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Armando Arpaja nato a Roma, frequenta i corsi di Pittura e Tecnica dell’Affresco presso la Scuola delle Arti Ornamentali del Comune di Roma e l’Accademia di Belle Arti. Espone le sue pitture per la prima volta a Roma, in Via Giulia, nel 1976.

L’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma, il 13 dicembre 2007, gli conferisce il «Premio Campidoglio» come artista internazionale, con la seguente motivazione:

«Esaltazione delle diverse etnie privilegiando la Cultura in funzione della costruzione della Pace, l’uguaglianza e la fratellanza dei Popoli».

Ha esposto i suoi quadri in città europee quali, Milano, Parma, Bologna, Taormina, Venezia, Atene, Salonicco, Parigi, Amsterdam, Copenaghen, Bruxelles, Lisbona, Marsiglia, Strasburgo, Sofia. In Medio Oriente e Africa: Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Casablanca, Lefkara (Cyprus), Smirne, Ankara, Addis Abeba, Khartoum, Tunisi, Casablanca, Algeri, Orano, e nelle Americhe: New York, Santiago del Cile, Caracas, collaborando spesso con Ambasciate, Consolati, ed Istituti Italiani di Cultura.

E’ autore dei libri :

“Simòn Bolìvar “- Europa e America Latina: suggello della libertà” . Anno 2014

“Rome n’est plus dans Rome”- volume fotografico - entrambi  del Gruppo Editoriale L’Espresso

“Roma: mia madre” (da Trastevere al Flaminio, quasi un secolo di storia romana raccontata da chi l’ha direttamente vissuta). Edizioni Studio 12. Anno 2009

“Roma affatata” Antologia di storie romane sospirate dai versi di Giggi Zanazzo - Edizioni Studio12. Anno 2010

“Giggi Zanazzo : Scappatelle fôri Roma – Strambotti e Canti del Risorgimento” con appendice di vecchie immagini  e  antichi  ricordi dei Castelli e della Campagna Romana.

Con intervento del Presidente della Repubblica Italiana, On. Giorgio Napolitano. Anno 2011

“Roma Patria Omnium”, con “Usi, costumi, credenze, leggende e pregiudizi del popolo di Roma” di Giggi Zanazzo. Con scritti su Roma nel pensiero e nel sentimento di uomini illustri. In appendice, l’album fotografico “Roma de qua e dde llà dar fiume”. Anno 2011

“Benviént Roma”, Benevento, l’Arco di Traiano 114-2014, volume di 500 pag. riccamente illustrato con foto d’epoca, manoscritti e scritti selezionati da testi antichi. Anno 2014

“Ha da passa’ ‘a nuttata”, Eduardo De Filippo (Napoli 24 maggio 1900 - Roma 31 ottobre 1984)

in occasione dei trent’anni dalla sua scomparsa- pensieri, riflessioni, pagine inedite, immagini.

Associazione Culturale Agapanti, volume di 163 pag., 2014.

L Ambasciatore della Repubblica Bolivariana del  Venezuela in Italia Julián Isaías Rodríguez Díaz dichiara di Armando Arpaia

Arpaja è un pittore riconosciuto e come ricordato dal “Premio Capidoglio”…lui esalta e favorisce la cultura e la costruzione della pace, l’uguaglianza e la fratellanza fra i popoli…

Con questa caratteristica di tenerezza e sensibilità, oltre all’orgoglio di essere nato a Roma, è stato in grado di darci un libro documentato che lavora sulla luce e la coscienza, per raccontarci chi è stato Bolivar, com’era Via Nomentana nel 1805 e com’è stata la rinascita dell’ America, che ancora non è finita e il cui destino è,  sempre di più, Bolivar.

Ed ecco certi appunti fondamentali del suo libro “Simòn Bolìvar “- Europa e America Latina: suggello della libertà parlando  ci sottolinea i punti cruciali con Corriere del Sud :

Simòn José Antonio de la Santìsima Trinidad Bolìvar y Palacios, appartenente alla nascente borghesia creola conosciuta storicamente come “Mantuana” - che si muoveva tra la repubblica e la monarchia in una strana simbiosi politico-culturale- e discendente di una ricca famiglia di origine basche stabilitisi nel Venezuela, nacque in quella che era la Capitaneria Generale del Venezuela a Caracas il 24 luglio 1783. Cresciuto nell’ampia hacienda di San Mateo, dove si allevavano enormi mandrie di bestiame, Bolìvar aveva ricevuto un’educazione adeguata al tempo e al luogo. A diciassette anni, si recò a Parigi col marchese di Uztaris, poi in Spagna per completare la propria educazione alla Reale Accademia Militare.

