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Un’atmosfera di magia ha pervaso, martedì 13 dicembre, il salone dell’I. C. “A. Rosmini” di Crotone, in occasione della presentazione di Elementhal – I misteri del Regno di Viland.

Ludovica Fisco, autrice esordiente di questo sorprendente fantasy, ha soltanto undici anni e una fervente immaginazione, alla quale ha dato sfogo nel migliore dei modi.

Da sempre affascinata dal mondo dei libri e della scrittura, Ludovica decide che il tempo dei racconti e delle poesie composte nel tempo libero doveva lasciare spazio a qualcosa di più ardito e, dopo vari tentativi, approda all’idea di Elementhal.

Poteri magici, streghe buone, animali fantastici, questi gli ingredienti del magico Regno di Viland, pieno di boschi e foreste incantate che fanno da sfondo a una storia in cui valori come l’amore per la famiglia e per gli amici vengono usati come unica arma per sconfiggere il male.

Un messaggio profondo, quello che l’autrice vuole mandare e di cui tutti dovremmo fare tesoro, raccontato con uno stile semplice e fluente, che incanterebbe qualsiasi tipo di pubblico.

Con risoluta fermezza e un entusiasmo contagioso la portentosa Ludovica si è fatta avanti con il suo manoscritto alla D’Ettoris Editori, conosciuta tramite uno dei tanti progetti scolastici organizzati dalla Fondazione D’Ettoris, la quale ha deciso di intraprendere lo stimolante viaggio che ha portato alla stampa del volume, dotandolo, inoltre, di una veste grafica vivace e accattivante.

Una giornata all’insegna della cultura e della fantasia, quella svoltasi in onore della piccola autrice, alla quale hanno partecipato il sindaco Ugo Pugliese, l’Ass. alla Cultura Antonella Cosentino, nonché alcuni personaggi del panorama letterario crotonese come Elio Cortese e Maria Ussia Presidente dell’UCIIM.

Nel corso della manifestazione, la talentuosa Ludovica si è aggiudicata un elaborato attestato di merito consegnatole da parte del sindaco e della Preside Ida Sisca “per l’impegno profuso nella stesura del libro Elementhal” accompagnato dall’augurio di non abbandonare mai la passione per la scrittura sinonimo di vita.

“La chiamata di Ludovica per la presentazione del suo libro mi ha emozionata, ma non sorpresa, perché mi aspettavo da lei qualcosa di grande”, queste le parole di Mariella Fusto, l’affezionata maestra elementare di Ludovica che, visibilmente molto emozionata, ha regalato ai presenti in sala una descrizione molto dolce del suo ricordo di Ludovica e del suo percorso letterario fin da piccolissima, sicura, come tutti, che la giovanissima sia destinata a raggiungere vette sempre più alte e che Elementhal sia solo il primo gratificante esordio.

Con quest’ultimo volume la casa editrice inaugura Fiabilandia, una collana di libri per ragazzi scritti da loro stessi, infatti “nessuno meglio di un bambino può scrivere un libro per bambini, perché proprio nei bambini è insita quella fantasia che nei grandi è più difficile trovare”, sostiene con giusta genuinità Ludovica, garantendo di fronte a parenti e amici che Elementhal è solo il primo di una trilogia!

Ancora una volta la sfida per un futuro più florido è in mano ai giovani, ma quella ancor più ardua consiste nelle possibilità che saremo in grado di mettere a loro disposizione, per farli esprimere al meglio delle loro capacità, giacché “Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini” (D. Bonhoeffer).

Il poeta, scrittore e critico letterario Rodolfo Vettorello non finirà mai di sorprendermi… Nei giorni scorsi, proprio in occasione dell’intervista che andrò a proporvi, ho scoperto che nel suo nutrito bagaglio di artista eclettico e di rara sensibilità, c’è anche il “doctor smile”, ovvero la simpatica figura vestita da medico, che insieme ad altri bravissimi volontari, si aggira periodicamente all’interno dei reparti pediatrici, per divertire i piccoli pazienti ricoverati, a volte per motivi banali, oppure, quando la sorte è ancor più ingrata, per gravi patologie. Riuscire a far sorridere un bambino sofferente è un gesto nobile ed apprezzabile, poiché nessun adulto di buon senso dovrebbe essere in grado di sopportare il dolore dei più piccoli, reagendo  con indifferenza.

Così, per anni e fino al 2005, Rodolfo Vettorello, nell’attività di volontario presso l’ABIO (Associazione per i Bambini in Ospedale), si è improvvisato giocoliere, equilibrista e monociclista, dimostrando grandi capacità, che si aggiungono alle sue incontrovertibili qualità umane. Egli, laureato in Architettura, per anni ha svolto con successo la sua attività di progettazione di edifici privati e pubblici e di imbarcazioni da diporto, dimostrando in parallelo un forte interesse verso le arti letterarie ed in particolare la poesia.

Questo multisfaccettato percorso potrebbe apparentemente destare meraviglia; tuttavia, già attraverso il significato etimologico della parola greca poiesis, che significa creazione, è individuabile la lapalissiana dimostrazione di come sia coniugabile la passione verso le discipline umanistiche ad una forma mentis pragmatica, risultato di un percorso accademico di indirizzo in buona parte scientifico, quale la facoltà di Architettura. Va tuttavia sottolineato che quest’ultima pone al centro dei suoi studi il senso estetico, conservando in un certo qual modo una connotazione artistica e sociale.

Quindi, la poesia, intesa appunto come creazione,  trova una felice correlazione con quanto egli ha saputo creare, attraverso opere di tipo strutturale, nel corso di una lunga carriera professionale.

Rodolfo Vettorello inizia a scrivere poesie in giovanissima età e dal 1955 colleziona tanto di quel  materiale destinato ad essere rivisitato e rielaborato in un’altra stagione della sua vita, quella della maturità.

All’inizio del terzo millennio, dopo la conclusione dell’attività lavorativa, egli riprende un argomento tanto caro al suo cuore: la poesia, il componimento, al cui significato semantico si lega il suono dei fonemi; da essi deriva la similitudine con la musica, un’altra nobile espressione dell’arte in grado di trasmettere sensazioni, suggestioni e stati d’animo con particolare dolcezza evocativa; prova tangibile che esiste sempre una correlazione nelle azioni, come negli interessi.

Egli vince il suo primo concorso letterario al “Milano Duomo Lions Club” con la splendida lirica “Eutanasia” e questo sarà l’inizio di una serie interminabile di successi, premi e riconoscimenti, con i quali di pari passo crescerà il suo spessore artistico.

Rodolfo Vettorello è un poeta  estremamente sensibile, delicato, sempre pronto ad indagare in profondità nel suo animo, in un percorso introspettivo di ricerca e confronto, che lo accomuna universalmente agli altri, con i quali dialoga e nei quali si riconosce. Il suo latente pessimismo, un sottile male di vivere, ben celato da una carattere propositivo, travolgente e solare, rende la sua soave espressione poetica ancor più elegiaca, ma sempre accessibile, diretta, priva di inutili orpelli.

La visibilità ottenuta nel corso degli anni gli è valsa l’ammissione a diverse giurie di prestigiosi premi letterari e la partecipazione ad eventi culturali di una certa rilevanza. Scrive prefazioni e recensioni  e negli anni 2013/14 ha ricoperto l’incarico di Docente di Scrittura poetica presso l’UTE, Università della terza Età del “Lions Club di Milano”.

