'attuale crisi economico-finanziaria globale, stigmatizza espressamente quei “gruppi economici e finanziari che dettano l'agenda della politica” (pag. 27) finendo sempre più col sostituirsi agli organi rappresentativi democraticamente eletti: un monito eloquente contro le derive tecnocratiche attualmente in corso, soprattutto in Occidente. Venendo poi al messaggio specifico della Mater et Magistra, il porporato riprende giustamente il primato della legge naturale che fa da àncora e vera e propria ossatura all'intera enciclica per sottolineare però come nel documento questa vada sempre calata nella viva realtà sociale e alle sue esigenze di giustizia. Si vede così come la verità non è mai qualcosa di astratto o utopico ma un'evidenza che ha invece a che fare con l'intimo dell'essere umano e le sue aspirazioni più profonde.
Da questo punto di vista paricolarmente rilevante appare l'intervento di monsignor Giampaolo Crepaldi (“La Parola che salva nella storia: il compito delle commissioni Giustizia e Pace”, pagg. 131-137), già segretario dello stesso dicastero in passato e attualmente Arcivescovo di Trieste, che mette a tema la questione dell'identità del laico cattolico nello spazio pubblico e quindi del dialogo con il mondo soffermandosi sui temi della pastorale sociale e sulla chiave di lettura offerta a tal proposito dalla Dottrina sociale come sapere ordinato che presuppone la Fede e si affianca al Magistero dei Pontefici. Si avverte come un punto delicato oggi sia quello costituito dalla tenuta complessiva 'dell'ecclesialità' degli organismi laicali cristiani perchè senza l'orientamento al primato perenne del Vangelo il rischio a volte è quello di trasformare la propria missione in ideologia o, peggio, in un'idea debole subalterna alle correnti filosofiche mondane dominanti. Oltre quarant'anni dopo la rivoluzione del 1968 insomma, e dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II (ventisette anni) sulla 'nuova evangelizzazione', c'è ancora molto da fare per ri-dare coraggio alla missione pubblica dei laici che spesso appaiono ancora tentati dal ritorno al privatismo e a una testimonianza il più possibile innocua – ovvero pubblicamente accomodante – della dottrina cristiana. A seguire, notevole è anche l'intervento di Peter Klasvogt (“Gli attori della Dottrina sociale della Chiesa: la formazione dei futuri presbiteri alla luce della Dottrina sociale della Chiesa”, pagg. 138-150), presidente dell'Istituto sociale “Kommende Dortmund”, in Germania, che tratta della storia recente della sua accademia, legata alla rinascita economica e sociale della Ruhrgebiet (il famoso bacino della Ruhr, da sempre grande centro industriale della Nazione). Qui si vede come l'opera di formazione teologica e sociale – diretta a futuri sacerdoti - ha dovuto fare i conti soprattutto con le ferite causate dalla divisione in due del Paese durante la Guerra Fredda (1945-1989) e al lungo processo di riunificazione che ne è seguito. Oggi, invece, gli sforzi sono concentrati soprattutto sull'accoglienza dei sacerdoti provenienti dai Paesi orientali usciti dal comunismo e sull'accompagnamento del processo d'integrazione europea: un'esperienza comune di Weggemeinschaft (“comunità in cammino”), come si esprime significativamente lo stesso Klasvogt, che sta dando frutti notevoli sia dal punto di vista umano che spirituale facendo sentire tutti i partecipanti 'una cosa sola' dopo anni di dolorose incomprensioni e divisioni reciproche dovute a guerre e nazionalismi.
