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Il nuovo libro di Adriana Gloria Marigo

E’ una silloge poetica davvero ricca di analogie, dove la parola si “vela” e si “svela” con una geometria di immagini e di atmosfere mitiche, quella che Adriana Gloria Marigo ci offre nella sua ultima fatica letteraria dal titolo “Senza il mio nome”, Camponotto Editore, 2015.

Adriana Gloria Marigo vive a Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente cura la presentazione di libri, collabora con associazioni e riviste culturali con interventi critici secondo una visione letterario-psicoanalitica. Nel 2015 ha curato insieme con il poeta filologo italianista romeno Geo Vasile l’antologia Elegie del poeta romeno Valeriu Andreanu  e la prefazione della raccolta di poesie Profusioni – Fusibilia Editore - della poetessa Anna Bertini. È curatrice della collana di poesia Alabaster di Caosfera Edizioni - Vicenza -.

Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano - LietoColle, 2009; L’essenziale curvatura del cielo - La Vita Felice, 2012; Senza il mio NOME, Campanotto Editore, 2015; Impermanenza, plaquette per le edizioni Pulcino Elefante, 2015.Dal 2012 è tra i poeti invitati all’annuale rassegna FlussidiVersi sulla poesia mitteleuropea che la Regione Veneto promuove nella città di Caorle. Su invito dell’Associazione Scrittori Sloveni nell’aprile 2014 ha presentato a Lubiana L’essenziale curvatura del cielo e a Capodistria incontrato gli studenti della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale per un dialogo sulla poesia e sul significato di essere poeti.Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: a giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poeticoDella natura nostra sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro.Cura per Samgha la rubrica “Porto sepolto”. 

Ho l’impressione che la scrittura di Adriana Gloria Marigo, che già moveva da un’aspirazione alla luce e alla chiarezza, all’armonia e all’equilibrio sia d’arte che d’intelletto, approdi qui e in questo libro alla formulazione ancor più esplicita di un tale processo. L’artista greco, l’autore geniale del “Parco dell’Acropoli” ad Atene, l’uomo moderno, anzi modernissimo (si pensi a Rimbaud e al suo appello a dover essere necessariamente moderni) che desidera vivere nella propria arte e nella propria esistenza una Grecità non oleografica, né falsa e tanto meno falsata, né nostalgica, sembra incarnare, per la poetessa patavino-luinese, l’atteggiamento di chi ostinatamente leva lo sguardo verso l’alto, di chi, consapevole della propria contemporaneità, vi cerca e vi vuol costruire un “segno eliaco” e in mezzo a due elementi mediterranei e decisivi: l’olivo e la pietra. Se ci si ferma a riflettere, ebbene Dimitris Pikionis ha usato per la sua opera straordinaria materiale di recupero (mattoni, legni, marmi, cocci) derivanti dalla demolizione di costruzioni ottocentesche e del primo Novecento, li ha impiegati per pavimentare i sentieri, i punti panoramici, gli snodi che uniscono l’Acropoli al Colle di Filopappo – e lo ha fatto seguendo un progetto di massima, ma di fatto adottando quelle soluzioni che si rendevano necessarie giorno per giorno, a seconda delle esigenze contingenti, discutendone con le maestranze che posavano i materiali, cercando di realizzare sul terreno un’idea di bellezza e di luce che, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Ebbene: quei materiali provengono da case demolite, da case che hanno accolto e protetto la vita di decine di famiglie, che hanno visto lo scorrere del tempo umano; il libro di Marigo presenta molte somiglianze con tutto questo, ché i “materiali” verbali e stilistici impiegati dall’autrice, così luminosi e armoniosi, procedono da un’esperienza di vita che ha conosciuto anche il dolore, la delusione, la separazione; per forza di stile s’impone un equilibrio espressivo poco comune, ma l’incandescenza che è ogni esistere umano non viene dimenticata, né rimossa – la poesia è, per Gloria, anche un modo per prendere la necessaria distanza dal magma psichico e dagli accadimenti, per dominarli, comprenderli e dar loro forma d’arte.

Non ho difficoltà nell’affermare che si tratta e di una dichiarazione di poetica e di una presa di posizione esistenziale: “il buio / senz’arte” è riguardato con terrore, mentre l’aspirazione si rivolge verso la “frequenza d’onda” della luce (nella sua natura anche ondulatoria, quest’ultima è ritmo musicale e vitale) e il tempio (iltémenos, recinto sacro di bellezza) potrebbe essere il mondo stesso, il luogo nel quale, a ciò necessitati, viviamo e agiamo. Si comprende bene come mai “corifere le stelle // e a loro di luce rituale / dedita la luna” appaiano nella pagina immediatamente successiva e perché, in conseguenza di una tale visione (ancora il tema dello sguardo, si badi), noi umani “scorgemmo la faglia d’altro destino”. Ma questa “faglia”, questa frattura-e-anche-giuntura decisiva esigono la ricerca del nome, in quanto l’atto del nominare è conoscitivo, s’identifica con il fare stesso della poesia – è la parola-che-dice, la-parola-che-enuncia-e-nomina a essere fondatrice; ecco il perché della messa in guardia di pagina 23