Roma: “vero testis temporum”,”nuntia vetustatis”,”vita memorie”.

“L’esperienza storica di Roma, scenario del giuramento di liberare l’America Spagnola dall’oppressione”.

“Certamente, l’esperienza romana fondamentale per la generazione intorno al 1800 – l’ultima profonda e universale che Roma abbia potuto offrire – è il rapporto con la storia. Un’esperienza preparata dalla tradizione rinascimentale delle litanie letterarie sulla vanitas e dai brividi pittoreschi delle rovine, ma approfondita e generalizzata dalla storiografia dell’illuminismo”.

(E. e J. Garms, Mito e Realtà di Roma nella cultura europea, in Annali della Storia d’Italia, Torino 1982).

Questa esperienza risulterà fondamentale anche per i due Venezuelani, i quali – per una curiosa coincidenza – giungeranno a Roma proprio l’anno in cui verranno scritti i testi che testimoniano nel modo più alto e illuminante quella straordinaria percezione della storia che offre Roma. Queste rappresentazioni letterarie, così fortemente emblematiche, sono opere di autori che Rodrìguez e Bolìvar, non potevano non conoscere bene: Chateaubriand e Wilhelm von Humboldt. (Si tratta delle famose lettere di Chateaubriand a Monsieur de Fontanes e di W. Von Humboldt a Goethe).

Le loro fondamentali considerazioni su Roma e la storia, Roma e il passato, Roma e il futuro, vengono svolte in scritti dalla forma rituale e semiprivata, nei quali il processo storico confluisce generando una ‘comunicazione’ che a sua volta diventa un vero e proprio ‘testo della cultura’; cioè un testo letterario che esprime e rappresenta, in quel determinato momento storico, un ‘modello culturale’. In questo modo la tradizione neoclassica e quella romantica si ricongiungono in una nuova formulazione del ‘mito’ di Roma, tappa culminante del voyage d’Italie.

L’esperienza di vita che suggerisce il rapporto di Roma con la storia è del tutto particolare. Roma “appare fatta per pochi, solo per i migliori” e “quando, finalmente, si mette a parlare a un uomo, egli vi trova il mondo intero”, esclama Humboldt. Nella celebre lettera a Goethe ribadisce i concetti in cui credeva profondamente e che, probabilmente, aveva più volte esposto nelle conversazioni.

“Roma è il luogo nel quale, dal nostro punto di vista, tutta l’antichità si raccoglie e si unifica, e ciò che sentiamo nei poeti antichi, nella struttura degli antichi Stati in Roma crediamo di poterlo osservare direttamente con i nostri occhi; così Roma è il simbolo della caducità delle cose e dell’unità del mondo. Qui per la prima volta, in feconda solitudine, si districano, nitide e calme,le forme del mondo; pensiero e  sensazione si  assottigliano fino alla chiarezza, malinconia e allegrezza trapassano serenamente l’una nell’altra…”

Roma appare come la sintesi emblematica dell’intero excursus della civiltà occidentale a venire: così è per Byron (*) nei versi de ‘Il Pellegrinaggio di Aroldo’ :

O Roma! O patria mia! città dell’alma!/ A te che sei la desolata madre/ D’imperi estinti, gli orfani di core/ Si  rivolgono pensosi….La Niobe dei popoli …. Spogliata / Di manto e serto, senza figli, muta / Ella qui sta, colle avvizzite mani / Sorregge un’urna vòta. Ahimè! La polvere / Sacra che racchiudea, volò dal soffio / Dei secoli dispersa…

Il Giuramento sul Monte Sacrato

La gloria di Roma, l’incomparabile saggezza delle sue leggi civili, rivivono allora, in tutta la loro grandezza, nello spirito del viaggiatore, già tanto bramoso delle letture classiche, come degli autori del XVIII Secolo. Per questo duplice canale l’Antichità e la Rivoluzione entrano insieme nel cervello di Bolìvar ed ivi si saldano in modo tale che non sarà più possibile disgiungere.