Tra gli interventi più centrati sulle tematiche economiche merita menzione invece quello del gesuita William Ryan, del Forum canadese per la giustizia sociale e la pace (“Verso un'economia sociale: pluralismo e partecipazione alla realizzazione del bene comune con esplicito riferimento alle opportunità, agli obiettivi e alle sfide affrontanti in Nordamerica”, pagg. 230-254) che presenta alcune esperienze di attività no-profit particolarmente riuscite, come quelle promosse dal movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich in Italia nel 1943. Lungi dal dedicarsi solo alla spiritualità, il movimento infatti ad oggi ha aperto più di 750 aziende in tutto il mondo che portano avanti praticamente nei rispettivi campi il lascito ideale della Lubich: 'unità' e 'comunione' tanto da affermarsi – a detta degli stessi studiosi – come buoni esempi di “economia di comunione” (pag. 238), fondati sulla condivisione degli utili e la diffusione della gratuità come principio sociale ponendosi in tal modo anche come alternativi al 'mainstream' commerciale oligopolistico che la fa da padrone in molte aree geografiche dove oggi i vincoli giuridici e normativi sono più deboli, o quasi inesistenti.
Savino Pezzotta, già segretario generale della CISL, attualmente membro del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel suo intervento affronta invece il tema dei diritti del lavoro declinati in un contesto di globalizzazione avanzata (“Valorizzazione e remunerazione del lavoro, politiche sociali: sussidiarietà e giustizia sociale in un contesto di globalizzazione”, pagg. 416- 428). Dopo avere ribadito che l'insegnamento sociale della Chiesa è, per sua natura, “strumento di evangelizzazione” (pag. 417), Pezzotta ricorda che la Mater et Magistra “propone la piena occupazione come obiettivo sociale fondamentale” (pag. 418) anche se molti oggi lo disattendono pregiudizialmente ritenendo che una disoccupazione parziale possa comunque permettere un buon funzionamento dell'economia. Ammesso e non concesso che questo sia vero, resta però il punto che nessuna persona sarà mai libera senza una rendita personale che contribuisca a costruirla anche umanamente: fare finta che non sia così significa porre le basi per futuri pericolosi scollamenti e frizioni (se non veri e propri conflitti) sociali. D'altra parte in Occidente stiamo attraversando anche una fase d'impoverimento capillare che colpisce soprattutto le fasce più deboli: “Fino a quando si può assistere al processo d'impoverimento dei lavoratori che ha coinvolto le loro famiglie e anche la classe media? Essere precario, non avere la prospettiva di un reddito stabile, inibisce la costruzione di forti relazioni sociali, crea competitività verso il basso, impedisce la mobilità sociale e finisce per paralizzare le dinamiche sociali ed economiche. Bastano solo alcuni dati per confermare queste affermazioni: nel 2010 il Pil pro capite è stato inferiore a quello del 2000; le risorse verso le famiglie sono diminuite e la percentuale destinata al risparmio si è contratta...” (pag. 421-422). Vi è poi il problema della rivoluzione tecnologica che sta assumendo branche sempre più importanti dell'economia: “è chiaro che siamo di fronte a un mutamento di paradigma e non possiamo certo diventare dei neoludddisti” (pag. 422), e tuttavia nemmeno per questo il problema può essere semplicemente eluso come se non esistesse affatto. Infine, restano le grandi disuguaglianze globali: “In un recente rapporto, l'OCSE ha messo in luce come il 10% più ricco della popolazione mondiale gode di un reddito nove volte superiore a quello del 10% più disagiato. In alcuni Paesi, soprattutto dell'America Latina, il dislivello è anche 27 volte superiore” (pag. 423). Come se ne esce allora?