Oltre che su quel bellissimo “suono della luce” richiamerei l’attenzione sul sintagma ”inquieto / malleolo in danza” (vedete quanto raffinate sono le immagini, le metafore?) e, nel mezzo, sta “il tonfo della specie”: siamo nel cuore della dialettica marighiana, all’interno della quale si affrontano e si confrontano l’aspirazione alla luce (leitmotiv del libro), espressa traverso l’arte (poesia, musica, architettura, danza non ultima), con le bassezze di cui è capace il genere umano – è questo il motivo per cui sottolineavo come uno stile impeccabile non significa rimozione o indifferenza nei confronti del male, del negativo, del volgare, ma, proprio al contrario, esso evidenzia la tensione che nasce e attraversa la parola quando le nostre aspirazioni più alte debbono fare i conti con l’immenso portato di negativo che c’è in noi, nella nostra contemporaneità, nel nostro vivere insieme. E la mente insegue “la beltà scandalosa / di un emistichio” (pag. 26) e conserva “la flessibile / luce lungo la pietra / grigia d’Eleusi a salvare / la parola che non s’addomestica” (pag. 27) – la mente cerca la bellezza e ne ha cura (“poiché lo sperpero è tanto / infinito il danno” scriverà l’autrice alcune pagine dopo – DELL’AZIONE VANA, pag. 39), in poesia lo fa tramite la parola “sorta dall’era vertiginosa // magnete ultimo d’intima fibra / pregio di perpetuo rischio” (ibidem) e in tal modo la poetessa ribadisce il proprio legame con l’antichità greca, continuandone nel suo presente la natura di calamita capace di fondare l’azione dell’arte e preziosa anche perché rischiosa, stando a significare che il risultato dell’arte non è mai garantito a priori, mai conquistato in maniera definitiva, mai disgiunto dall’essere l’umano stesso sfida e rischio.

e invito a leggere e rileggere il testo, anche per goderne la bellezza ritmica e lessicale; poi mi permetto di mettere in guardia chi eventualmente pensasse si tratti di un neoclassicismo superato e fuori tempo massimo: il neoclassicismo tende a essere pago di sé e a raffigurarsi l’antichità classica secondo canoni che non corrispondono alla realtà antropologica, culturale e storica di quell’epoca; Adriana Gloria Marigo esprime invece la tensione, come ho già scritto sopra, la problematicità, il notevole lato d’ombra, infero quindi, che costituiscono il nostro essere moderni e la cui comprensione affonda anche nella rimeditazione contemporanea di Eleusi e Delfi, dell’Acropoli.

“Infeudarmi di luce” (pag. 29), “una matrice di stella / al giro del vento” (pag. 31), “la chiara incidenza del nome” (pag. 32) dicono via via anche la bellezza linguistica di questo libro, la pervicace ricerca linguistica che l’autrice persegue, riuscendo a portare il proprio linguaggio a un livello di bellezza ancora superiore a quello dei precedenti libri i quali, pure, avevano già raggiunto un’altezza notevolissima e già ponevano Marigo in netta contrapposizione alla tendenza verso la colloquialità e il sermo cotidianus meno sorvegliato e spesso pedissequamente accettato di tanti autori in attività.

Per ritornare poi sul tema del mito, la composizione che a pagina 36 fa esplicito riferimento alla Morte della Piziadi Friedrich Dürrenmatt conferma, a mio parere, come l’accenno frequente al mito da parte di Gloria nulla abbia a che vedere con un passatista e inutile neoclassicismo, ma, invece, sia consapevole scelta e prospettiva sia culturale che storico-antropologica (consideriamo il fatto che l’opera dürrenmattiana non sia tanto un ironizzare sul e uno “s-mitizzare” il mito, ma, invece, un riproporre e riaffermare l’enigma come centrale nella cultura greca antica e delfica in particolare –  ricordate l’esergo di Senza il mio nome?) – per Marigo la morte della Pizia è anche un venir meno al senso più autentico della sapienzialità, cioè della capacità (tenendo conto della porzione di buio e d’enigma) di guardare nell’abisso dell’animo umano: “spersa l’origine della parola” (verso conclusivo di SE SI OSCURA LA STORIA, pag. 38). E alle “creature che nei frammenti / del tempo si diressero / in lume di ragione” (da EMERSA LA TERRA ALLA LUCE, pag. 41), cioè gli esseri umani, si addice un’espressione che la poetessa impiega due volte: “essersi”, “essermi” (pagg. 43 e 45), quasi che il verbo essere conosca una diatesi media (“ essere per sé, essere per me”) e questo accade perché la dialettica tra luce e tenebra, tra esigenza di chiarificazione e insidia del disordine è uno degli assi portanti del libro il quale, in questo suo punto, è enucleato pure di alcuni luoghi geografici (Piano D’Arta, Caorle, Luino e Colmegna) che, legati alla biografia di Marigo, rivestono la funzione di rendere visibile anche nel paesaggio una tale dialettica: e lo sguardo è sempre lì, a cercare la luce o l’azzurro, che ne è una delle forme, ma non basta, perché si può anche, sinesteticamente, udire “il grido della luce stamani ” (pag. 48) cui proprio di fronte (e lo scrivo anche in senso tipografico, trattandosi del testo di pagina 49) si staglia un magnifico notturno:

Questa e la recensione di Domenico Pisana :  L’Autrice, che ha già alle spalle altre opere poetiche e un percorso culturale molto fecondo, tant’è che dal 2012 è stata presente negli eventi letterari “Flussi di Versi” (Festival della poesia mitteleuropea che la Regione Veneto organizza annualmente a Caorle), “Poeti al Castello” (anno 2013, Trento), “Il soggiorno dei poeti” (2013, primo Festival di Arta Terme Poesia), “La Fiera delle Parole” (Padova, 2013), “Libri in cantina” (Susegana, 2013), in questa raccolta essenzializza la sua ispirazione in una articolazione poetica dal piglio filosofico-cosmogonico e di non facile approccio, dove il contrasto tra i lemmi utilizzati diventano “luoghi semantici” di una policromia di sentimenti capaci di stabilire un circuito comunicazionale con il lettore che viene avvolto in un alone di mistero. Quest’ultimo, insomma, viene quasi introdotto in una genesi primordiale dove cielo e terra, luce e ombra, stelle, buio e notte riproducono uno status esistenziale che non appartiene solo alla dimensione più intima della poetessa, ma si estende nell’animo di ogni uomo che sa riconoscersi nelle proprie radici trascendenti.

E’ sintomatico che lungo le tre sezioni nelle quali è suddivisa la raccolta, la parola “luce” appaia ben 14 volte, contrapponendosi ad “ombra”(6 volte) e a “notte”(4 volte) e “buio” ( 2 volte).

Perché questa insistenza della poetessa sulla luce? E che cosa è questa luce cui fa sempre riferimento? Si tratta, probabilmente, di una ricostruzione metaforica del bisogno di attraversare il tempo della notte senza lasciarsi contaminare “dal tormento dei mostri”, dal “terrore del buio”, dalle tenebre e dalla menzogna che s’annidano come angeli nella nostra coscienza ed essenza vitale più profonda.

Questo anelito della Marigo ad “infeudarsi di luce” altro non è che la risposta alle trappole in cui spesso inciampa la vita, ove le voci di Cassandre risuonano come oracoli, l’inganno si fa strada e la “doppiezza delle parole” si leva “in vaticinio nel tempo”.

In “Senza il mio nome”, dunque, Adriana Gloria Marigo apre uno scenario cosmogonico dove il mito diventa non dispersione nei fondali di una fantasia irreale, ma interpretazione del mistero della vita che si interroga sulla sua genesi e sul suo destino.

L’approccio ai versi di questo libro non può che partire da un epistemologia della parola poetica, che non è mero uso della lingua, ma creazione ontologica, afflato che coglie la realtà nella sua nudità per aprire un orizzonte metafisico nel quale ciò a cui l’anima poetica aspira non è il conoscibile ma l’Autore del conoscibile.

Ogni parola in questo testo di Adriana Gloria Marigo è sempre relazionata ad un pensiero complesso ed inafferrabile; i suoi versi nominano l’Innominabile senza necessità di fare ricorso ad un orizzonte diegetico, perché – come riteneva Platone – il linguaggio è “strumentale”: esso è uno strumento per poter comunicare tra gli uomini quanto questi conoscono e quanto esiste.

Nei versi dell’Autrice la parola poetica è usata per designare, significare una cosa. Il “nome” diventa necessario a esprimere ciò che significa. Nella mente di tutti gli uomini, certo, sono presenti, concetti come “luce”, “notte”, “buio”, “ombra”, “stella” “sole”; tuttavia, a questi concetti si possono dare anche nomi diversi; il sole ad esempio, lo possiamo chiamare soleil, sun, sol, elios, è questione di capirsi, ma è altresì certo che tutte queste parole significano una sola cosa: quell’astro che splende.