Don Simòn Rodrìguez tracciò quindi, un parallelo fra quell’episodio e la situazione dei popoli spagnoli-americani sotto il Re di Spagna, che lui voleva sostituire con un governo repubblicano di patrizi. Un parallelo forse azzardato, ma le parole del maestro colpirono il giovane rendendolo teso e avido di nobili ambizioni.

Il giovane Bolìvar , scrutando  l’orizzonte  alla luce del tramonto, pensò:

“…dunque questo è il popolo di Romolo e di Numa, dei Gracchi e di Orazio, di Augusto e di Nerone, di Cesare e di Bruto, di Tiberio e di Traiano? Qui ogni grandezza trovò il suo modello, ogni miseria la sua culla. Ottaviano si maschera sotto il velo della pietà pubblica per celare la sua indole malfidente e gli istinti sanguinari; Bruto affonda il pugnale nel cuore del suo protettore per sostituire alla tirannia di Cesare la propria; Antonio rinuncia alle mire di gloria per imbarcarsi sulla nave di una meretrice, non pensando né provvedendo ad alcuna riforma; Silla decapita i suoi uomini e Tiberi, fosco come la notte ed efferato come il delitto, trascorre il suo tempo fra piaceri e massacri. Per ogni Cincinnato vi erano almeno cento Caracalla, per ogni Traiano cento Caligola, per ogni Vespasiano cento Claudio. Questo popolo aveva tutto: fermezza nel passato, austerità durante la repubblica; depravazione al tempo degli imperatori; catacombe per i cristiani; coraggio per la conquista del mondo intero; ambizione per soggiogare tutti i popoli della terra; donne che trascinavano carri sacrileghi sul corpo dei padri; oratori capaci di entusiasmare le folle, come Cicerone; poeti come Virgilio, che seducevano i cuori con i loro canti; satirici come Giovenale e Lucrezio; filosofi senza carattere come Seneca e cittadini risoluti come Catone. A questo popolo non mancava nulla salvo il senso dell’umanità. Messaline corrotte, Agrippine senza cuore, grandi storici, famosi naturalisti, guerrieri eroici, proconsoli rapaci, sibariti licenziosi, qualità genuine e crimini infamanti: ma per emancipare lo spirito, per estirpare i pregiudizi, per elevare l’uomo, spronarlo alla lotta e perfezionare l’animo, possedeva ben poco, per non dire nulla. Qui la civiltà, che veniva dall’Oriente, si mostrò in ogni suo aspetto, manifestò tutti i suoi elementi: ma per risolvere il grande problema della libertà umana, sembrerebbe che non conoscessero la materia e che la soluzione di tale profondo problema debba aver luogo proprio nel Nuovo Mondo”.

E rivolto poi a Don Rodrìguz, Simòn Bolìvar dichiarò:

“Giuro davanti a voi, giuro sul Dio dei miei padri, su di loro e sulla patria, giuro sul mio onore, che non darò tregua al braccio né requie all’anima mia, finchè non avrò spezzato le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo!”

Il mito di Roma viene così a sancire il valore del ‘giuramento’ come gesto e come segno caratteristico dell’epoca. Il giuramento viene a rappresentare e a suggellare solennemente, in modo indissolubilmente congiunto, la duplice caratteristica di ogni azione o movimento rivoluzionario: il promesso esercizio di azione di distruzione e di edificazione; di eliminazione del passato e di fondazione dell’avvenire.

Così come la Roma antica aveva portato sul Monte Sacro il giovane Bolìvar a giurare la libertà per il suo popolo dal dominio della Spagna, qualche anno più tardi lo stesso Bolìvar e la guerra del suo popolo per l’indipendenza dell’America latina, saranno motivo di ammirazione  e porteranno il popolo greco a rafforzare la coscienza nazionale contro la dominazione turca.

Nel 1825 Ibrahim pascià, figlio di Mohammed Alì, soffocò prima la rivoluzione a Cassos e a Creta, poi sbarcò nel Peloponneso con un forte spiegamento di truppe. Per due anni, dal 1825 al 1827, Ibrahim portò la devastazione in quel territorio. Conquistata Missolungi (1826), caduta in loro possesso l’Acropoli di Atene, i turchi si resero padroni della Grecia continentale..