Pezzotta suggerisce quattro chiavi: anzitutto il sostegno alla crescita economica perchè senza di essa diventa difficile parlare di occupazione, remunerazione e politiche sociali. Oggi occorre però mettere l'accento non più sulle ore o i giorni lavorati, come se più ore volesse dire automaticamente più produttività, ma sul tasso d'innovazione, cioè sul paradigma tecnologico che si vuole sposare perchè la battaglia competitiva a livello internazionale in ultima analisi si vince qui. Si tratta quindi d'investire – a lungo termine – in conoscenza e sapere, sulle nuove forme di know-how, più che sulle rendite di posizione che ormai non tutelano più nessuno. In secondo luogo c'è la famiglia: “le politiche famigliari devono essere il centro delle nuove politiche sociali e fiscali” (pag. 426). Qui la scala delle priorità e ben nota: “la questione della casa e l'emergenza abitativa, l'abbassamento della pressione fiscale e tariffaria in ragione della composizione famigliare. Andrebbe recuperato e aggiornato alle situazioni attuali il concetto di salario familiare. In una situazione di declino demografico, con tutto quello che significa sul piano economico e sociale, creare condizioni fiscali, tariffarie, salariali e dei servizi che aumentino il reddito famigliare, non è da considerarsi un aggravio del bilancio, ma un investimento di lungo periodo” (pag. 426). Poi un rilancio delle forme di valorizzazione del lavoro con una maggiore partecipazione (ad esempio) alla ricchezza produttiva d'impresa e quindi, come suggeriva da ultimo la Caritas in veritate, re-immettere nel circuito sociale “il sale della gratuità, del dono e della fraternità” (pag. 427) perchè una vita buona si nutre soprattutto di relazioni umane e forme di cooperazione e collaborazione.
A seguire, Antonio Fazio, economista ed ex governatore della Banca d'Italia, si sofferma invece lungamente sulla questione demografica in “Sviluppo demografico in Europa. Proiezioni e problemi. Conseguenze ecnomiche e sociali” (pagg. 759-778). Fazio osserva che dal 1950 ad oggi la vita-media è aumentata considerevolmente e ciò ha contribuito ad accrescere il numero degli abitanti dei nostri Paesi “anche in presenza di una tendenza a decrescere della natalità” (pag. 761) che è il dato più incisivo e inatteso degli ultimi anni (persino nell'immediato Dopoguerra il tasso era maggiore). In effetti, “in nessuno degli Stati [europei] considerati [l'indice di fertilità femminile] raggiunge l'equilibrio, cioè 2,0 nati per donna [...] solo in Francia il valore della fertilità è prossimo al valore di equilibrio, risultando pari a 1,9” (pag. 773). Questo alla lunga ha fatto sì che la quota dei giovani con meno di 15 anni di età finisse per essere numericamente inferiore (!) a quella di ultrasessantenni, provocando dei veri e propri terremoti sociali: per venire a noi, oggi la popolazione italiana “al pari di quella giapponese, è la più invecchiata del mondo” (pag. 775). Stando così le cose la proiezione futura, ad avviso di Fazio, è drammatica: “se non ci saranno aumenti nei prossimi decenni per l'indice di fertilità, nel corso di due generazioni il numero delle donne italiane e quindi degli italiani sarà dimezzato” (ibidem). Su questo sfondo il ricorso all'aborto volontario, permesso in Italia dalla nota legge del 1978 e aumentato nel frattempo a dismisura, non fa che aggravare la situazione: “sommando il numero degli aborti volontari a quelli delle nascite saremmo probabilmente in una situazione prossima a quella dell'equilibrio demografico” (pag. 777). Detta da un economista, la considerazione dovrebbe far finalmente riflettere tutti i soggetti politici e sociali che imputano solitamente ai cattolici di argomentare esclusivamente su basi confessionali: al contrario, se la matematica non è un'opinione “popolazioni con tendenze in atto come quelle rilevate e sommariamente descritte nei paesi europei sembrano condannare queste popolazioni nel giro di qualche generazione a una sorta di eutanasia sociale” (ibidem). Le Conclusioni del volume, a cura ancora di monsignor Mario Toso (pagg. 862-869), infine, sintetizzano così i vari contributi emersi dai lavori del Congresso Internazionale: “condizione imprescindibile dell'universalizzazione di una democrazia sostanziale, sociale e partecipativa è che essa sia sorretta da un ethos aperto alla Trascendenza, animato dalla fraternità e dalla logica del dono e, inoltre, sia poggiante su un quadro etico-giuridico certo, ossia su diritti e doveri radicati nella legge morale universale e non sull'arbitrio. In definitiva, occorre che la giustizia sociale mondiale non sia fondata su un mero consenso sociale, quale quello previsto dalle etiche neocontrattualistiche e neoutilitaristiche o del dialogo pubblico, bensì sul bene umano universale” (pag. 868).