 

 Lei è laureato in Architettura, ma da una vita si dedica con sincera passione alle arti letterarie. Il   punto d’incontro fra le due discipline sta nel fatto che entrambe danno vita ad un qualcosa, seppur sostanzialmente diverso, mediante la creazione. Progettare imbarcazioni , per esempio, significa favorire la comunicazione e, per dilatazione semantica, la condivisione. La poesia è il più raffinato  strumento di condivisione di emozioni. Quindi, esiste davvero un filo conduttore tra le policrome  attività che caratterizzano il suo percorso?

Come ho ripetuto più volte in analoghe occasioni, ho sempre scritto e di narrativa e di poesia, ma questa passione ha sempre avuto un ruolo defilato e laterale per molteplici ragioni. La prima ragione è che mi è capitato un tempo di leggere una frase di Benedetto Croce, ripresa poi da Fabrizio De Andrè:  “ Fino ai diciotto anni tutti scriviamo poesie. Successivamente scrivono poesie solo i poeti e gli imbecilli.”  Non avrei mai voluto venire catalogato nella seconda categoria, per cui scrivevo e tenevo nel cassetto. Successivamente, la mia attività di progettista e di Direttore di Lavori di Grandi Opere mi ha fatto vivere nella realtà concreta, in cui le evasioni nella fantasia non sembravano tollerabili. Come per chi si occupa di cose così concrete come gli edifici, ho creduto che scrivere sarebbe stata considerata quasi una debolezza. Questo ho creduto sbagliando, poiché quando ho capito che la parola è l’arma più forte e potente di cui disponiamo, mi sono sentito finalmente libero di muovermi in questo contesto, cercando una mia collocazione plausibile. Subito dopo mi sono reso conto che l’immaginata antitesi tra il mestiere di architetto e quello di autore non ha senso alcuno. Tanto l’idea  di un edificio che quella di una pagina poetica derivano entrambe da una progettazione. A detta di qualche critico, le mie poesie, per rigore e correttezza formale, rivelano la loro origine da un progetto, esattamente come qualsiasi opera di architettura.

In quale momento della sua vita ha acquisito consapevolezza della sua naturale propensione alla poesia?

Non voglio affermare di avere avuto da sempre una propensione per la poesia, mi parrebbe inutile e vanaglorioso, anche perché porto da sempre con me l’incertezza di potermi definire poeta. Il mio residuo pudore mi obbliga a definirmi più semplicemente: autore. Ho avuto, viceversa, sin da ragazzo la certezza di possedere un orecchio poetico e posso dire di aver avuto una spontanea attitudine della metrica, prima ancora di averla studiata. Questo talento, comunque di poco conto, non poteva  bastare a farmi sentire poeta e forse nemmeno versificatore o paroliere. La passione per la poesia, letta e studiata, è venuta dopo e successivamente il desiderio di scrivere poesia, o qualcosa che potesse somigliarle.

 Arthur Schopenhauer affermava che la vita è come un pendolo, che oscilla tra il dolore e la noia. Egli considerava l’arte come una via attraverso la quale liberare e, forse, elaborare il dolore, attribuendo alla poesia il compito di rendere eterne le idee. Condivide la posizione del grande filosofo tedesco?

Sono per natura un pessimista assoluto, anche se questo non mi impedisce di godere dei piaceri della vita e di avere una mia allegria esistenziale a volte esagerata. A differenza di Schopenhauer, penso  che il pendolo della vita oscilli tra un dolore e un altro dolore. Solo la gioia insensata vince a tratti e per sprazzi il male. Da Leopardi ho  ereditato  l’idea che tutto è male, che l’universo è male, la vita è male ma di Leopardi non condivido la ribellione e mi adagio in una rassegnata accettazione, che aggancia in fondo il pensiero poetico di Eugenio Montale, uno dei miei poeti di riferimento.

Vorrebbe parlarmi della sua lirica Eutanasia, con la quale tanti anni fa ha vinto il suo primo concorso letterario?

Incomincia con la poesia Eutanasia la mia uscita allo scoperto come autore di poesia. Ho custodito per decine di anni quaderni e vecchie agende, in cui ho annotato fin dall’adolescenza i miei pensieri, poetici o meno; tante cose note solo a me stesso e spesso dimenticate. Una poesia in particolare, per essere stata scritta in bella calligrafia con una stilografica ad inchiostro verde mi capitava tra le mani a scadenze annuali, in occasione della pulizia di qualche cassetto d’ufficio. Una poesia di trent’anni addietro o quasi. L’ultima volta ho speso pochi minuti per rileggerla e apportare qualche limatura, prima di riporla nuovamente. Un giorno di circa dieci anni addietro mi è capitato di leggere, appesa al mancorrente di un tram, una locandina che pubblicizzava un Concorso Letterario bandito dal “Lions Club Milano Duomo”. Il Concorso ammetteva fino a cinque poesie per autore. Non ho tempo e voglia per cercare altre cose valide,  così spedisco la prima poesia che ho sottomano.  Eutanasia si classifica al primo posto tra almeno duemila partecipanti e un numero esagerato di poesie. Felicità per il Premio e ancora di più per aver potuto verificare una mia insperata attitudine alla comunicazione. Il Lions Club mi coopta, ne divento socio ed entro a far parte della giuria del Premio presieduta  da Carla Mursia.

Lei è di frequente membro di giuria nell’ambito di importanti premi letterari; quindi, sotto i suoi occhi passano centinaia di contributi letterari da valutare,(non uso la parola “opere”, troppo spesso inadeguata). Attraverso la sua esperienza, quale  idea ha maturato  in merito al livello culturale medio nel nostro Paese?

All’interno di tante giurie il mio compito prevalente è quello di leggere e votare poesie inedite singole, raccolte inedite e opere poetiche edite. Contrariamente a quello che si dice, e cioè che i più moderni mezzi di comunicazione di massa, come internet, sms e simili abbiano soppiantato la scrittura convenzionale, la facilità di pubblicazione offerta dalla rete ha fatto uscire allo scoperto tanti autori, o meglio, tanti scrittori occasionali. La grande mole dei prodotti letterari circolanti deve venire accuratamente vagliata per selezionare i migliori e per escludere i meno dotati. Sorprendentemente, è però abbastanza facile individuare nella grande massa i talenti veri da premiare, da incoraggiare, da accompagnare nel processo di affermazione. Importante è osservare che è proprio da una larga base partecipativa che, come accade negli sport, possono prendere evidenza le punte emergenti. Altra osservazione è che la partecipazione di tante persone che si confrontano tra loro attraverso i concorsi, consente la crescita personale, il miglioramento delle possibilità individuali  e l’accesso a gradini sempre più alti nel percorso creativo.

 

 Il suo impegno nella divulgazione della letteratura è indubbiamente lodevole, in un’epoca come la nostra, caratterizzata da un dilagante materialismo. Ma l’impegno del singolo dovrebbe essere anche sostenuto dai nostri amministratori. Ritiene che si potrebbe fare di più a livello centrale, nel promuovere iniziative a sostegno della cultura?