“L’esodo” leggendario di Messolongi accese in Europa nuova fiamma di solidarietà per la causa dell’ellenismo (inteso come “l’insieme dei greci”), spingendo ad intervenire personalmente nella lotta, uomini come Byron, che veleggiò verso la Grecia con il suo veliero “Bolìvar”  e morì proprio a Messolonghi o come Annibale De Rossi di Pomarolo conte di Santarosa  che nel 1824, con l’amico Giacinto Provana di Collegno, si recò a combattere per tale indipendenza morendo a Sfacteria il 26 aprile 1825 e che in una lettera al filosofo Victor Cousin scrisse:

“Amico mio, amo la Grecia, patria di Socrate, di un amore che ha in sé qualcosa di sacro. Il popolo greco, valoroso, buono, che è sopravvissuto a secoli di schiavitù, è fratello del mio popolo. Comuni le sorti dell’Italia e di Grecia, e dato che non posso far nulla per la mia patria ho il dovere di dedicare i pochi anni di vigoria che ancora mi restano a questa nobile causa”.

Nel 1944 il poeta Nikos Eggonopuolos riproporrà la figura di Simòn Bolìvar nel suo poema “Bolìvar, un poema greco”, che verrà musicato nel 1967 da Nikos Mamangakis.

Nikos Mamangakis, nato nel 1929 a Rethimno (Creta), frequenta il Conservatorio di Atene e quindi studia composizione con C.Orff e H.Genzmer a Monaco di Baviera, musica elettronica con J.A.Riedl agli studi Siemens, per poi tornare ad Atene, dove oggi vive. E’ stato premiato per la sua attività dal Governo Greco, dalla Hochschule di Monaco e dalla Città di Berlino. Nelle sue opere degli anni 60 e 70 si ispira alla ricerca della scuola di Darmstadt, ma la sua attività viene resa difficile dall’avvento in Grecia del regime militare. E’ un periodo di crisi dal quale l’Autore esce gradualmente, affrontando la composizione di ampie opere teatrali e di musiche per film, tra i quali Felix Krull di Thomas Mann (6 ore di durata), Heimat di E.Reitz (18 ore) e Heimat II (26 ore). Recentemente la sua produzione si è molto allargata nel campo della musica da camera, sinfonica e corale. Mamangakis è considerato tra i “grandi” compositori di origine di origine greca, insieme a Xenakis,Skalkottas e Christou.

In una intervista, Eggonopoulos dichiarò che la stessa influenza che ebbe il suo “Bolìvar” durante l’occupazione tedesca, la ritrovò nei sette anni che durò la dittatura dei colonnelli di Papadopuolos, che terminò con l’occupazione studentesca del Politecnico d’Atene.

All’inizio la giunta affrontò l’occupazione con moderazione ma poi, temendo un diffondersi del movimento di opposizione, nella notte tra il 16 e il 17 novembre 1973, ordinò alla polizia e ai carri armati dell’esercito di fare irruzione nel Politecnico, violando la tradizionale immunità dell’ateneo. Non si conoscono con esattezza le cifre, ma si calcola che siano stati almeno trenta i ragazzi uccisi e molti di più quelli feriti e arrestati. L’insurrezione del Politecnico contribuì ad accelerare la caduta di Papadòpulos. Un colpo di stato era già stato pianificato dal generale di brigata Ioannìdis, il capo dell’odiata polizia militare, che disapprovava i seppur timidi passi intrapresi da Papadòpulos verso la democratizzazione. Dopo la destituzione di Papadòpulos, il potere si concentrò nelle mani dell’aggressivo generale Ioannìdis, il cui tentativo di golpe contro il presidente cipriota, l’arcivescovo Makàrios, nel luglio 1974 provocò di fatto il crollo della giunta e il ritorno alla democrazia in Grecia.