Il centro di ricerca “Markets, Culture and Ethics” della Pontificia Università della Santa Croce manda in stampa il suo terzo volume della collana per Edusc: questa volta lo firma il direttore Martin Schlag – docente di dottrina sociale presso il medesimo ateneo – che mette a tema una delle controversie più calde nell'attuale stagione di 'postmodernità liquida', ovvero se esistano, come si spieghino e quali siano concretamente i fondamenti storici e culturali del concetto di dignità umana come categoria universale - e vincolante - per l'agire umano, tanto a livello individuale, quanto a livello sociale (cfr. M. Schlag, La dignità dell’uomo come principio sociale. Il contributo della Fede cristiana allo Stato secolare, Edusc, Roma 2013, pp. 278, Euro 25,00). L''Introduzione' al lavoro vero e proprio (pp. 9-20) prende in esame la recente Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 per affermare che la convinzione che tutti gli uomini nascano liberi e uguali per dignità “da allora è stata accolta in numerose costituzioni e trattati internazionali” (pag. 9). Tuttavia, per l'Autore, la tesi-centrale è che l'idea originaria di dignità dell'uomo “pur avendo radici precristiane ed extracristiane, universalizzata e culturalmente fondante com'è, sia dovuta in primo luogo e in particolare al cristianesimo” (pag. 10) nonché, più in particolare, alla concezione “della imago Dei dell'uomo. Nient'altro che la fede nell'incarnazione di Dio rende più manifesta l'idea che ogni uomo, che la natura dell'uomo in quanto tale abbia parte all'assoluto e ad ogni uomo spetti la più elevata nobiltà che si possa concepire” (pag. 11). Nei successivi sette capitoli vengono così affrontati, nell'ordine, i temi della dignità dell'uomo nello Stato secolare (pagg. 23-42), quindi la lettura che ne offre la Bibbia (pagg. 43-78) e la teologia del primo cristianesimo rispettivamente greco (pp. 79-134) e latino (pagg. 135-188). Seguono poi gli approfondimenti dedicati a “La carità cristiana, sorgente di dignità umana” (pagg. 189-216) e a “Dignità dell'uomo e libertà religiosa nei Padri della Chiesa” (pagg. 217-244) per finire con un esempio dall'attualità particolarmente pregnante, ovvero l'interpretazione del concetto costituzionale di 'dignità' nella Legge fondamentale tedesca attualmente in vigore. Emerge così un quadro quantomai dettagliato che si abbevera alle radici profonde dei capisaldi della grande dottrina sociale a partire dalle riflessioni (riprese qui, in parte, da Maritain) sulla distinzione tra individuo e persona e dunque sul valore della persona che “non va trattata come semplice mezzo, ma sempre come un fine. La persona non può mai essere un mero strumento per realizzare il bene comune” (pag. 25). Come s'intuisce, in gioco sullo sfondo vi è anche l'elaborazione codificata della categoria dei diritti umani, mai totalmente esplicitati, tutt'altro che pacifici e quindi a loro volta oggetto pure di accese dispute internazionali: “la dignità dell'uomo è una caratteristica originaria, prestatuale dell'uomo, secondo cui egli è soggetto giuridico, vale a dire detentore di diritti. La dignità dell'uomo è il 'diritto di avere diritti'. Per questo la dignità dell'uomo e i diritti umani sono intimamente connessi, sia nell'origine che negli esiti” (pag. 26).