 Trovo che le possibilità offerte dalla rete, se hanno ampliato le possibilità di ognuno di emergere e affermarsi, abbiano operato anche  favorendo il miglioramento dei mezzi espressivi e quindi  ciò abbia giovato alle persone, singolarmente e alla società,  in generale. Certamente la cultura deve essere un tema prevalente nell’impegno politico, questo a partire dalla scuola e da tutte le iniziative che hanno bisogno di adeguati sostegni economici per non degradarsi e morire.

 Ho letto con notevole coinvolgimento alcuni suoi libri di poesie, dove ho notato un registro stilistico sobrio, puntuale e scorrevole,  che mi ha suggerito riflessioni circa alcune tematiche di forte impatto sociale. L’uomo del Terzo Millennio è sempre più solo?

Senza voler dare definizioni, che sarebbero sempre troppo parziali, di poesia posso solo introdurre qualche semplice considerazione che verrà di fatto a definire la mia nozione della stessa. La poesia è l’arte di scrivere in versi.  La frase può sembrare banale e scontata e invece il concetto è discriminante. Discriminante perché viene a escludere dal panorama della poesia chi scrive, ad esempio, con frasi ipermetri che, che non possono a nessun titolo essere definite versi. Verso non è una frase poetica qualunque, senza altra aggettivazione, che non sia una generica gradevolezza. Verso è la frase poetica che sia  per tradizione, che per esempi illuminati, rispetti peculiarità sperimentate  relativamente a quantità sillabiche e relative accentuazioni. Tale rispetto formale, del tutto estraneo all’ispirazione poetica, conferisce di fatto musicalità a ogni testo , la giusta armonia, il corretto ritmo e alla fine la memorabilità, cioè la possibilità di essere ricordata. Naturalmente, il rigore della forma non è di per sé la poesia, ma la perfezione formale aggiunge al miracolo dell’ispirazione poetica un surplus di modo, tanto che la forma diventa essa stessa valore e contenuto. Tutto quanto espresso non è, forse fortunatamente, universalmente condiviso e tanta poesia moderna e contemporanea è lontana da questa visione,  prediligendo immediatezze espressive differenti e finendo col determinare scuole di pensiero alternative del tutto rispettabili.

 Soltanto il lettore, il fruitore, è il giudice del prodotto poetico. La giustizia vera spesso non è quella di tanti Concorsi Letterari, anche di primo piano, che portano alla notorietà nomi che diventano importanti solo all’interno di confraternite omologate e autoreferenziali. La giustizia si fa sullo scaffale delle librerie dove il fruitore, dopo aver sfogliato qualche pagina, sceglie il libro da acquistare perché più leggibile e comunicativo.  L’autoreferenzialità citata non  paga. Paga solo, alla lunga, l’onestà intellettuale.  Ho perso il filo della domanda ma lo riprendo subito.  L’uomo del Terzo Millennio è sempre solo. Solo come è sempre stato in tutte le epoche passate e quelle che verranno. E’ la condizione umana che determina questa solitudine, ma è anche da questa solitudine e dalla ribellione  conseguente che deriva la creatività umana,  che non accetta di venire annientata. Da qui qualunque sogno, qualunque utopia, arte e poesia comprese.

Struggente il suo Adagio di Albinoni, una lirica del disincanto che leviga i sensi, citando il contenuto di un verso. Ognuno di noi ha un proprio cammino, ma secondo lei, le storie in fondo sono contrassegnate da un comune denominatore?

La poesia dei poeti maggiori, quella cui facciamo riferimento, quella che ricordiamo e che ci accompagna e ci consola, ha come valore vero la capacità di coinvolgerci e di farci sentire partecipi di emozioni, che appartengono anche alla nostra personale sensibilità. La grande poesia comunica valori universali,  poiché le vicende umane sono davvero contrassegnate da un comune denominatore, al di là dalla peculiarità di ogni singola esperienza.

Attraverso la poesia, opera sublime dell’uomo, il poeta e il fruitore entrano magicamente in comunicazione, a prescindere dalle rispettive culture d’appartenenza. Cosa fa scattare tale commistione di emozioni?

 Per far scattare il meccanismo della condivisione delle emozioni, al di là delle differenti culture di appartenenza e in parte anche al di là delle difficoltà derivanti dai diversi linguaggi, è la capacità comunicativa del poeta. Questa capacità deriva dalla sincerità dell’ispirazione e dal livello di talento dell’autore e dalla sua conoscenza dei modi e della misura della comunicazione. Il lettore diventa parte attiva nel processo della comunicazione per le scelte che opererà sui poeti, quanto a limpidezza di linguaggio ed emozione trasmessa, senza  cedimenti retorici  ed enfatici. La forma giocherà una parte importante, ma non determinante. Parte che sarà quella che andrà a subire il danno maggiore nel passaggio da una lingua ad un’altra.

Recentemente, nell’ambito del Premio letterario La Ginestra di Firenze, le è stato riconosciuto un Premio alla Carriera per meriti letterari. Una bella soddisfazione?

 Oltre la soddisfazione per  un riconoscimento che mi gratifica e lusinga la mia  vanità c’è il piacere  per l’omaggio reso all’interno di un Premio Letterario che si preannuncia di grande spessore, alla Poesia. La casa editrice Helicon, attraverso il Concorso e la selezione che ne è risultata, offre ad autori meritevoli di pubblicare senza oneri personali le loro opere, all’interno di collane dedicate. La Poesia riceverà da questa iniziativa una sicura promozione. La grande editoria, vedi Mondadori, ha chiuso la prestigiosa collana dello “Specchio” che aveva portato alla gloria del Premio Nobel autori come Quasimodo e Montale. Con questo la grande editoria ha abbandonato al suo destino la Poesia. Ultimo baluardo contro l’insignificanza della scrittura poetica, sono rimasti i piccoli e medi editori, come Helicon, che continueranno ad alimentare la vena per nulla sotterranea della Poesia.

I versi immortalati dai poeti antichi, da Omero in poi, hanno conservato intatta la loro forza attraverso i secoli. La nostra epoca cosa lascerà ai posteri, a parte l’ardua sentenza, parafrasando la famosa  lirica?

Periodicamente e con una certa insistenza si parla di morte della poesia, adducendo a spiegazione la facilità comunicativa enorme di altri mezzi di comunicazione come la rete , gli sms e tutte le possibili varianti. La Poesia, invece, nonostante le tante campane a morto, ha sempre trovato il modo di riprendere vita;anzi, come ho detto prima, proprio in questo periodo e proprio in queste condizioni la Poesia ha assunto un vigore che raramente ha conosciuto.

La rete, lungi dal danneggiare la comunicazione poetica, l’ha  incoraggiata e facilitata enormemente. Qualche schizzinoso dice, addirittura troppo; invece, la larga base determina un vertice più affollato e produttivo. Problemi quanto a seguito da parte degli autori non ce ne sono, semmai,  andrebbe  incoraggiata la lettura reciproca e l’editoria del settore. Grande veicolo questo sempre efficace, anzi, determinante, affinchè la Poesia possa mantenere  il suo ruolo, sempre.

 

 

 

 

Non è facile riprendere l'attività di giornalista freelance dopo le due pesanti “distrazioni” del mese di ottobre: il trasloco e il grave intervento subito da mia moglie, e siccome ci siamo scelti per stare insieme tutta la vita, potete immaginare il mio stato d'animo. Intanto mentre tutta l'attenzione di questi giorni si è concentrata sulle elezioni presidenziali americane, per restare in America, casualmente ho trovato il modo di studiare una straordinaria figura proprio degli Usa, il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente dei vescovi americani.