Verrà presentato il 23 gennaio, presso il Polo Psicodinamiche di Prato, l’opera Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, edito da Aracne di Roma, nella prestigiosa collana L’immaginale, diretta da Ezio Benelli, con prefazione di Davide Rondoni e preludio di Irene Battaglini, il nuovo saggio di Andrea Galgano, poeta e critico letterario, docente di Letteratura presso la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato. La consonanza e la difformità di Leopardi e di Pascoli, non messe a confronto ma viste attraverso trascrizioni in parallelo, sono la testimonianza di una concezione dell’esistenza, in cui il legame tra l’io e il mondo è immerso in una commistione irrisolta: l’analisi è esplicata da Andrea Galgano attraverso un dialogo tra i due autori, ascoltati con le voci del poeta–docente e del poeta–fanciullo che, in una sorta di regressione psicodinamica, scoprono l’essenza e la consistenza delle cose. In questa situazione di mancanza o di assenza, che riguarda sia il rapporto tra uomo e natura sia quello tra uomo e storia, la realtà non risulta marginalizzata; c’è anzi nel percorso teorico e nell’esperienza poetica di Leopardi e di Pascoli un’apertura nei confronti del reale, in cui il punto di partenza è sempre l’esperienza sensoriale, attraverso la quale l’io si concepisce in azione, in rapporto con l’esterno. Alla presenza del dott. Ezio Benelli, psicologo e psicoterapeuta, direttore della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, interverranno il prof. Giuseppe Panella, scrittore, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa e Adriana Gloria Marigo, poeta e critico letterario, Padova-Luino.

Modera Irene Battaglini, pittrice e docente di Psicologia dell’Arte, alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato .

Andrea Galgano (1981), poeta e critico letterario, è nato e cresciuto a Potenza. Laureato in Lettere Moderne con una tesi in letteratura italiana moderna e contemporanea, collabora con il periodico on-line Città del Monte, per il quale è editorialista e curatore di poesia e letteratura. Al Polo Psicodinamiche di Prato è docente di letteratura presso la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm e fondatore e direttore responsabile di «Frontiera_di_pagine_ magazine_on_line», coordina il progetto di ricerca sul senso religioso in Giacomo Leopardi per International Foundation Erich Fromm e lo sviluppo dei processi di formazione letteraria nelle professioni intellettuali per la Scuola di Psicoterapia Erich Fromm. Ha scritto un libro di poesie Argini (Lepisma editrice, 2012, prefazione di Davide Rondoni) ed è membro del comitato scientifico della collana “L’immaginale” per Aracne editrice, Roma, per la quale ha pubblicato i saggi Mosaico (2013) e Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido (2014, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini), poi assieme ad Irene Battaglini il volume Frontiera di Pagine (2013) che raccoglie saggi e interventi di arte, poesia e letteratura e il catalogo Radici di fiume (Polo Psicodinamiche, 2013), un intenso percorso simbiotico di arte e poesia.

L’Italia sta per essere attraversata da “La freccia della poesia”. Il prossimo 6 dicembre, ovvero il sabato che apre il ponte dell’Immacolata, è in programma la prima azione poetica finalizzata a risvegliare l’Italia attraverso la cultura, e in particolare la poesia, promossa dal Grand Tour poetico Nazionale nell’ambito del Progetto Mitomodernista lanciato di recente da Tomaso Kemeny, con analoghe finalità.

La freccia della poesia è un treno che percorrerà lo Stivale il portando la poesia come un dono natalizio nei non luoghi: le stazioni ferroviarie. Si fermerà in ogni stazione prevista dalle soste del freccia rossa (Napoli, Roma, Firenze, Bologna e Milano) per leggere e suonare, ogni volta per circa un’ora, fra i viaggiatori in transito.

Il poetico convoglio partirà da Napoli la mattina del 6 dicembre alle 9,10 e ad ogni stazione saliranno altri autori per arrivare la sera a Milano, dove oltre al reading è prevista la presentazione del Grand tour poetico e l’alleanza con il Progetto Mitomodernista di Kemeny. Questi gli orari della “Freccia della poesia”: Napoli partenza ore 9 arrivo a Roma ore 10,10; Roma partenza ore 11,20 arrivo a Firenze  ore 12,51; Firenze partenza ore 14,30 arrivo a Bologna ore 15,35; Bologna partenza ore 16,38 arrivo a Milano ore 17,40.

L'azione mitomodernista – “Freccia della poesia” si concluderà nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, luogo reso leggendario dalla “Rissa in galleria” di Umberto Boccioni (1910, opera ora custodita nella Pinacoteca di Brera), raffigurazione pittorica che evoca un'azione futurista del primo Novecento, finalizzata come tante altre a interrompere il sonno dei poeti e degli artisti scatenando la loro creatività.