“Viene il nome a scolpirmi sempre”, “Tutto il tempo affinare il nome”, “essente il nome” dice la poetessa! Questi richiami al nome mi fanno pensare al testo biblico di Genesi dove Dio sollecita l’uomo perché dia nome agli animali e più in generale alle cose: l’uomo venendo a conoscenza delle cose, dà loro un nome; nella tradizione biblica il nome esprime infatti l’essenza, la natura stessa della cosa designata. Dio stesso chiama “per nome”.

In questa raccolta di Adriana Gloria Marigo la realtà che diviene oggetto poetico è, all’apparenza, “senza nome” perché ogni parola utilizzata dalla poetessa non vuole attirare l’attenzione su di sé ma sul Principio primordiale che ha dato nome alle cose; se è vero infatti 

Scrive  Gianluca Conte : Fin dai primi versi di Senza il mio nome, una delle ultime opere di Adriana Gloria Marigo, Campanotto Editore, 2015, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una raccolta poetica generata “in assenza di tempo”, che si colloca fuori dagli angusti spazi dell’umana dimensione secolare. Così, quella che ci appare come una prima, stentorea invocazione, «O luce, declina di stupore / arrendici alla frequenza d’onda […]» (p.19), potrebbe essere intesa come un viatico, che accompagnerà il lettore per tutte le pagine della silloge. E proprio un viaggio, attraverso il personalissimo Cosmos dell’autrice, sembra originare dalle parole, precise e sempre in luogo, di questo lavoro poetico, emanazioni di un sentire che si fa prossimo alla perenne dualità Ordo/Chaos e, con la sua imminenza, diventa sommo medium di un’interpretazione dialettico-semantica della condizione contigua all’uomo. Come “Verbo perenne”, cui non è concessa la Fine ma il Fine, il verso della Marigo risucchia la transitorietà dell’individuo nell’universo sterminato del non-finito, magnificandosi nell’atavico furore, nel materiale intendimento di Achille, che aveva penetrato a fondo la rabbia degli dei, invidiosi dei mortali per il fuoco passeggero ma insaziabile delle passioni cui non sapevano resistere. In Senza il mio nome, un’aura criptica –  prometeico dono, musica orfica – ricca non solo di suggestioni misteriche ma anche di un’invincibile perfezione formale, attutisce «il tonfo della specie» (p.25), e resiste alla matrigna tabula rasa del Conoscere, così temuta e al contempo praticata, tanto che nei versi in questione sovente si è percepito lo slancio (e il coraggio) della Poiesis e della sua pugna con Polemos, una quintessenza energetico-verbale che tutto ghermisce e divora. Ad un’attenta lettura non sfuggono i diversi piani di senso che attraversano l’intera raccolta e donano, a chi sa intendere, baleni di “nuove scienze umane”, Geografie/Geometrie del profondo: «Emersa la terra alla luce / tutta si coprì di pietra verticale / abissi oceanidi / sfolgorii correnti di fiumi / del verde orizzontale […]» (p. 41). La Poesia di Adriana Gloria Marigo è cura della parola, del dettaglio, della mistura alchemica che rende il verso quasi iniziatico, esoterico (nell’accezione filosofica del termine), ed è maestria nell’uso dell’attributo, lo dimostrano, a nostro avviso, binomi come “legittimità dubitosa”, “bassura transitiva”, “fiorescenza memorante”, “anni antelucani”, “iride agemina”.  Spesso nelle liriche dell’autrice il verso sembra muoversi motu proprio nella galassia del Verbum, si contrae e si espande in un sublime jeu des rêves, dove i sogni non sono da intendere come riflessi di una realtà altra o sconfinamenti nell’indefinito emozionale della poetica fanciullezza, bensì come intersezioni psico-poetiche del Tutto, momenti massimi, lande sistemiche e universali, altipiani da cui è possibile scorgere le larghe spalle dei filosofi e dei maestri delle psicologie. Un versificare, quello della poetessa, che rivela il fascino di arcani prodigi, quasi segni di una ricerca poetico-misterica che ci hanno suggerito dei collegamenti intuitivi e analogici con certi diagrammi ideatici preternaturali e consonanze alfanumeriche primigenie (Pitagora, Platone, Lullo, Agrippa); sintagmi aurei, disposti secondo una “tipologia segreta”, una sorta di odierna Qabbaláh che possiede una struttura granitica e un’identità classica, declinabile attraverso modelli fenomenologici di essenze ed essenti poetico-filosofici. In Senza il mio nome nulla è lasciato al caso, come in un preciso mandala o in un perfetto mosaico, tutti i corpi che compongono la costellazione lirica della Marigo si accendono e sfolgorano di luce propria, lasciando il lettore in uno stato di meraviglia e stupore, come se si trovasse davanti alla forza dei millenni e a quell’immensità del sentire in cui, come avrebbe detto Leopardi, s’annega il nostro pensiero.

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