Ho letto un libro,“Un popolo di speranza”. Timothy Dolan in dialogo con John L. Allen Jr., Marcianum Press (2015, Venezia).

Il libro raccoglie interviste e discorsi dell'arcivescovo Dolan, curate dal giornalista americano Allen Jr. peraltro fatte alcuni anni fa durante il pontificato di papa Benedetto XVI. Allen nell'introduzione scrive che ha stabilito di costruire questo libro sul modello di “Rapporto sulla fede” (pubblicato nel 1984), il libro conversazione fra il più grande giornalista cattolico Vittorio Messori, e l'allora cardinale Joseph Ratzinger. Quel libro segnò la storia della Chiesa dell'ultimo quarto di secolo.

Il giornalista ha adottato il modello Messori; ha posto domande e poi ha permesso largamente a Dolan di parlare.“Questo è un libro 'con'Dolan, piuttosto che un libro 'su' Dolan”. Il libro di Messori intendeva tracciare delle linee guida, questa volta l'intento “è provare a spiegare ciò per cui il cattolicesimo è a favore piuttosto che ciò rispetto a cui è contrario”. Allen, in pratica cercherà “di fare un viaggio nell'ortodossia affermativa al fianco del leader cattolico che più la impersonifica in America”.

Per Dolan, l'ortodossia affermativa è una tesi suggestiva, significa presentare “i pilastri dell'ortodossia cattolica in chiave positiva. L'enfasi è data su ciò che il cattolicesimo appoggia e afferma, ciò per cui dice 'si', piuttosto che su quello a cui si oppone e che condanna”. Per Dolan bisogna presentare la dottrina cattolica in modo propositivo, non dire sempre no, o correggere in continuazione gli errori della gente, occorre sforzarsi a far vedere la bellezza e la positività dell'essere cristiani dell'essere credenti. Del resto questa era la tesi di papa Benedetto XVI, che lo si può considerare un conservatore, ma la sua preoccupazione maggiore è sempre stata quella di “reintrodurre sistematicamente i blocchi fondanti dell'ortodossia, cercando di rispolverarli dopo secoli di controversie e coperture legalistiche in modo da far splendere di nuovo i loro concetti positivi”. Papa Benedetto XVI, dopo aver analizzato la situazione culturale occidentale, in particolare quella europea, ha proposto l'ortodossia affermativa, l'unica alternativa,“per avere di nuovo attenzione è cercare di svegliare il profondo 'si' cattolico al di là della familiare litania delle cose che la Chiesa non approva”. Questo modo di presentare la fede era lo stesso di san Giovanni Paolo II e senza essere smentiti certamente è il metodo di papa Francesco.

Allen nella prima parte descrive chi è Dolan. Ripercorre brevemente la storia personale dell'arcivescovo di New York, ne esce fuori una figura estroversa, controcorrente, elenca i suoi amici, i suoi punti di riferimento, la sua formazione come storico, i suoi anni di parroco in parrocchia, il suo sempre rendersi visibile. Soprattutto Dolan è un uomo delle relazioni, sono famose le sue conversazioni intorno a una birra. Dolan anche da vescovo, diede molta importanza al suo essere fisicamente presente. Ogni mattina alle sette e mezza nella cattedrale di Saint Patrick e ogni domenica alle dieci e un quarto celebra la santa Messa.

La seconda parte del libro tratta delle sfide della Chiesa. Tra le sfide più infauste che ha dovuto affrontare ci sono quelle degli scandali degli abusi sessuali. Certo Timothy Dolan se dovesse tenere un discorso sula Chiesa cattolica preferirebbe indubbiamente iniziare dai fondamenti della fede, ma si rende conto che oggi nell'era postmoderna occorre affrontare i dubbi e gli interrogativi del pensiero popolare sulla chiesa cattolica. E' dagli anni 80 che la Chiesa deve affrontare questo tipo di scandali. “Messi insieme, rappresentano senza dubbio la crisi più seria che il cattolicesimo si è ritrovato ad affrontare negli ultimi cinquant'anni”. Il cardinale Dolan, non si tira indietro, ci mette la faccia. Si rende conto che si è radicata nella gente l'idea che essere sacerdote significhi essere un potenziale pedofilo, peraltro, “una terribile ingiustizia per la maggioranza di buoni sacerdoti che con gli abusi non ha mai avuto niente a che fare, ma anche un indice di quanto l'autorità morale della Chiesa sia stata seriamente compromessa”. Ormai da diversi studi sappiamo come certa stampa abbia esagerato nell'indicare come corrotti troppi preti. Ma la corruzione esiste eccome, non può essere liquidata semplicemente come un'isteria dei media. C'è chi dà la colpa degli abusi al crollo della disciplina e della fede che ha caratterizzato il periodo fra i primi anni '60 e i primi anni '80. Altri cattolici danno la colpa all'”incomprensibile gerarchia di potere della Chiesa, unita a una moralità sessuale repressiva e una poco realistica aspettativa sul mantenimento del celibato ecclesiastico”. Poi ci sono i laicisti che insistono sulla Chiesa che nega e segreta tutto, volendo stare “al di sopra della legge”. Secondo Allen ci saranno delle verità in queste prese di posizione e Dolan ne è consapevole, sa quanto la gente sia stata colpita dalla crisi degli abusi sessuali, ma è anche consapevole dell'impossibilità pratica di soddisfare tutti.

Tra le tante domande inquietanti che il giornalista ha posto al cardinale, c'è quella: “come avete permesso, in nome di Dio, che accadesse tutto ciò?”A costo di mettersi nei guai, se lo chiede anche Timothy Dolan. Comunque sia dopo tanto discutere e incontrare gente, alla fine, l'unica vera alternativa, l'unica cosa più efficace da fare è pregare. E Dolan cerca di convincere i suoi sacerdoti, la sua gente,“che, se lo facciamo con convinzione, ci sarà sempre speranza”. Il cardinale è convinto che la Chiesa non sarà mai perfetta. Anche se noi ci aspettiamo una Chiesa gnostica e perfetta.“Dobbiamo essere realistici senza rinunciare ai nostri sogni. La nostra attitudine tipicamente americana di puritanesimo e pragmatismo ci sproni a rendere tutto perfetto, non ce la potremo fare”

Un'altra sfida calda che la Chiesa americana deve affrontare è la questione delle donne. Ci sono anche ambienti cattolici che vedono la Chiesa come un “circolo maschile”. La Chiesa è rimasta l'ultimo bastione del patriarcato, dove la donna come moglie e madre sembra una copertura per impedire alle donne di fare carriera sia nel mondo laico che nella Chiesa. La discussione è abbastanza accesa, ma alla fine occorre porsi la domanda: “chi è che ha davvero un problema con la valorizzazione delle donne?”. Dolan a questo riguardo porta le sue esperienze formative nella Chiesa. Praticamente portano tutte l'impronta di donne forti e indipendenti, prime fra tutte le Sorelle della Misericordia. Peraltro per Dolan, le donne sono le vere artefici della cultura cattolica, sia nella vita familiare che in parrocchia. Pertanto per lui, “è inopportuno parlare del bisogno di dare importanza alle donne nella Chiesa, è un'idea che deriva da una lettura sbagliata di come la Chiesa funzioni davvero”.