La “Freccia della poesia”, a sua volta, punta a riportare la locomotiva della poesia sui binari del paese Italia, per lanciarsi assieme alle altre componenti della società verso un futuro tutto da costruire, oltre la crisi di valori che ha permeato l’ultimo decennio.

Tutti i poeti e i musicisti possono partecipare alla prima azione mito modernista. Bisogna specificare: nome cognome, da quale stazione si intende partire e i recapiti. Ogni autore dovrà travestirsi poeticamente e selezionare alcuni testi di poeti della tradizione e tre testi propri da leggere nelle stazioni. I musicisti faranno libere esibizioni. Ogni partecipante, inoltre, porterà con sé alcuni testi poetici suoi o della tradizione da offrire ai viaggiatori in dono, con l’intestazione: “Un dono dritto al cuore: Freccia della poesia 6 dicembre 2014, fight for beauty!”.

“La Freccia della poesia” annuncia anche la prossima partenza del Grand tour poetico nazionale (iniziativa della neonata associazione Camminarte fondata da tre poeti delle diverse aree d’Italia: il comasco Pietro Berra, la romana Flaminia Cruciani e il barese Gianpaolo Mastropasqua), che prenderà il via nel 2015 in una data e da un luogo fortemente simbolici: il prossimo 21 marzo, giornata mondiale della poesia ma anche compleanno di Alda Merini, da Como, “porta d’Europa” da cui tradizionalmente partivano i Grand tour dell’Ottocento, quelli dei Goethe e degli Stendhal, nonché città di cui è originaria la famiglia Merini e dove esiste uno straordinario ex manicomio, sorta di mondo a sé stante immerso in 300mila metri quadri di parco, ideale per ospitare la prima tappa dedicata al tema “poesia e psiche”.
Il Grand tour, mosso dall’intenzione di riportare la poesia alla gente, come elemento vivificante non solo delle coscienze, ma anche dei luoghi e delle nostre vite, proseguirà scegliendo sempre location e date di particolare significato: tra le altre, Torino ospiterà “poesia e cinema”; il Salento “poesia e migranti”; la Sardegna “poesia, natura e lavoro” …

lo spirito del Natale chesterton

Da qualche tempo le mie collaborazioni giornalistiche (sempre freelance) si sono indirizzate verso le recensioni di libri, pertanto in prossimità del Santo Natale, non sono riuscito a fare meglio che presentare un volumetto cheoffre al lettore una selezione di testi in prosa di Gilbert Keith Chesterton dedicate al Natale. A pubblicare questi eccezionali scritti ci ha pensato l’anno scorso D’Ettoris Editori, brillante casa editrice di Crotone, col titolo: “Lo spirito del Natale”. Chesterton è uno dei più grandi scrittori inglesi, nato a Londra in una famiglia anglicana, convertito al cattolicesimo, alla sua morte, sarà ricordato come “dotato difensore della fede cattolica”, da Pio XI.

In questa raccolta di testi, Chesterton, “ci mostra e ci fa gustare - scrive Fabio Trevisan nella presentazione - il paradosso della grotta, facendoci anche assaporare la riscoperta di tutte quelle cose che, ritenute di poco conto dal mondo, in realtà celano nell’umiltà il DivinoBambino”. Chesterton dinanzi alla Sacra Famiglia ci invita a contemplare il mistero della natività “tramite un quadro, una composizione di luogo che è al tempo stesso pittorica e mistica, realistica e palpitante”. Infattilo scrittore inglese è anche un poeta illustratore, alle parole accosta anche le immagini di alcuni dipinti famosi, tra i quali quelli del Veronese e del Tintoretto. Peraltro il libro pubblicato dalla D’Ettoris Editori, presenta alcune tavole che riproducono quadri celebri.

