Arduin il Rinnegato, il fantasy anti-relativista di Silvana de Mari

Non sono sicuro che il revival tolkieniano seguito alle trilogie cinematografiche di Peter Jackson sia riuscito a liberare il genere fantasy dallo stereotipo che lo identifica con un tipo di letteratura destinato prevalentemente ai più giovani.

E probabilmente non ci riusciranno neanche le opere di Silvana De Mari, nonostante la notorietà internazionale che fa di lei, medico chirurgo e psicoterapeuta, l’autrice fantasy italiana più letta nel mondo.

Ed è un peccato, perché Arduin il rinnegato, pubblicato lo scorso mese di novembre per le edizioni ARES, è un’opera dalla scrittura potente e dalle molteplici chiavi di lettura.

Arduin è il tassello che completa la saga degli Ultimi, iniziata con L’ultimo elfo (Salani, 2004), ma può essere anche apprezzato anche da chi, come l’autore di questa recensione, ha iniziato a esplorare il cosmo narrativo dell’autrice da questa sua opera più recente.

Si tratta di romanzo di formazione ambientato in un universo che con la Terra di Mezzo tolkieniana presenta non poche analogie: in entrambi si confrontano elfi, uomini, nani e orchi. Il protagonista è, per l’appunto, un orco, che incontriamo bambino nelle prime pagine. Una serie di esperienze che non augureremmo neanche al più antipatico dei nostri conoscenti lo portano a percepire l’esistenza (e la bellezza) di una legge morale piuttosto lontana dagli standard ordinariamente condivisi dai membri della sua razza. E a quella legge l’eroico protagonista proverà a conformarsi per tutta la vita. Con molta fatica e con costi altissimi: l’incomprensione e il risentimento dei suoi simili, uniti a una solitudine esistenziale (apparentemente) invincibile.

Sulla trama non vorremmo dire molto di più, avvertendo il lettore che sempre di un romanzo fantasy si tratta: asce, spade e mazze chiodate vengono utilizzate senza risparmio. Giganteggiano amore e morte come in ogni opera dal respiro epico – e c’è anche spazio per un capitolo molto lirico che canta, in modo tutt’altro che melenso, la femminilità –, ma le pur presenti tinte macabre sono poca cosa se paragonata alla truculenza che nella tragedia greca era di casa.

Anche il quel caso, le eventuali atrocità non solleticavano, al contrario di certa cinematografia splatter, vouyerismi morbosi. A caratteri cubitali nei cuori dell’uditorio esse ambivano a scolpire un caveat: la malvagità… fa male, innescando (anche per chi la compie) una serie potenzialmente infinita di lutti e di sofferenze.

Sulla quarta di copertina leggiamo molto a proposito che «Il senso di responsabilità e il libero arbitrio sono i due capisaldi di questo romanzo, che scolpirà nella mente del lettore un nuovo potente affresco dell’eterna lotta fra bene e male».

Sì, perché il male esiste, e nessuna cultura, nessun uso invalso, potrà mai giustificare l’uccisione di una vita innocente, i bambini-soldato o il maltrattamento delle donne in quanto donne. In questo senso, la letteratura di Silvana De Mari è un antidoto potente contro il relativismo, le cui seduzioni ammorbano l’Occidente proprio come fa l’AIDS col singolo organismo: privandolo, cioè, degli anticorpi necessari a resistere ai nemici esterni.

Una recensione del libro non potrebbe dirsi completa senza un cenno alle venature umoristiche che fanno capolino in molte pagine. Impagabili, in particolare, le righe auto-giustificative delle più abiette ricadute dell’orchitudine nella vita di tutti i giorni.

Nella pagina finale dei ringraziamenti Silvana De Mari ringrazia sire Arduin per averle concesso di raccontare la sua storia. Scriverla «è stato un grandissimo onore» dice l’autrice. Per chi l’ha letta è stato un onore altrettanto grande. Posso garantirglielo.

 

 

 

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