Comunque sia per Dolan la Chiesa non è per niente maschilista, le persone più influenti della sua vita sono state donne: sua madre in primis, le sue due nonne, poi le suore a scuola. “Era una cultura dove tutti sapevano che le donne erano la vera forza delle famiglie, delle parrocchie e più in generale del cattolicesimo”.

Altro tema scottante è quello delle “questioni pelviche”, il libro conversazione di Allen si riferisce a tutti quei temi legati alla sessualità: l'aborto, il controllo delle nascite, i diritti dei gay, il matrimonio, il divorzio e il celibato ecclesiastico. Nel complesso, leggendo i giornali, negli ultimi cinquant'anni, sono problematiche sempre in primo piano. A cominciare dall'enciclica del 1968, l'Humanae Vitae, nella quale si ribadì la condanna della Chiesa nei confronti della contraccezione.

Dolan risponde alle accuse di omofobia nei confronti della Chiesa. In questo settore è molto utile l'approccio dell'ortodossia affermativa: seguendo l'insegnamento di Giovanni Paolo II, è convinto che quello che conta è “chi siamo, non quello che facciamo”. C'è una frase meravigliosa nell'esortazione Pastores Dabo Vobis, “in cui si dice che la grande tentazione di oggi è di definire il proprio valore in base a quello che si fa e che si ha, non in base a quello che si è”.E a chi ha un comportamento omosessuale, il cardinale consiglia la castità, che interessa anche chi è sposato regolarmente. Il cardinale non ha problemi di accoglienza per chi pratica l'omosessualità:“è un errore trattare gli omosessuali come un caso particolare - per il cardinale - Sono molte le situazioni nelle quali le persone possono venire meno agli insegnamenti della Chiesa”. A questo punto dovrebbero far parte della Chiesa cattolica solo i santi o i figli dei santi. Tuttavia Dolan ribadisce che tutti sono benvenuti alla Messa domenicale anche i gay, ma nello stesso tempo devono sapere che parte di essa“è dedicata ad una chiara esposizione degli insegnamenti di Gesù così come li ha compresi la Chiesa nell'arco di duemila anni”. In particolare la dottrina sul matrimonio che può essere espresso tra un uomo e una donna. E pertanto,“qualsiasi altra forma di piacere sessuale al di fuori di esso è qualcosa al di sotto delle aspettative di Dio”. Dunque “preparati ad arrabbiarti quando ti parlerò del piano di Dio nei confronti della sessualità, perchè è anche questo parte del Vangelo, e non sarai totalmente a tuo agio nel sentire certe cose”.

All'interno del capitolo, “fede e politica”, il cardinale, affronta il tema della destra e della sinistra, del partito democratico e repubblicano. Dolan sembra prendere le distanze da entrambi gli schieramenti. Anche se sulla questione “fede e valori”, non si può negare che i repubblicani dovrebbero essere più vicini alle posizioni cattoliche. Il cardinale Dolan non è disposto a transigere sulla questione aborto,“è la prova del nove della fedeltà dei cattolici negli Stati Uniti”. Per Dolan la pratica abortiva, non sarà mai dimenticata, anche se in Europa, ormai da tempo non è tra i temi più importanti. Anche Dolan ribadisce una verità fondamentale sulla questione aborto.“Non voglio che il dibattito sull'aborto venga percepito come interessato solo ai cattolici, o ai vescovi cattolici, che tentano di inculcare nella gente la loro visione moralistica”. Dolan insiste, “è una questione di diritto dell'uomo, di diritto civile e giustizia sociale. E' qualcosa che rimanda ai principi fondamentali sui quali venne fondata questa repubblica”. Pertanto, “ogni nostra mossa che la faccia sembrare una 'questione cattolica' non fa altro che aumentare i cartelli: 'Allontanate i vostri rosari dal mio utero'. Dunque il cardinale è molto chiaro sull'aborto, sui matrimoni gay, “sono questioni di diritti dell'uomo, di legge naturale. In altre parole non stiamo cercando di imporre delle convinzioni religiose al resto del paese”. A questo proposito il cardinale è brillante quando sostiene: “se promuovessi un emendamento della costituzione che bandisse gli hamburger nei venerdì di Quaresima, allora potresti dire con tutte le ragioni che sto tentando di imporre gli insegnamenti cattolici alla società americana”. Per difendere la vita umana non devi essere un uomo di fede, un cattolico, o ebreo, basta essere americani. Ad un politico che gli chiedeva come poter far valere i valori cattolici sugli altri, il vescovo di New York gli risponde con un aneddoto:“se come politico cattolico favorisci delle leggi contro le rapine, starai tentando di imporre i tuoi valori cattolici sul resto del paese? No. E lo stesso vale sull'aborto”.

Peraltro sembra che il voto cattolico nelle ultime elezioni presidenziali americane, sia stato influenzato dalla questione aborto. La maggioranza dei cattolici statunitensi, ma anche gli evangelici, hanno votato per Trump, che nel suo programma si era dichiarato contro l'aborto, mentre la Clinton era favorevole, anche al nono mese, fino a un giorno prima della nascita del bambino.

Nela terza parte del testo, si approfondisce l'argomento, fede e vita cattolica. E' qui che il giornalista americano paragona Dolan a papa Giovanni Paolo II. Sono numerose le qualità in comune con il papa polacco: una certa personalità spavalda e coraggiosa, da duri, un senso umoristico, abilità innata nella comunicazione, una sorta di “rock star” di entrambi, un solido senso di identità, entrambi orgogliosi di essere americano e polacco. Ecco perché Allen confessa di aver pensato di intitolare il libro proprio il Wojtyla americano.

 

Venerdì 25 novembre 2016 presso l’”OSPITALE SAN GREGORIO” di Sacile (Pordenone), con il Patrocinio della Città di Sacile, avrà luogo l’inaugurazione della Mostra “MEMORIE DAL TERREMOTO” DALLA DISTRUZIONE ALLA RINASCITA, organizzata  in occasione del 40° Anniversario del terremoto in Friuli, sempre vivo nella memoria di tutti.

L’evento , ideato e promosso dal Gruppo Culturale “Il battito”, si articolerà in una mostra commemorativa e nella presentazione del libro “Pietra su Pietra – Dalla distruzione alla rinascita” (Ed. Publimedia).

Con semplici ma sentite pagine di riflessione, fra racconti, poesie, ricordi ed interviste, il libro rievoca, insieme alle vittime e all’immenso dolore provocato da questa immane tragedia che colpì il Friuli, anche la determinazione e la ferrea volontà dimostrata dai propri abitanti, nella difficile fase della ricostruzione e della rinascita. Quindi, un momento di profonda commozione fra tutti i promotori di questa interessante iniziativa, condiviso fra immagini e ricordi, anche per riflettere su un evento naturale, che purtroppo  periodicamente  si ripete nel nostro Paese, colpito ancora duramente in questi ultimi mesi da violenti terremoti. Nasce ,quindi, spontanea la constatazione da parte di tutti circa la condizione d’impotenza dell’uomo dinanzi a tali fenomeni naturali, che in un attimo possono creare vittime e danni materiali incalcolabili.