La raccolta chestertoniana curata da Maurizio Brunetti, all’inizio, presenta l’elogio dei canti tradizionali di Natale che risale al 1901. Canti che risalgono al Medioevo e che Chesterton “contrappone alla durezza dei teologi e all’ottusità del mondo moderno, che preferisce chiacchierare allegramente in mezzo a tanti rumori infernali della metropolitana piuttosto che ascoltare quei canti che‘rappresentano gli ultimi echi di quel vagito che ha rinnovato il mondo’. In questa antologia scrive Trevisan non mancano critichenei confronti del “mondo scientifico”, freddo e presuntuoso che, “attraverso norme ferree salutistiche, vorrebbe impedirgli di gustare le prelibatezze culinarie del periodo natalizio, come il pudding, il tacchino(…)”. Chesterton prende di mira il cosiddetto vegetarianismo da salotto, ma anche la pace di marca tolstojana, dove convergono sia gli animalisti che i pacifisti. Pertanto “il sano realismo cristiano di Chesterton affonda le mani e la faccia in tutto quel ben di Dio, in ciò che Dio vide che era cosa buona, come il tacchino mangiato in casa Craticht nel Canto di Natale dell’amato Charles Dickens”. Inoltre Chesterton non manca di fare rimbotti ironici scherzosi, nei confronti di quei “restauratori del Medioevo”, che sono intenti a catalogare costumi, ballate e tanto altro, il nostro, avrebbe preferito che costoro “piuttosto che limitarsi a una sterile rievocazione dei tempi della cristianità, avessero profuso uguali energie a farli rivivere, proprio come la figura del re umorista AuberonQuin (…) nonché il ripristino delle cose belle, piccole e passate”.

I quadri degli artisti del Cinquecento dimostrano che “ciò che era potuto accadere un tempo può accadere anche oggi, costantemente”. Infatti scrive Chesterton: “Se il Tintoretto, o il Veronese, ha dipinto se stesso, la sua famiglia, i suoi amici, il suo cane, nella stessa stanza della vergine e del Bambino, era perché pensava che queste cose potessero stare insieme in una stessa stanza”.

Importanti le splendide riflessioni di Chesterton riguardo ai Re Magi e soprattutto all’importanza del significato teologico del dono, e a chi criticava lo scambio dei doni a Natale, rispondeva con queste parole: “I tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. Se avessero portato con sé solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana”.

La raccolta degli scritti natalizi offrono diversi spunti di riflessione sulla superbia dell’uomo moderno e dei suoi super-saggi, che si contrappongono sempre più all’”umiltà della caverna e al passo docile e retto dei Tre Uomini Saggi, i Re Magi”.

Del resto i primi decenni del XX secolo erano pervasi dall’odio ideologico, dalle guerre e il cristianesimo era sempre meno punto di riferimento e la fede sembrava vacillare. In questo clima il Natale doveva scomparire, era un relitto del passato. “Il mondo moderno nella sua Rivoluzione, - scrive Trevisan - nella sua pretesa superba di cambiare il mondo aveva dimenticato il Bambino; aveva dimenticato la famiglia proprio perché si era scordato della Sacra Famiglia”. Pertanto si registra uno scontro, tra il vero spirito del Natale e quello nuovo modernista, così che Chesterton potrà scrivere: “Il Natale è assolutamente inadatto al mondo moderno. Presuppone la possibilità che le famiglie siano unite, o si riuniscano, e persino che gli uomini e le donne che si sono scelti si parlino(…) Il Natale giudica il mondo moderno, perciò vogliono che se ne vada”.

Il grande scrittore inglese auspica che il Natale, possa convertire il cuore dell’uomo e che soprattutto diventi più domestico, occorre guardare sempre più alla Sacra Famiglia, alla famiglia umana. Il Natale ci fa scoprire il vero umanesimo, che può essere solo cristiano. “Non c’è Cristo senza umanesimo, ma ogni umanesimo è cristiano”, scrive nella prefazione, monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara . Per il prelato sono interessanti le osservazioni che Chesterton fa, “sulla riduzione naturalistica, moralistica, sociologistica, che elimina il Mistero delle stesse feste cristiane e le sostituisce con feste pseudo-cristiane e che Chesterton, in anticipo di cinquant’anni, denuncia sottolineando l’equivoco che evidenzia la festa dell’inverno invece che quella del Natale, pure significativa è la fine del presepe, sostituito da riti più o meno paganeggianti”.

Tuttavia Chesterton aveva capito che ormai la cristianità occidentale stava scomparendo o almeno si stava suicidando, “riducendo il cristianesimo a un marchingegno umano”, in questo modo per monsignor Negri, la civiltà occidentale distruggeva se stessa, ma anche “la sua esigenza di umanità, di verità, di bellezza di bene, di giustizia”. A questo punto si può sostenere quello che profeticamente ha anticipato Benedetto XVI: “l’apostasia dell’uomo da Cristo finisce per diventare l’apostasia dell’uomo da se stesso”.