Per quello che qui più interessa, però, ovvero il fondamento storicamente e marcatamente cristiano del concetto di dignità umana come l'abbiamo apprezzato e ri-conosciuto nella società occidentale, resta centrale la nozione precedentemente accennata della imago Dei “usata nel passo che l'antropologia biblica reputa di centrale importanza, Gn 1,26-28” (pag. 52), lo stesso passo – significativamente – su cui oggi si pone la sfida antropologica epocale portata dalla diffusione organizzata dell'ideologia di genere. Oltre a questo, dalla sapienza veterotestamentaria l'Autore cita poi anche il Salmo 8, in particolare ai versetti 6 e 7 (“Davvero l'hai fatto poco meno di Dio, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi...”) per sottolineare nuovamente quell'inedita – e in parte ancora misteriosa – identificazione tra Dio e l'uomo che troverà poi il definitivo compimento nel Nuovo Testamento (dalla cd. 'Regola d'oro' al celebre Discorso della montagna). Nello svolgimento del discorso la dissertazione è arricchita da una serie impressionante di excursus etimo-filologici che danno ragione di volta in volta dell'uso e della ricorrenza dei singoli termini attestati nella Sacra Scrittura e quindi ripresi variamente dalle prime comunità apostoliche e negli scritti dei Padri della Chiesa (soffermandosi in special modo sui tre grandi padri cappadoci che proprio riflettendo sulla teologia trinitaria arrivarono a gettare le basi strutturali dell'antropologia moderna: Basilio Magno (320-379), Gregorio Nazianzeno (330-390) e Gregorio Nisseno (338/339-395)), passando anche per la Lettera a Diogneto (II secolo). Insomma, non si tratta di fare esercizi raffinati di archeologia linguistica o di traduzione dotta quanto piuttosto di dimostrare – l'Autore ci riesce con una certa persuasione – che “'caricando' progressivamente l'ordine giuridico, nei secoli, di elementi del patrimonio ideale cristiano, si è arrivati a inserire il concetto di dignità dell'uomo anche nel diritto, sotto forma di 'diritti umani' o come fondamento e punto di partenza di ciascuno di questi...” (pag. 86). Né vale qui l'obiezione che il cristianesimo riprese semplicemente la sapienza classica pagana e la ri-modellò. L'Autore cita infatti in proposito scritti di figure eminenti dell'antichità, come ad esempio Cicerone, proprio per dimostrare che tanto nella celebrata democrazia ateniese quanto nella 'grande Roma' la dignità umana quale la intendiamo noi oggi era obiettivamente inesistente: “per i Romani era inimmaginabile un ordinamento politico che ignorasse le gradazioni sociali esplicite. Neppure il diritto penale poteva essere uguale per tutti: le dimensioni e soprattutto la tipologia e l'esecuzione della pena erano comminate non solo secondo il delitto, ma anche in base alle condizioni sociali del colpevole. Gli honestiores venivano puniti in modo più mite rispetto agli humiliores; ricevevano un trattamento migliore, per via del gradus dignitatis, anche sotto altri aspetti” (pag. 137). Per dirlo in modo ancora più diretto, quanto immediato: “per quanto belle, le idee dei filosofi pagani restarono confinate a un ridotto gruppo di intellettuali. Ebbero certo degli effetti sul piano pratico, come durante il regno del'imperatore stoico Marco Aurelio, ma non segnarono in profondità la cultura. L'universalizzazione dell'idea di dignità dell'uomo fu riservata al cristianesimo, sia nel senso di una fondazione teorica che in quello di una messa in pratica di tipo culturale, nella vita reale della maggioranza della popolazione, con l'attività e la guida pastorale di ogni giorno. Con l'incarnazione di Dio in Cristo il concetto di dignità potè essere radicalmente universalizzato, e si aggiunsero le idee dell'umiltà e della grazia divina. La dignità spettava ora individualmente ad ogni uomo, e non a causa dell'approvazione sociale, ma esclusivamente sulla base della natura umana in rapporto con Dio” (pag. 187).