Nella prefazione del libro “Pietra su Pietra – Dalla distruzione alla rinascita” l’Assessore alla Cultura del Comune  di Sacile Carlo Spagnol  ha scritto: “Quel terremoto del ‘76 va ricordato come tra i più violenti che colpirono l’Europa dei nostri tempi. Una vicenda che segnò profondamente i territori e la nostra gente e la cambiò nel modo di comportarsi, di pensare e di stare con gli altri. Una storia di persone che hanno vissuto la paura, la distruzione, lo sconforto e che hanno perduto tutto. Allo stesso tempo, è una vicenda che racconta la grande capacità di recupero, la generosità, la solidarietà e la voglia di ricostruire quanto prima tutto, come prima e dov’era prima. Questo va ricordato, poiché oggi è più che mai necessario recuperare le testimonianze e gli esempi, in particolare tra le nuove generazioni, affinchè sappiano reagire ai momenti di difficoltà che la vita pone loro di fronte. L’Amministrazione Comunale rivolge un particolare ringraziamento al gruppo culturale “Il battito”, che con queste pubblicazioni regala pagine di ricordi e riflessioni ricche di significato.”

Il gruppo culturale “IL battito”, nato nel 2011 presso la BIBLIOTECA CIVICA ROMANO DELLA VALENTINA  di Sacile, avendo tra le sue finalità la divulgazione dell’identità culturale e storica del proprio territorio, ha voluto così rendere omaggio alla dolorosa memoria del terribile sisma che tutti ricordiamo. Infatti, sin dall’inizio dell’anno, il gruppo si è riproposto di ricordare il disastroso evento che si manifestò in Friuli nel 1976 e per due volte, impegnandosi in ricerche di documentazioni , che compaiono anche in mostra: un triste e commosso rievocare quei giorni, specie per coloro i quali li hanno vissuti, o attraverso i ricordi dei familiari delle persone scomparse. Pertanto, ha preso vita una pubblicazione, dove ognuno dei partecipanti al gruppo culturale è presente, con contributi letterari personali, documentazioni e ricordi mai sopiti nel tempo e scritti con sincera partecipazione.

La lettura e l’interpretazione dei testi sarà a cura di Sergio Gentilini, Fiorella Vazzoler, Ornella Ibic, Giuseppe Ruoso, Rosanna Cracco, Dario De Nardin, Milena Priviero, Arturo Casciano.

Per quanto attiene alla mostra, il Cavalier Sergio Gentilini ha messo a disposizione tutto il prezioso materiale raccolto nel tempo: articoli di giornale, immagini, recensioni etc., anche risalenti al periodo dell’evento sismico, insieme ad opere d’arte attinenti.

 

L’orario d’ingresso alla mostra sarà il seguente:

venerdì 25 nov.       h 17.00 – 19.00

sabato 26 nov.         h 17.00 – 19.30

domenica 27 nov.    h 10.30 – 12.00 / 16.00 – 19.30

 

E’ una silloge poetica davvero ricca di analogie, dove la parola si “vela” e si “svela” con una geometria di immagini e di atmosfere mitiche, quella che Adriana Gloria Marigo ci offre nella sua ultima fatica letteraria dal titolo “Senza il mio nome”, Camponotto Editore, 2015.

Adriana Gloria Marigo vive a Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente cura la presentazione di libri, collabora con associazioni e riviste culturali con interventi critici secondo una visione letterario-psicoanalitica. Nel 2015 ha curato insieme con il poeta filologo italianista romeno Geo Vasile l’antologia Elegie del poeta romeno Valeriu Andreanu  e la prefazione della raccolta di poesie Profusioni – Fusibilia Editore - della poetessa Anna Bertini. È curatrice della collana di poesia Alabaster di Caosfera Edizioni - Vicenza -.

Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano - LietoColle, 2009; L’essenziale curvatura del cielo - La Vita Felice, 2012; Senza il mio NOME, Campanotto Editore, 2015; Impermanenza, plaquette per le edizioni Pulcino Elefante, 2015.Dal 2012 è tra i poeti invitati all’annuale rassegna FlussidiVersi sulla poesia mitteleuropea che la Regione Veneto promuove nella città di Caorle. Su invito dell’Associazione Scrittori Sloveni nell’aprile 2014 ha presentato a Lubiana L’essenziale curvatura del cielo e a Capodistria incontrato gli studenti della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale per un dialogo sulla poesia e sul significato di essere poeti.Predilige la diffusione della poesia in una dimensione multidisciplinare e all’interno di altre espressioni artistiche, quali pittura e fotografia: a giugno 2014 ha presentato a Castelfranco Veneto il lavoro poeticoDella natura nostra sulle fotografie di viaggio di Imaire De Poli nell’evento “Di Terra e Arte” del Centro di Ricerca Artistica Immaginario Sonoro.Cura per Samgha la rubrica “Porto sepolto”. 

Ho l’impressione che la scrittura di Adriana Gloria Marigo, che già moveva da un’aspirazione alla luce e alla chiarezza, all’armonia e all’equilibrio sia d’arte che d’intelletto, approdi qui e in questo libro alla formulazione ancor più esplicita di un tale processo. L’artista greco, l’autore geniale del “Parco dell’Acropoli” ad Atene, l’uomo moderno, anzi modernissimo (si pensi a Rimbaud e al suo appello a dover essere necessariamente moderni) che desidera vivere nella propria arte e nella propria esistenza una Grecità non oleografica, né falsa e tanto meno falsata, né nostalgica, sembra incarnare, per la poetessa patavino-luinese, l’atteggiamento di chi ostinatamente leva lo sguardo verso l’alto, di chi, consapevole della propria contemporaneità, vi cerca e vi vuol costruire un “segno eliaco” e in mezzo a due elementi mediterranei e decisivi: l’olivo e la pietra. Se ci si ferma a riflettere, ebbene Dimitris Pikionis ha usato per la sua opera straordinaria materiale di recupero (mattoni, legni, marmi, cocci) derivanti dalla demolizione di costruzioni ottocentesche e del primo Novecento, li ha impiegati per pavimentare i sentieri, i punti panoramici, gli snodi che uniscono l’Acropoli al Colle di Filopappo – e lo ha fatto seguendo un progetto di massima, ma di fatto adottando quelle soluzioni che si rendevano necessarie giorno per giorno, a seconda delle esigenze contingenti, discutendone con le maestranze che posavano i materiali, cercando di realizzare sul terreno un’idea di bellezza e di luce che, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Ebbene: quei materiali provengono da case demolite, da case che hanno accolto e protetto la vita di decine di famiglie, che hanno visto lo scorrere del tempo umano; il libro di Marigo presenta molte somiglianze con tutto questo, ché i “materiali” verbali e stilistici impiegati dall’autrice, così luminosi e armoniosi, procedono da un’esperienza di vita che ha conosciuto anche il dolore, la delusione, la separazione; per forza di stile s’impone un equilibrio espressivo poco comune, ma l’incandescenza che è ogni esistere umano non viene dimenticata, né rimossa – la poesia è, per Gloria, anche un modo per prendere la necessaria distanza dal magma psichico e dagli accadimenti, per dominarli, comprenderli e dar loro forma d’arte.