 

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Il prossimo 24 ottobre 2014 alle ore 18.30, presso la Libreria Mondadori Multicenter Duomo (Milano), si terrà la presentazione del libro “RENATO AMORUSO. Il Colore dei Sentimenti Umani” di Lucrezia De Domizio Durini.

L’autrice racconta il famoso pittore Renato Amoruso e la ricerca artistica che, avulsa da ogni forma di omologazione, contrassegna da sempre il suo percorso esistenziale ed il suo modo del tutto solitario e originale di vivere la pittura, sua compagna di vita. Infatti, l’artista ritiene la pittura come quella zona intima dell’uomo, già definita da Aristotele “la forma dell’anima”.

Renato Amoruso, che vive e lavora a Firenze, è un artista dall’innata creatività, che esprime magistralmente in opere di alto profilo, attraverso un viaggio ricco di fantasmagorici colori rivolti alla Natura, i quali si rispecchiano nel suo universo onirico. Le sue opere, libere da ogni titolazione, sono la rappresentazione dei sentimenti umani, valori eterni in una dimensione di Arte Totale.

Il libro “Il Colore dei sentimenti Umani” contiene testi nelle quattro lingue: Italiano - Inglese- Francese - Spagnolo di Lucrezia De Domizio Durini, degli Storici dell’Arte Gérard-Georges Lemaire, Pilar Parcerisas e Marisa Vescovo. Pubblicato da Electa, è composta da 336 pagine e 170 immagini a colori.

La partitura musicale “Il colore dell’Anima” è del Maestro Marco Rapattoni e le poesie dell’artista Aldo Roda.

Inoltre, per l’occasione, verrà presentato, in anteprima internazionale, il film del regista Stefano Odoardi, con la collaborazione di Lucrezia De Domizio Durini, dal titolo “I colori del sentimento umano”.

Lucrezia De Domizio Durini, autrice di questo interessante libro, è un’artista eclettica che opera da circa quarant’anni nell’ambito della Cultura internazionale nelle diverse vesti di giornalista, scrittrice, curatrice, nonché di collezionista ed editrice di opere d’arte. Si può considerare un’operatrice culturale indipendente, che ha fatto dell’Arte, della Cultura e delle tematiche umanitarie ed ambientali lo scopo primario della propria esistenza. L’artista ama definirsi “collezionista dei rapporti umani”.

La sua prima sfida risale alla fine degli anni sessanta, con l’apertura dello Studio L.D. di Pescara, una casa-galleria strutturata da Getulio Alvani, Ettore Spalletti e Mario Ceroli.

Prestigiosa organizzatrice di mostre di artisti di notevole spessore, da Burri a Fontana, da Capogrossi a Pistoletto, propone la Pop Art americana e il Costruttivismo internazionale.

Nel suo percorso, fondamentale l’incontro con l’artista tedesco Joseph Beuys, grazie al quale nel 1974 nasce la sua prima discussione “Incontro con Beuys”. La De Domizio Durini, in totale empatia con il Beuys, diventa una studiosa dell’intera filosofia beuysiana, filo conduttore della sua attività svolta a salvaguardia dell’ambiente e in difesa antropologica dell’uomo e della sua creatività.

Negli ultimi quindici anni, le campagne abruzzesi rappresentano per l’artista il suo rifugio più creativo.

Dopo la morte nel 1986 dell’artista tedesco, Lucrezia De Domizio Durini dedica tutte le sue energie alla diffusione universale del pensiero beuysiano attraverso ogni forma di comunicazione, fra conferenze, pubblicazioni, convegni, mostre presso i vari musei internazionali. Inoltre, è autrice di ventisei libri dedicati a Joseph Beuys, fra i quali “Il cappello di feltro”, tradotto in sette lingue e adottato come libro di testo in famose accademie ed università italiane.

Promotrice di diverse iniziative, fra le quali il progetto decennale “Free International Forum”del 2003, ha ricevuto molte onorificenze, fra esse quella di Cavaliere dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana” dal Presidente della Repubblica e “La medaglia al merito della Cultura”, assegnatole dalla città di Sarajevo.

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