Il problema di oggi pare invece essere – a livello di classi dirigenti, come di gente comune – che tutto questo si dà oramai quasi per scontato senza riconoscere affatto né da dove provenga né quanto sia costato arrivarci. Il discorso (il volume non lo tocca, ma si può aggiungere ugualmente) è, o dovrebbe essere, particolarmente evidente soprattutto se si guarda alla nascita di quelle istituzioni sorte a specifica salvaguardia e tutela della dignità umana in quanto tale come gli ospedali, le case di cura e gli enti di assistenza socio-sanitaria in generale. Sarà un caso che la gran parte di essi sono stati fondati da esperienze vive della carità cristiana? E, se non è un caso, che cosa dedurne in rapporto all'affermazione del valore della dignità umana a livello sociale in Europa e quindi in Occidente? Per avere un'idea del delicato status quaestionis attuale, infine, appare particolarmente significativo il capitolo conclusivo dedicato dall'Autore alla dignità dell'uomo nella Costituzione (Grundgesetz) tedesca, risalente al 1949. Rievocandone brevemente le premesse, Schlag sottolinea che “al termine del regime dispotico nazionalsocialista, il popolo tedesco si diede un catalogo di diritti fondamentali alla cui sommità furono posti la proclamazione dell'intangibilità della dignità dell'uomo e il riconoscimento degli inviolabili e inalienabili diritti umani. Come è evidente dall'analisi del materiale utilizzato per dare vita a queste disposizioni, tutto questo aveva il fine di introdurre consapevolmente un nuovo inizio, capace di esprimere con chiarezza che lo Stato è al servizio dell'uomo e non l'uomo al servizio dello Stato. I politici costituenti partirono dal presupposto che i diritti fondamentali sono fondati sulla dignità dell'uomo e sono garantiti – non concessi – dallo Stato in quanto diritti di immediata validità. Si tratta di diritti fondamentali 'precostituzionali' o 'di diritto precostituzionale', che lo Stato ha il dovere di rispettare. Tutti i partiti del Parlamentarischer Rat (la Costituente tedesca) [...] avevano familiarità con l'idea di diritto naturale. C'era un vasto consenso sul fatto che 'i diritti fondamentali si basano su diritti prestatuali, dati dalla natura'” (pag. 247). Insomma, nell'immediato Dopoguerra era abbastanza chiaro che la dignità dell'uomo rappresentava il principio costituzionale supremo dell'intero oridinamento giuridico in cui l'essere umano non poteva mai, per nessun motivo, essere ridotto a oggetto o mezzo. Nel giro di appena pochi decenni, però, la Corte Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht), cioè l'organismo che in tesi avrebbe dovuto garantire il rispetto di quanto sopra, lo ha invece clamorosamente smentito operando di fatto una drammatica disgiunzione tra l'affermazione solenne della dignità dell'uomo come principio non negoziabile e il diritto alla vita dell'essere umano più innocente e indifeso in assoluto, il nascituro (negoziabilissimo). Il che, oltre a riproporre questioni antiche giuspolitiche mai risolte (se i giudici vigilano sull'operato del potere esecutivo e il potere esecutivo a sua volta vigila sui cittadini, chi vigila sui giudici?) ha fatto anche riemergere come la giustizia sociale, persino nei suoi fondamenti, sia sempre di nuovo da riaffermare - nella teoria come nella prassi - e mai conquistata una volta per tutte. In ogni caso, nell'articolato esplicativo, l'opera raggiunge pienamente il suo scopo: se oggi la dignità umana è ancora sulla bocca di tutti (mettendo tra parentesi le differenti declinazioni che ne possono derivare in periodi di crisi come questo dai contesti socio-culturali a livello interpretativo) il motivo è da ricercarsi soprattutto nella bi-millenaria storia viva della tradizione cristiana che ci precede e di cui siamo eredi, ci piaccia o no: “sono i Padri della Chiesa a riprendere e valorizzare il concetto disgregato della imago Dei dell'uomo rendendolo un luogo antropologico centrale. E' a partire dalle prime riflessioni in ambito greco e latino che riscontriamo un legame tra imago Dei e dignità dell'uomo” (pag.- 267) ovvero il principio etico-sociale che precede e fonda ogni altro diritto. Una lezione che resta valida e parla a noi anche oggi, purchè non perdiamo di vista che il senso ultimo della libertà è nell'incontro con la verità: “la libertà senza verità diventa oscura a se stessa, non trova in sé alcun senso e alla lunga si autodivora. La libertà ha bisogno di riferirsi alla verità. Se l'uomo non sa chi è e in che direzione andare, la felicità gli sfugge dalle mani [...] Il senso della libertà è la felicità” (pag. 274).
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