Non ho difficoltà nell’affermare che si tratta e di una dichiarazione di poetica e di una presa di posizione esistenziale: “il buio / senz’arte” è riguardato con terrore, mentre l’aspirazione si rivolge verso la “frequenza d’onda” della luce (nella sua natura anche ondulatoria, quest’ultima è ritmo musicale e vitale) e il tempio (iltémenos, recinto sacro di bellezza) potrebbe essere il mondo stesso, il luogo nel quale, a ciò necessitati, viviamo e agiamo. Si comprende bene come mai “corifere le stelle // e a loro di luce rituale / dedita la luna” appaiano nella pagina immediatamente successiva e perché, in conseguenza di una tale visione (ancora il tema dello sguardo, si badi), noi umani “scorgemmo la faglia d’altro destino”. Ma questa “faglia”, questa frattura-e-anche-giuntura decisiva esigono la ricerca del nome, in quanto l’atto del nominare è conoscitivo, s’identifica con il fare stesso della poesia – è la parola-che-dice, la-parola-che-enuncia-e-nomina a essere fondatrice; ecco il perché della messa in guardia di pagina 23

Oltre che su quel bellissimo “suono della luce” richiamerei l’attenzione sul sintagma ”inquieto / malleolo in danza” (vedete quanto raffinate sono le immagini, le metafore?) e, nel mezzo, sta “il tonfo della specie”: siamo nel cuore della dialettica marighiana, all’interno della quale si affrontano e si confrontano l’aspirazione alla luce (leitmotiv del libro), espressa traverso l’arte (poesia, musica, architettura, danza non ultima), con le bassezze di cui è capace il genere umano – è questo il motivo per cui sottolineavo come uno stile impeccabile non significa rimozione o indifferenza nei confronti del male, del negativo, del volgare, ma, proprio al contrario, esso evidenzia la tensione che nasce e attraversa la parola quando le nostre aspirazioni più alte debbono fare i conti con l’immenso portato di negativo che c’è in noi, nella nostra contemporaneità, nel nostro vivere insieme. E la mente insegue “la beltà scandalosa / di un emistichio” (pag. 26) e conserva “la flessibile / luce lungo la pietra / grigia d’Eleusi a salvare / la parola che non s’addomestica” (pag. 27) – la mente cerca la bellezza e ne ha cura (“poiché lo sperpero è tanto / infinito il danno” scriverà l’autrice alcune pagine dopo – DELL’AZIONE VANA, pag. 39), in poesia lo fa tramite la parola “sorta dall’era vertiginosa // magnete ultimo d’intima fibra / pregio di perpetuo rischio” (ibidem) e in tal modo la poetessa ribadisce il proprio legame con l’antichità greca, continuandone nel suo presente la natura di calamita capace di fondare l’azione dell’arte e preziosa anche perché rischiosa, stando a significare che il risultato dell’arte non è mai garantito a priori, mai conquistato in maniera definitiva, mai disgiunto dall’essere l’umano stesso sfida e rischio.

e invito a leggere e rileggere il testo, anche per goderne la bellezza ritmica e lessicale; poi mi permetto di mettere in guardia chi eventualmente pensasse si tratti di un neoclassicismo superato e fuori tempo massimo: il neoclassicismo tende a essere pago di sé e a raffigurarsi l’antichità classica secondo canoni che non corrispondono alla realtà antropologica, culturale e storica di quell’epoca; Adriana Gloria Marigo esprime invece la tensione, come ho già scritto sopra, la problematicità, il notevole lato d’ombra, infero quindi, che costituiscono il nostro essere moderni e la cui comprensione affonda anche nella rimeditazione contemporanea di Eleusi e Delfi, dell’Acropoli.

“Infeudarmi di luce” (pag. 29), “una matrice di stella / al giro del vento” (pag. 31), “la chiara incidenza del nome” (pag. 32) dicono via via anche la bellezza linguistica di questo libro, la pervicace ricerca linguistica che l’autrice persegue, riuscendo a portare il proprio linguaggio a un livello di bellezza ancora superiore a quello dei precedenti libri i quali, pure, avevano già raggiunto un’altezza notevolissima e già ponevano Marigo in netta contrapposizione alla tendenza verso la colloquialità e il sermo cotidianus meno sorvegliato e spesso pedissequamente accettato di tanti autori in attività.

Per ritornare poi sul tema del mito, la composizione che a pagina 36 fa esplicito riferimento alla Morte della Piziadi Friedrich Dürrenmatt conferma, a mio parere, come l’accenno frequente al mito da parte di Gloria nulla abbia a che vedere con un passatista e inutile neoclassicismo, ma, invece, sia consapevole scelta e prospettiva sia culturale che storico-antropologica (consideriamo il fatto che l’opera dürrenmattiana non sia tanto un ironizzare sul e uno “s-mitizzare” il mito, ma, invece, un riproporre e riaffermare l’enigma come centrale nella cultura greca antica e delfica in particolare –  ricordate l’esergo di Senza il mio nome?) – per Marigo la morte della Pizia è anche un venir meno al senso più autentico della sapienzialità, cioè della capacità (tenendo conto della porzione di buio e d’enigma) di guardare nell’abisso dell’animo umano: “spersa l’origine della parola” (verso conclusivo di SE SI OSCURA LA STORIA, pag. 38). E alle “creature che nei frammenti / del tempo si diressero / in lume di ragione” (da EMERSA LA TERRA ALLA LUCE, pag. 41), cioè gli esseri umani, si addice un’espressione che la poetessa impiega due volte: “essersi”, “essermi” (pagg. 43 e 45), quasi che il verbo essere conosca una diatesi media (“ essere per sé, essere per me”) e questo accade perché la dialettica tra luce e tenebra, tra esigenza di chiarificazione e insidia del disordine è uno degli assi portanti del libro il quale, in questo suo punto, è enucleato pure di alcuni luoghi geografici (Piano D’Arta, Caorle, Luino e Colmegna) che, legati alla biografia di Marigo, rivestono la funzione di rendere visibile anche nel paesaggio una tale dialettica: e lo sguardo è sempre lì, a cercare la luce o l’azzurro, che ne è una delle forme, ma non basta, perché si può anche, sinesteticamente, udire “il grido della luce stamani ” (pag. 48) cui proprio di fronte (e lo scrivo anche in senso tipografico, trattandosi del testo di pagina 49) si staglia un magnifico notturno:

Questa e la recensione di Domenico Pisana :  L’Autrice, che ha già alle spalle altre opere poetiche e un percorso culturale molto fecondo, tant’è che dal 2012 è stata presente negli eventi letterari “Flussi di Versi” (Festival della poesia mitteleuropea che la Regione Veneto organizza annualmente a Caorle), “Poeti al Castello” (anno 2013, Trento), “Il soggiorno dei poeti” (2013, primo Festival di Arta Terme Poesia), “La Fiera delle Parole” (Padova, 2013), “Libri in cantina” (Susegana, 2013), in questa raccolta essenzializza la sua ispirazione in una articolazione poetica dal piglio filosofico-cosmogonico e di non facile approccio, dove il contrasto tra i lemmi utilizzati diventano “luoghi semantici” di una policromia di sentimenti capaci di stabilire un circuito comunicazionale con il lettore che viene avvolto in un alone di mistero. Quest’ultimo, insomma, viene quasi introdotto in una genesi primordiale dove cielo e terra, luce e ombra, stelle, buio e notte riproducono uno status esistenziale che non appartiene solo alla dimensione più intima della poetessa, ma si estende nell’animo di ogni uomo che sa riconoscersi nelle proprie radici trascendenti.

E’ sintomatico che lungo le tre sezioni nelle quali è suddivisa la raccolta, la parola “luce” appaia ben 14 volte, contrapponendosi ad “ombra”(6 volte) e a “notte”(4 volte) e “buio” ( 2 volte).

Perché questa insistenza della poetessa sulla luce? E che cosa è questa luce cui fa sempre riferimento? Si tratta, probabilmente, di una ricostruzione metaforica del bisogno di attraversare il tempo della notte senza lasciarsi contaminare “dal tormento dei mostri”, dal “terrore del buio”, dalle tenebre e dalla menzogna che s’annidano come angeli nella nostra coscienza ed essenza vitale più profonda.

Questo anelito della Marigo ad “infeudarsi di luce” altro non è che la risposta alle trappole in cui spesso inciampa la vita, ove le voci di Cassandre risuonano come oracoli, l’inganno si fa strada e la “doppiezza delle parole” si leva “in vaticinio nel tempo”.

In “Senza il mio nome”, dunque, Adriana Gloria Marigo apre uno scenario cosmogonico dove il mito diventa non dispersione nei fondali di una fantasia irreale, ma interpretazione del mistero della vita che si interroga sulla sua genesi e sul suo destino.

L’approccio ai versi di questo libro non può che partire da un epistemologia della parola poetica, che non è mero uso della lingua, ma creazione ontologica, afflato che coglie la realtà nella sua nudità per aprire un orizzonte metafisico nel quale ciò a cui l’anima poetica aspira non è il conoscibile ma l’Autore del conoscibile.

Ogni parola in questo testo di Adriana Gloria Marigo è sempre relazionata ad un pensiero complesso ed inafferrabile; i suoi versi nominano l’Innominabile senza necessità di fare ricorso ad un orizzonte diegetico, perché – come riteneva Platone – il linguaggio è “strumentale”: esso è uno strumento per poter comunicare tra gli uomini quanto questi conoscono e quanto esiste.

Nei versi dell’Autrice la parola poetica è usata per designare, significare una cosa. Il “nome” diventa necessario a esprimere ciò che significa. Nella mente di tutti gli uomini, certo, sono presenti, concetti come “luce”, “notte”, “buio”, “ombra”, “stella” “sole”; tuttavia, a questi concetti si possono dare anche nomi diversi; il sole ad esempio, lo possiamo chiamare soleil, sun, sol, elios, è questione di capirsi, ma è altresì certo che tutte queste parole significano una sola cosa: quell’astro che splende.

“Viene il nome a scolpirmi sempre”, “Tutto il tempo affinare il nome”, “essente il nome” dice la poetessa! Questi richiami al nome mi fanno pensare al testo biblico di Genesi dove Dio sollecita l’uomo perché dia nome agli animali e più in generale alle cose: l’uomo venendo a conoscenza delle cose, dà loro un nome; nella tradizione biblica il nome esprime infatti l’essenza, la natura stessa della cosa designata. Dio stesso chiama “per nome”.

In questa raccolta di Adriana Gloria Marigo la realtà che diviene oggetto poetico è, all’apparenza, “senza nome” perché ogni parola utilizzata dalla poetessa non vuole attirare l’attenzione su di sé ma sul Principio primordiale che ha dato nome alle cose; se è vero infatti 

Scrive  Gianluca Conte : Fin dai primi versi di Senza il mio nome, una delle ultime opere di Adriana Gloria Marigo, Campanotto Editore, 2015, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una raccolta poetica generata “in assenza di tempo”, che si colloca fuori dagli angusti spazi dell’umana dimensione secolare. Così, quella che ci appare come una prima, stentorea invocazione, «O luce, declina di stupore / arrendici alla frequenza d’onda […]» (p.19), potrebbe essere intesa come un viatico, che accompagnerà il lettore per tutte le pagine della silloge. E proprio un viaggio, attraverso il personalissimo Cosmos dell’autrice, sembra originare dalle parole, precise e sempre in luogo, di questo lavoro poetico, emanazioni di un sentire che si fa prossimo alla perenne dualità Ordo/Chaos e, con la sua imminenza, diventa sommo medium di un’interpretazione dialettico-semantica della condizione contigua all’uomo. Come “Verbo perenne”, cui non è concessa la Fine ma il Fine, il verso della Marigo risucchia la transitorietà dell’individuo nell’universo sterminato del non-finito, magnificandosi nell’atavico furore, nel materiale intendimento di Achille, che aveva penetrato a fondo la rabbia degli dei, invidiosi dei mortali per il fuoco passeggero ma insaziabile delle passioni cui non sapevano resistere. In Senza il mio nome, un’aura criptica –  prometeico dono, musica orfica – ricca non solo di suggestioni misteriche ma anche di un’invincibile perfezione formale, attutisce «il tonfo della specie» (p.25), e resiste alla matrigna tabula rasa del Conoscere, così temuta e al contempo praticata, tanto che nei versi in questione sovente si è percepito lo slancio (e il coraggio) della Poiesis e della sua pugna con Polemos, una quintessenza energetico-verbale che tutto ghermisce e divora. Ad un’attenta lettura non sfuggono i diversi piani di senso che attraversano l’intera raccolta e donano, a chi sa intendere, baleni di “nuove scienze umane”, Geografie/Geometrie del profondo: «Emersa la terra alla luce / tutta si coprì di pietra verticale / abissi oceanidi / sfolgorii correnti di fiumi / del verde orizzontale […]» (p. 41). La Poesia di Adriana Gloria Marigo è cura della parola, del dettaglio, della mistura alchemica che rende il verso quasi iniziatico, esoterico (nell’accezione filosofica del termine), ed è maestria nell’uso dell’attributo, lo dimostrano, a nostro avviso, binomi come “legittimità dubitosa”, “bassura transitiva”, “fiorescenza memorante”, “anni antelucani”, “iride agemina”.  Spesso nelle liriche dell’autrice il verso sembra muoversi motu proprio nella galassia del Verbum, si contrae e si espande in un sublime jeu des rêves, dove i sogni non sono da intendere come riflessi di una realtà altra o sconfinamenti nell’indefinito emozionale della poetica fanciullezza, bensì come intersezioni psico-poetiche del Tutto, momenti massimi, lande sistemiche e universali, altipiani da cui è possibile scorgere le larghe spalle dei filosofi e dei maestri delle psicologie. Un versificare, quello della poetessa, che rivela il fascino di arcani prodigi, quasi segni di una ricerca poetico-misterica che ci hanno suggerito dei collegamenti intuitivi e analogici con certi diagrammi ideatici preternaturali e consonanze alfanumeriche primigenie (Pitagora, Platone, Lullo, Agrippa); sintagmi aurei, disposti secondo una “tipologia segreta”, una sorta di odierna Qabbaláh che possiede una struttura granitica e un’identità classica, declinabile attraverso modelli fenomenologici di essenze ed essenti poetico-filosofici. In Senza il mio nome nulla è lasciato al caso, come in un preciso mandala o in un perfetto mosaico, tutti i corpi che compongono la costellazione lirica della Marigo si accendono e sfolgorano di luce propria, lasciando il lettore in uno stato di meraviglia e stupore, come se si trovasse davanti alla forza dei millenni e a quell’immensità del sentire in cui, come avrebbe detto Leopardi, s’annega il nostro pensiero.

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